ASCOLTA TUA MADRE

LE LACRIME DI UNA MADRE NON ASCOLTATA

 

FERMIAMO LA LEGGE CONTRO L'OMOFOBIA

 

TELEFONO VERDE "SOS VITA" 800813000

CHE COSA E' IL TELEFONO "SOS VITA"?
 
È un telefono “salva-vite”, che aspetta soltanto la tua chiamata. E' un telefono verde, come la speranza la telefonata non ti costa nulla,
Vuole salvare le mamme in difficoltà e, con loro, salvare la vita dei figli che ancora esse portano in grembo.
E quasi sempre ci riesce, perché con lui lavorano 250 Centri di aiuto alla vita.
 
Il Movimento per la vita lo ha pensato per te
 
Puoi parlare con questo telefono da qualsiasi luogo d’Italia: componi sempre lo stesso numero: 800813000.
 
Risponde un piccolo gruppo di persone di provata maturità e capacità, fortemente motivate e dotate di una consolidata esperienza di lavoro nei Centri di aiuto alla vita (Cav) e di una approfondita conoscenza delle strutture di sostegno a livello nazionale. La risposta, infatti, non è soltanto telefonica.
 
Questo telefono non ti dà soltanto ascolto, incoraggiamento, amicizia, ma attiva immediatamente un concreto sostegno di pronto intervento attraverso una rete di 250 Centri di aiuto alla vita e di oltre 260 Movimenti per la vita sparsi in tutta Italia.

 
DUE MINUTI PER LA VITA

Due minuti al giorno è il tempo che invitiamo ad offrire per aderire alla grande iniziativa di
preghiera per la vita nascente che si sta diffondendo in Italia dal 7 ottobre 2005 in
occasione della festa e sotto la protezione della Beata Vergine Maria, Regina del Santo Rosario.
Nella preghiera vengono ricordati ed affidati a Dio:
 i milioni di bambini uccisi nel mondo con l’aborto,
 le donne che hanno abortito e quelle che sono ancora in tempo per cambiare idea,
 i padri che hanno favorito o subito un aborto volontario o che attualmente si trovano accanto ad
una donna che sta pensando di abortire,
 i medici che praticano aborti ed il personale sanitario coinvolto, i farmacisti che vendono i
prodotti abortivi e tutti coloro che provocano la diffusione nella società della mentalità abortista,
 tutte le persone che, a qualsiasi livello, si spendono per la difesa della vita fin dal concepimento.
Le preghiere da recitarsi, secondo queste intenzioni, sono:
 Salve Regina,
 Preghiera finale della Lettera Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II
 Angelo di Dio,
 Eterno riposo.
Il progetto è quello di trovare 150.000 persone, che ogni giorno recitino le preghiere. Il numero corrisponde a quello - leggermente approssimato per eccesso – degli aborti accertati che vengono compiuti ogni giorno nel mondo, senza poter conteggiare quelli clandestini e quelli avvenuti tramite pillola del giorno dopo. Per raggiungere tale obiettivo occorre l’aiuto generoso di tutti coloro che hanno a cuore la difesa della vita.

“Con iniziative straordinarie e nella preghiera abituale,
da ogni comunità cristiana, da ogni gruppo o associazione,
da ogni famiglia e dal cuore di ogni credente,
si elevi una supplica appassionata a Dio,
Creatore e amante della vita.”
(Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, n. 100)

Ulteriori informazioni su: www.dueminutiperlavita.info
 

PREGHIERA A MARIA PER LA VITA GIOVANNI PAOLO II

O Maria, aurora del mondo nuovo, Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della vita:
guarda, o Madre, al numero sconfinato di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere, di uomini e donne vittime di disumana violenza, di anziani e malati uccisi dall'indifferenza o da una presunta pietà.
Fà che quanti credono nel tuo Figlio sappiano annunciare con franchezza e amore agli uomini del nostro tempo il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine in tutta la loro esistenza
e il coraggio di testimoniarlo con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà, la civiltà della verità e dell'amore
a lode e gloria di Dio creatore e amante della vita.
Giovanni Paolo II


 

AREA PERSONALE

 

Messaggi del 22/05/2010

IL CAPOLAVORO (SACRO) DI UN MANGIAPRETI

Post n°3612 pubblicato il 22 Maggio 2010 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

L’ultima installazione di Dan Flavin. O di come un quotatissimo artista newyorkese di sinistra e anticlericale decise di lasciare il suo «grande testamento» di luci al neon in una chiesetta della periferia di Milano.

