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Oggi in Italia oltre il 14 per cento dei posti disponibili per infermieri rimane vacante per mancanza di candidature. Ecco cosa sta andando in crisi«Lavoro per cinque posti diversi. Lunedì, martedì e mercoledì pomeriggio sto qui nella residenza per anziani. Il resto del tempo lo passo in ambulatori pubblici dove i malati sono moltissimi. Poi, siccome c’è bisogno, mi sono resa disponibile per le visite domiciliari. Le mie pause pranzo le uso per gli spostamenti, mentre la sera e il fine settimana mi prendo cura dei miei genitori ammalati. Se non mi interessasse la persona con i suoi bisogni e non sapessi perché vale la pena fare tutto mi risparmierei, come fanno tanti». Le parole di Angela Perego, medico fisiatra milanese, fanno onore alla tempra di Florence Nightingale, fondatrice della professione infermieristica che unì alla carità lo studio, riducendo la mortalità dei soldati nella guerra di Crimea del 40 per cento e di cui proprio questo mese si festeggia il centenario. Parole che fanno riflettere quando coincidono con la denuncia di un recente rapporto Istat che fotografa la professione infermieristica in Italia. Nel volume si stima la disabilità come una condizione sempre più legata all’invecchiamento della popolazione, che aumenterà nei prossimi 25 anni del 65-75 per cento. Il rapporto denuncia il «perdurare della carenza di servizi da parte del sistema sociale», con il 33 per cento dei nuclei familiari con disabili a carico che non usufruisce dell’aiuto che gli spetterebbe, mentre la grande maggioranza delle famiglie che se ne avvalgono (una su due) riceve prestazioni di tipo gratuito. Ma il problema sta a monte e non è solo politico o sistemico. Basta guardare i dati relativi alla professione infermieristica per capire che «è lì il nodo da sbrogliare. I dati sulla carenza di organico sono noti da anni», spiega a Tempi Cecilia Sironi, supervisore didattico del corso di laurea in Infermieristica presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Secondo l’ultimo rapporto Ipavsi (Federazione nazionale infermieri professionali, assistenti sanitari e vigilatrici d’infanzia), l’Italia resta in fondo alle classifiche dei paesi sviluppati. Se il Nord Europa si colloca in testa, con un infermiere professionista attivo ogni 70 abitanti, in Italia il rapporto è di uno a 171. Non solo, secondo lo studio il 14,5 per cento dei posti disponibili per la formazione è rimasto inutilizzato per mancanza di iscrizioni. Inoltre, lo stipendio base di un infermiere italiano è sotto la media europea. Se la paga mensile media in euro (al cambio con il dollaro a parità di potere d’acquisto e di ore lavorative) nel Regno Unito è di 1.963, in Francia di 1.948 e in Germania di 1.700, in Italia scende a 1.235. Bisogna poi contare che mentre negli altri paesi gli straordinari sono adeguatamente pagati, nel nostro sono invece scarsamente retribuiti. Secondo Sironi, diplomata infermiera in Italia, specializzata in Gran Bretagna e laureata in Irlanda, la ragione di una simile differenza e la sottovalutazione della professione hanno radici storiche: «In Italia l’assistenza è nata dalla carità gratuita degli ordini religiosi. Quando sono partita per Londra ho visto un’efficienza e una valorizzazione della professione inesistente in Italia. Il Sessantotto incolpava le origini religiose dell’assistenza, io invece da quel dato recuperavo l’amore per questo lavoro, tanto da fare di tutto per "rubare" ai paesi del Nord la migliore tecnica». Anche secondo Susan Gordon, nota giornalista e femminista americana, che da vent’anni segue le vicende degli infermieri e ne sostiene la causa dopo averne scoperto l’importanza durante il parto in ospedale, spiega a Tempi che «il problema è che nel sentire comune le infermiere sono quelle simpatiche e buone, non intelligenti o competenti». Sia per Sironi sia per Gordon, si investe parecchio sui medici senza rendersi conto che il lavoro dei primi è inutile senza quello degli infermieri. «Ci sono tanti casi di infermieri che hanno salvato i pazienti scontrandosi con i medici: sono loro che stanno con il paziente tutto il giorno. Il medico salva, ma senza l’infermiere non ce la farebbe». È necessario quindi che la politica valorizzi l’accoglienza con salari e formazione adeguati, ma non è sufficiente perché», chiarisce Gordon, «sta a loro non accontentarsi di fare qualche carezza, prepararsi e aggiornarsi». Per Sironi, che ha deciso di «abbandonare il lavoro sul campo proprio per dedicarsi allo studio e alla formazione degli infermieri», occorre far appassionare realmente gli studenti. «Innanzitutto, affianco lo studente a modelli che ritengo positivi, persone che sanno trattare con cura e professionalità il paziente. Poi, cerco di tirare fuori da chi ho davanti la voglia di conoscere e lavorare bene. Perciò non smetto di aggiornarmi, di ricercare e scrivere libri. Più ami in maniera radicale più ti ingegni. Se la mamma vuole bene al figlio che sta male si dà da fare in ogni modo, non si accontenta di fargli un sorriso. È dura perché sempre meno ragazzi crescono con questa consapevolezza, ma di fronte a un modo appassionante di lavorare non si tirano indietro. Ho tanti studenti che lavorano con me per la Consociazione nazionale associazioni infermiere e mi aiutano a diffondere la cultura infermieristica. C’è un rapporto prezioso». Ma da dove nasce questa capacità, quasi smarrita, di accogliere e generare? «Da madri e padri veri. Come quelli che ho avuto io, che hanno puntato su di me, spingendomi avanti in continuazione. Solo essendo continuamente amati si possono affrontare la sofferenza e l’imperfezione, proprie e degli altri». Solo partendo da qui è possibile andare avanti «anche con stipendi bassi e turni duri dovuti alla mancanza di organico», e poi far sì, come ricorda di nuovo Susan Gordon, che «gli infermieri incomincino a farsi pubblicamente avanti per far capire l’utilità sociale che hanno in un mondo che dipende sempre più dalle loro cure». Per Sironi, questa crisi va sfruttata attentamente: «È il momento di puntare sulla capacità di chi è ancora in grado di accogliere, ma faremmo un errore se ci fermassimo a questa senza sostenerne le implicazioni. Si valorizzano le badanti, ma non basta: un malato ha bisogno di cure competenti, perciò falliremmo se non puntassimo anche sull’alta formazione e sugli incentivi a questa professione». - di Benedetta Frigerio - tempi -