ASCOLTA TUA MADRE

PARTORIRE L'UMANITA'


Sono trascorsi quasi trent’anni da quella sera in cui, adolescente spaurita coi piedi gonfi per le torture, stava per essere fucilata legata a un palo nella prigione di Evin. Fisicamente è rimasta lo scricciolo di porcellana di allora, ma adesso Marina Nemat è una donna che diffonde intorno a sé pace, serenità e comprensione. Che abitano stabilmente in lei: «Ora potrebbero puntarmi una pistola e non tremerei più come quel giorno. Non ho paura perché non ho rimpianti: ho vissuto, ho ritrovato me stessa, ho testimoniato per chi non può più farlo. E chi non ha paura di morire è una persona perfettamente libera, no?». La svolta è stata Prigioniera di Teheran, il libro che ha scritto nel 2007 (cfr. Tempi n. 36, 6 settembre 2007) quasi come una tardiva terapia per liberarsi dell’angoscia soffocante del suo dramma mai raccontato. Nemmeno i genitori avevano voluto, a suo tempo, ascoltarla. Per paura della repressione khomeinista e di non poter sopportare quello che la figlia avrebbe detto. Il matrimonio forzato con una guardia per salvarsi la vita, l’abiura della fede cristiana, la perdita del figlio che portava in grembo a seguito di un attentato. Poi la liberazione dal carcere, il matrimonio con André, il primo amore, e la decisione di abbandonare per sempre il paese dove era nata. Adesso Marina Nemat è approdata al suo secondo libro, che uscirà in Canada e Stati Uniti a settembre prossimo e in Italia a novembre. Stavolta centrato sulla sua vita fuori dall’Iran. Ancora una volta autobiografico, ma non senza uno sguardo critico alla realtà del nuovo mondo che l’ha accolta. Non con l’asprezza di un Solzenicyn ad Harvard, ma col buon senso di una donna che vorrebbe essere madre, moglie, amica, credente, cittadina senza i condizionamenti della cultura di massa. «Vengo da un mondo dove la bellezza era proibita», racconta. «I colori erano proibiti: il rosa, il giallo, l’arancione. Tutto ciò che era meraviglioso era peccato. A Toronto la bellezza è libera, ma si fanno esperienze scioccanti: giri per la strada è incontri ragazzine di dodici anni vestite come prostitute, truccate come donne di venti-trent’anni più vecchie di loro. Vorrei dire loro che non hanno bisogno di quel make-up per essere belle, che quella bellezza artificiale non gli appartiene. Ma poi mi chiedo: "Chi gli ha detto di truccarsi così, di vestirsi così?". E la risposta è: il sistema dei media. Sono i media che trasformano Lady Gaga in un modello. Trovo Lady Gaga devastante per la bellezza e la libertà della donna tanto quanto il chador. Avvelena la femminilità tanto quanto il chador. E fornisce un argomento ai dittatori di Teheran per giustificare la loro repressione della femminilità: "Vedete che in Occidente la donna è ridotta a un oggetto sessuale? Non vogliamo che facciate la stessa fine". Io non chiedo certo che Lady Gaga e le altre cose di questo genere siano dichiarate illegali. Chiedo un esame di coscienza da parte degli adulti: la colpa di questa situazione è nostra. Nei media ci lavorano degli adulti, che stanno facendo questo ai loro figli e alle loro figlie». Con questa premessa, la diffidenza di Marina nei confronti dei media è una logica conseguenza: «Quando faccio la fila al supermercato passo davanti allo scaffale delle riviste, e vedo tutte quelle copertine di gossip. Ma io non voglio sapere nulla della figlia di Tom Cruise, dei fidanzati di Madonna, e nemmeno dei reality sulle famiglie che poi divorziano! Per sapere perché il 70 per cento dei giornali mette in prima pagina questo genere di storie, basta alzare la testa e guardare i cartelloni pubblicitari: sono tutti pieni di donne svestite, qualsiasi sia il prodotto che vogliono pubblicizzare. Ma sono anche le stesse pubblicità che si trovano nei giornali o si vedono in tivù, che permettono a giornali e tivù di produrre profitti. Per cui i media alimentano volentieri la cultura e la visione della vita che sta dietro quelle pubblicità, perché è ciò che permette loro di sostenersi dal punto di vista economico. Si è creata una spirale che alimenta quel modo di pensare. Per questo io mi tengo alla larga dal sistema dei media. Per informarmi e per comunicare preferisco twitter, preferisco youtube, facebook e tutte le risorse di internet. Leggo molti blog di giornalisti, scrittori e artisti».Gli eserciti del conformismoQueste considerazioni non fanno della scrittrice iraniana una femminista accigliata. Al suo arrivo in Canada le femministe hanno cercato di accaparrarsela, ma con poco successo: «Non capisco molto il femminismo, perché per me il punto è sempre stato promuovere il rispetto dei diritti umani: è ovvio che comprendono quelli della donna. Se poi invece dobbiamo immaginare una guerra fra uomini e donne per il potere, no, non ci sto: vedo donne che agiscono per rabbia e per spirito di rivalsa, e io non sarò mai così». Per tutte le suddette ragioni è molto prudente riguardo alla campagna mediatica contro Benedetto XVI che denuncia sue asserite responsabilità nella mancata repressione del fenomeno della pedofilia fra i sacerdoti. «Non sono informata in modo dettagliato sull’argomento, ma la convinzione che mi sono fatta è duplice: che la Chiesa ha certamente compiuto degli errori, e che i media li stanno amplificando in misura sproporzionata. Io so che il papa non è Dio, è un essere umano; e gli esseri umani fanno errori. Ma gli errori non mi allontaneranno mai dalla Chiesa per una semplice ragione: ho visto e vedo tutto il bene che compiono gli uomini di Chiesa, e per questo continuerò a sostenerli. Mio marito e mio fratello in Iran hanno studiato alle scuole dei salesiani e provano una profonda gratitudine verso gli insegnanti sacerdoti che hanno avuto. E così centinaia di loro compagni di studi. Ma queste storie non fanno notizia, al contrario degli abusi di qualche prete e dei provvedimenti dei superiori o del Papa che non sarebbero stati abbastanza decisi». «Una delle cose che apprezzo di più dell’Occidente è il fatto che il rapporto con Dio è qualcosa di personale, non è determinato dallo Stato. Nel secondo caso, la religione diventa sempre uno strumento del potere, come in Iran. Una delle cose che mi rattristano di più, invece, è vedere che tantissime persone non si curano di approfondire questa relazione, e arrivano a dire che la vita non ha alcun senso. Di qui la depressione, i suicidi. Ma questo non si cambia combattendo nelle strade, ma coltivando rapporti personali che aiutano le persone a ritrovare se stesse». - di Rodolfo Casadei - Tempi -