Basti ricordare come reagì l’elettricista. Sì, l’elettricista che aveva montato le lampade al neon. Tutto il tempo aveva borbottato che quella era roba che avrebbe potuto fare anche lui, altro che arte. Lui si occupava di cavi, spine, volt e ampère… Come si fa a fare arte con queste cose? Poi a un certo punto l’impianto si accese e illuminò la volta, il transetto e l’abside della chiesa. Alzò lo sguardo dall’interrutore, spalancò gli occhi e rimase in silenzio. Commosso corse a casa a chiamare la moglie: anche lei doveva vedere quella meraviglia. Ma la storia di come fu che in una parrocchia della periferia degradata di Milano, la Chiesa Rossa di via Neera 24, venne istallata un’opera del grande artista americano Dan Flavin va raccontata dall’inizio. La prima cosa che va detta è che se in Italia conosciamo il nome di Dan Flavin lo dobbiamo a Giuseppe Panza, uno dei più importanti collezionisti d’arte contemporanea al mondo, morto a 87 anni lo scorso 24 aprile. Panza era un uomo d’altri tempi: colto, raffinato, innamorato dell’arte perché innamorato della bellezza. Ma era anche uno capace di fiutare il futuro. Il suo incontro con Flavin è emblematico. Nel 1967 vide per la prima volta le opere di questo artista newyorkese che utilizzava esclusivamente lampade al neon di tipo commerciale. Fu amore a prima vista. «Le lampade fluorescenti mi apparivano un nuovo mondo di emozioni fatte con la luce», racconta Panza nella sua autobiografia Ricordi di un collezionista. «Era l’apparizione di un’immagine soprannaturale. Era arte religiosa, senza simboli, senza riti, senza intermediari, era la presenza diretta del soprannaturale, la via verso l’assoluto». Ma per Dan Flavin le cose non stavano così. Per lui quelle opere non erano nient’altro che quel che erano: spazi illuminati da lampade al neon colorate in cui entrare e uscire. Tutto qui. Era un intellettuale di sinistra, contestatore e anticlericale. Da adolescente aveva frequentato il seminario dei gesuiti, che aveva abbandonato insieme alla fede cattolica trasmessagli dai genitori. Il suo rapporto con Panza non era idilliaco proprio per via di quella interpretazione “mistica” delle opere. Ciononostante il collezionista dedicò all’artista americano, ormai celebrato in tutto il mondo, un’intera ala della sua villa di Biumo, a Varese.

Panza, Laura Mattioli e don Giulio
Di qui, per arrivare alla Chiesa Rossa, occorre introdurre un altro personaggio chiave: Laura Mattioli Rossi. Anche lei è una collezionista, o meglio, è la figlia di un altro grande collezionista: l’industriale Gianni Mattioli. Anche lei è un’appassionata di Dan Flavin. Frequenta, con la famiglia, la parrocchia milanese di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa (detta “la Chiesa Rossa”), all’epoca presieduta dal parroco don Giulio Greco. La Chiesa Rossa è a due passi da via dei Missaglia, quartiere Vigentino, una zona tutta case popolari occupate e immigrazione selvaggia. L’edificio fu costruito nel 1932, dall’architetto Giovanni Muzio. L’idea originale ha una sua dignità, ma a metà anni Novanta quel che nei decenni si era sovrapposto ad essa aveva reso la chiesa, agli occhi di Laura, «di una bruttezza tremenda».
A Laura l’idea venne a Francoforte, mentre era immersa nel silenzio della luce colorata di un’istallazione di Dan Flavin. Le vennero in mente suo marito, i suoi figli, la sua vita… Ma anche don Giulio, la sua chiesa di periferia e come avrebbe potuto essere proprio Dan Flavin a renderla stupenda. Quanto costa un’opera di Flavin? Cinquantamila dollari, rispose Panza. Si può fare. Viene convinto anche il parroco, don Giulio, che a villa Panza si commuove per l’opera di Flavin dedicata al fratello morto in Vietnam. L’uomo di contatto fu Michael Govan, direttore della Dia Foundation di New York: promise di parlare con l’artista del progetto. Ma quando seppe di cosa si trattava esattamente Flavin fu lapidario: per una chiesa cattolica non avrebbe mai lavorato. L’ultima chance era che don Giulio scrivesse direttamente a Dan.

Gentile signor Flavin, per vie che ritengo ancora misteriose, ho avuto la possibilità di incontrare la Sua opera. (…) Da undici anni sono qui a Milano, parroco in una zona di periferia: la grande città ha sempre dei mucchi di rifiuti umani alle sue porte. (…) Ora vorrei ripristinare lo spazio del Muzio, che è lo spazio della nostra Chiesa, punto d’incontro del nostro attuale quartiere disturbato dalla nuova selvaggia immigrazione, dal disordine amministrativo, dall’enigma islamico, dalla paura di espulsione di tanti uomini, ingiusti ma pur sempre uomini… La luce trafiggente del dolore umano continua da noi il grande dolore del Calvario. Proprio perché tentiamo sempre di dimenticare quello che ci ferisce, vorrei che l’interno della chiesa ricordasse tutte le sofferenze della città di oggi. Ma anche nella luce di un’espressione che è già dialogo con qualcuno, che ascolta e che può sommare tutto il male al male della croce. Questa collocazione è significativa: indica la strada della speranza. Anche il male non può essere l’ultima parola, ma la richiesta di una presenza, di una energia che si aggiunge a contenere l’esagerazione che ci piega. Come la Pietà Rondanini che si conserva qui al Castello Sforzesco: il sofferente sostiene la Madre svuotata dal dolore. Mi farebbe molto piacere che una persona come Lei, ricca di sensibilità e desiderosa di comunicare il sapore del mondo attuale, potesse aiutarci a trovare nella nostra chiesa un ambiente. Per ambiente intendo uno spazio vivo, il luogo dove abita una parola, un invito sensibile a collocare il cuore in sintonia con una storia, che è la nostra, quella fatta di poveri uomini, di fronte al grande uomo della croce e della resurrezione. (…) La saluto, Don Giulio. Milano, 10 maggio 1996».

Flavin lesse la lettera e si commosse profondamente. Debole e immobilizzato su una sedia a rotelle a causa del diabete, disse: «Questo sarà il mio grande testamento». La Dia Foundation accettò di pagare i costi dell’installazione, mentre la Fondazione Prada di Milano si impegnava a garantire il mantenimento dell’opera pagando i costi dell’elettricità. Tramite modellini e filmati Dan Flavin cominciò a lavorare al progetto. Govan racconta che Flavin sembrava non pensare ad altro e l’opera era al centro della sua attenzione anche nei momenti più impensati, come quando guardava una partita di baseball alla televisione, bevendo whisky.

«Adesso posso morire in pace»
Passò l’estate. A inizio autunno le uniche notizie su Flavin riguardavano il peggioramento del suo stato di salute. Il 29 novembre 1996 il grande artista morì, stroncato dalle complicazioni renali e cardiache legate al diabete. Tutti pensarono che il progetto della Chiesa Rossa fosse morto con lui. Ma la gioia prese il posto dello sconforto quando Govan, dall’altra parte dell’oceano, fece sapere che Flavin gli aveva consegnato il progetto definitivo per la Chiesa Rossa due giorni prima di morire, dicendogli : «Adesso posso finalmente morire in pace».
L’installazione milanese di Dan Flavin fu inaugurata l’anno successivo, in occasione di una grande retrospettiva alla Fondazione Prada. È inutile descrivere l’opera a chi legge. Bisogna guardare la fotografia, anche se nemmeno quella basterà. Flavin va visto dal vivo. A Villa Panza a Varese, oppure a Milano durante le Messe alla Chiesa Rossa. Meglio se in una sera di inverno. - Luca Fiore - Tempi -

 
 
 

PENTECOSTE: QUANDO I CRISTIANI FANNO LA TRAVERSATA DELLA VITA A "PANE E FORMAGGIO", SENZA GIOIA, SENZA ENTUSIASMO

Post n°3611 pubblicato il 22 Maggio 2010 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

Molti cristiani fanno la traversata della vita a 'pane e formaggio', senza gioia, senza entusiasmo, quando potrebbero, spiritualmente parlando, godere ogni giorno di ogni 'ben di Dio', tutto 'compreso nel prezzo' di essere cristiani.

A tutti è capitato di osservare qualche volta la scena di un'auto in panne con dentro l'autista e dietro una o due persone che spingono faticosamente, cercando inutilmente di imprimere all'auto la velocità necessaria per partire. Ci si ferma, si asciuga il sudore, e ci si rimette a spingere... Poi improvvisamente, un rumore, il motore si mette in moto, l'auto va, e quelli che spingevano si rialzano con un sospiro di sollievo. È un'immagine di ciò che avviene nella vita cristiana. Si va avanti a forze di spinte, con fatica, senza grandi progressi. E pensare che abbiamo a disposizione un motore potentissimo ('la potenza dall'alto'!) che aspetta solo di essere messo in moto. La festa di Pentecoste dovrebbe aiutarci a scoprire questo motore e come si fa a metterlo in azione. Il racconto degli Atti comincia dicendo: 'Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo'. Da queste parole deduciamo che la Pentecoste preesisteva... alla Pentecoste. C'era già, in altre parole, una festa di Pentecoste nel giudaismo e fu durante tale festa che scese lo Spirito Santo. Non si capisce la Pentecoste cristiana, senza tener conto della Pentecoste ebraica che l'ha preparata. Nell'Antico Testamento sono esistite due interpretazioni della festa di Pentecoste. All'inizio era la festa delle sette settimane, la festa del raccolto, quando si offriva a Dio la primizia del grano, ma successivamente, e certamente al tempo di Gesù, la festa si era arricchita di un nuovo significato: era la festa del conferimento della legge sul monte Sinai e dell'alleanza. Se lo Spirito Santo viene sulla Chiesa proprio il giorno in cui in Israele si celebrava la festa della legge e dell'alleanza, è per indicare che lo Spirito Santo è la legge nuova, la legge spirituale che suggella la nuova ed eterna alleanza. Una legge scritta non più su tavole di pietra, ma su tavole di carne, che sono i cuori degli uomini. Queste considerazioni fanno sorgere subito una domanda: noi viviamo sotto la legge vecchia o sotto la legge nuova? Compiamo i nostri doveri religiosi per costrizione, per timore e per abitudine, o invece per intima convinzione e quasi per attrazione? Sentiamo Dio come padre o come padrone? Concludo con una storia. All'inizio del secolo una famiglia del sud Italia emigra negli Stati Uniti. Non avendo abbastanza denaro per pagarsi i pasti al ristorante, portano con sé il vitto per il viaggio, pane e formaggio. Col passare dei giorni e delle settimane il pane diventa raffermo e il formaggio ammuffito; il figlio a un certo punto non ne può più e non fa che piangere. I genitori tirano fuori allora i pochi spiccioli rimasti e glieli danno perché si goda un bel pasto al ristorante. Il figlio va, mangia e torna dai genitori tutto in lacrime. 'Come, abbiamo speso tutto per pagarti un bel pranzo e tu ancora piangi?'. 'Piango perché ho scoperto che un pranzo al giorno al ristorante era compreso nel prezzo, e noi abbiamo mangiato tutto il tempo pane e formaggio!'. Molti cristiani fanno la traversata della vita a 'pane e formaggio', senza gioia, senza entusiasmo, quando potrebbero, spiritualmente parlando, godere ogni giorno di ogni 'ben di Dio', tutto 'compreso nel prezzo' di essere cristiani. Il segreto per sperimentare quella che Giovanni XXIII chiamava 'una nuova Pentecoste' si chiama preghiera. È lì che scocca la 'scintilla' che accende il motore! Gesù ha promesso che il Padre celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (Lc 11, 13). Chiedere, dunque! La liturgia di Pentecoste ci offre espressioni magnifiche per farlo: 'Vieni, Santo Spirito... Vieni, padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori. Nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto. Vieni , Santo Spirito!'. - Padre R. Cantalamessa - donboscoland -

 
 
 

SANTA RITA DA CASCIA: LA SANTA DEI CASI IMPOSSIBILI

Post n°3610 pubblicato il 22 Maggio 2010 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti. Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza. La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità. Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione. Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante. E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio. Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo. Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente. Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento. Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto. Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie. I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta. E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite. Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita. Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre. A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc. Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio. S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente. Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia. Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero. Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro. Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni. La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere. Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione. La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio. E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté. Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle. Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli. Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura. Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa. Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia. Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita. Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte. Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente. Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino. Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra. -  Antonio Borrelli - [Innamorati di Maria]

 
 
 

PAPA BENEDETTO XVI: C'E' BISOGNO DI POLITICI AUTENTICAMENTE CRISTIANI

Post n°3609 pubblicato il 22 Maggio 2010 da diglilaverita
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Di fronte a una dialettica democratica sempre più indebolita dall' “individualismo utilitaristico ed edonista” i laici sono chiamati a riscoprire la loro vocazione a una cittadinanza attiva, illuminati dagli insegnamenti della Chiesa. E' quanto ha detto questo venerdì Benedetto XVI nel ricevere in udienza i partecipanti alla 24.ma Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, in corso a Roma dal 20 al 22 maggio sul tema: Testimoni di Cristo nella comunità politica. Pur ricordando che la Chiesa non pretende di intromettersi nelle questioni politiche il Papa ha tuttavia ribadito la necessità della tutela dei “diritti fondamentali della persona” e della “salvezza delle anime” nonché della promozione di quei valori che garantiscono un autentico sviluppo della società. “Spetta ai fedeli laici – ha sottolineato – mostrare concretamente nella vita personale e familiare, nella vita sociale, culturale e politica, che la fede permette di leggere in modo nuovo e profondo la realtà e di trasformarla; che la speranza cristiana allarga l’orizzonte limitato dell’uomo e lo proietta verso la vera altezza del suo essere, verso Dio; che la carità nella verità è la forza più efficace in grado di cambiare il mondo; che il Vangelo è garanzia di libertà e messaggio di liberazione”. “Compete ancora ai fedeli laici – ha continuato – partecipare attivamente alla vita politica, in modo sempre coerente con gli insegnamenti della Chiesa, condividendo ragioni ben fondate e grandi ideali nella dialettica democratica e nella ricerca di un largo consenso con tutti coloro che hanno a cuore la difesa della vita e della libertà, la custodia della verità e del bene della famiglia, la solidarietà con i bisognosi e la ricerca necessaria del bene comune”. La politica, ha evidenziato il Papa, “richiama i cristiani a un forte impegno per la cittadinanza, per la costruzione di una vita buona nelle nazioni, come pure ad una presenza efficace nelle sedi e nei programmi della comunità internazionale”. “C’è bisogno di politici autenticamente cristiani – ha osservato ancora il Santo Padre –, ma prima ancora di fedeli laici che siano testimoni di Cristo e del Vangelo nella comunità civile e politica. Questa esigenza dev’essere ben presente negli itinerari educativi delle comunità ecclesiali e richiede nuove forme di accompagnamento e di sostegno da parte dei Pastori”. A questo proposito ha affermato che l’appartenenza dei cristiani ad associazioni e movimenti “può essere una buona scuola per questi discepoli e testimoni, sostenuti dalla ricchezza carismatica, comunitaria, educativa e missionaria propria di queste realtà”. E' necessario, ha continuato, “recuperare e rinvigorire un’autentica sapienza politica; essere esigenti in ciò che riguarda la propria competenza; servirsi criticamente delle indagini delle scienze umane; affrontare la realtà in tutti i suoi aspetti, andando oltre ogni riduzionismo ideologico o pretesa utopica”. Tenendo sempre a mente che “la politica è anche una complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi”, ha concluso infine il Papa, occorre che i giovani si impegnino in una vera “rivoluzione dell’amore”, “un impegno fondato non su ideologie o interessi di parte, ma sulla scelta di servire l’uomo e il bene comune, alla luce del Vangelo”. - Zenit -

 
 
 

VIVIAMO MAGGIO CON MARIA: MADRE DI OGNI BONTÀ - 22 MAGGIO -

Post n°3608 pubblicato il 22 Maggio 2010 da diglilaverita
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Una canzone popolare canta: "Son tutte belle le mam­me del mondo". E questa bellezza universale rimane in­tatta, in tutte le mamme, anzi aumenta e non sfiorisce con gli anni, anche quando sul volto materno appaiono le pri­me rughe coi primi fili d'argento. Fulton Sheen, in una pa­gina vibrante di soave poesia, arditamente afferma: "La maternità è una naturale Eucaristia. A ogni bimbo attac­cato al suo seno, la madre dice: prendi e mangia: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Se tu non ti nutri della mia carne e non bevi il mio sangue, non avrai la vi­ta in te". Pare un'ardita analogia poetica, ma insieme è realtà. La prima dote di una madre è un continuo dono di amore di tutta se stessa, per tutta la vita.
   Forse noi uomini traduciamo questa dote essenziale materna in un termine più accessibile, quando si dice per antonomasia: la bontà materna. E’ unica nel suo genere. "Il profumo della bontà - dice Socrate - è il più adatto per una madre". Vivessi mille anni, non potrei mai dimenti­care la bontà di mia madre! Nessun'altra donna sarà ca­pace come lei e quanto lei di ridarmi questo misterioso do­no della vita. E quando penso alla dolce Madre di Gesù, alla sua virginea, fresca e ineguagliabile bontà materna, è come se tentassi di portare un po' di cielo in terra, simile al fiorire di un'aurora in un chiaro e limpido mattino. Per­ciò Dante l'ha chiamata - "Donna del Paradiso" - "Bel­lezza che letizia tutti i Santi" - perché aduna in sé, come in un vasto oceano, e la grazia, la misericordia, la pietà, la magnificenza "quantunque in creatura è di bontate".

Fioretto: A Maria, alla madre mia, dirò tutto quello che mi turba, mi inquieta. Tutto quanto ho in cuore lo confi­derò a Maria.

Giaculatoria: "Madre di ogni bontà, prega per noi e per i figli tuoi.

Dalla rivista mensile religiosa "PAPA GIOVANNI" n. 4, realizzata dai ‘Sacerdoti del S. Cuore’ (Dehoniani)

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: diglilaverita
Data di creazione: 16/02/2008
 

 

LE LACRIME DI MARIA

 

MESSAGGIO PER L’ITALIA

 

Civitavecchia la Madonna piange lì dove il cristianesimo è fiorito: la nostra nazione, l'Italia!  Dov'è nato uno fra i più grandi mistici santi dell'era moderna? In Italia! Padre Pio!
E per chi si è immolato Padre Pio come vittima di espiazione? Per i peccatori, certamente. Ma c'è di più. In alcune sue epistole si legge che egli ha espressamente richiesto al proprio direttore spirituale l'autorizzazione ad espiare i peccati per la nostra povera nazione. Un caso anche questo? O tutto un disegno divino di provvidenza e amore? Un disegno che da Padre Pio agli eventi di Siracusa e Civitavecchia fino a Marja Pavlovic racchiude un messaggio preciso per noi italiani? Quale? L'Italia è a rischio? Quale rischio? Il rischio di aver smarrito, come nazione, la fede cristiana non è forse immensamente più grave di qualsiasi cosa? Aggrappiamoci alla preghiera, è l'unica arma che abbiamo per salvarci dal naufragio morale in cui è caduto il nostro Paese... da La Verità vi Farà Liberi

 

 

 
 

SAN GIUSEPPE PROTETTORE

  A TE, O BEATO GIUSEPPE

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio dopo quello della tua santissima Sposa.
Per quel sacro vincolo di carità, che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità, che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni.
Proteggi, o provvido custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo: allontana da noi, o Padre amatissimo, gli errori e i vizi, che ammorbano il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità; e stendi ognora ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso, possiamo virtuosamente vivere, piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo.
Amen
San Giuseppe proteggi questo blog da ogni male errore e inganno.

 
 
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