Nero su bianco

Canzone per un amico


Canzone per un amico
Non accusatemi di plagio: il titolo che ho scelto è un’autentica spudorata copiatura e ne sono pienamente consapevole però, per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a trovare niente di più adatto al mio scopo.Quello di ricordare un uomo, forse il miglior amico che abbia mai avuto che, come la ragazza della canzonedi Guccini (cantata dai Nomadi) ha lasciato questa valle di lacrime a causa di un incidente automobilistico. Se fossi pratico di note l'avrei fatta anch'io in musica, ma chi sventuratamente mi ha udito cantare asserisce d'esser sopravvissuto a stento, pertanto uso le parole, con le quali ritengo di cavarmela discretamente.Adopero il suo vero nome e se qualche parente intendesse porre obiezioni gli faccio presente che io detengo i diritti vantati dall’amicizia.La prima volta che lo vidi rimasi di sasso:- Che ci faccio al cinema di primo mattino, - mi chiesi - dovrei essere in cantiere.-Davanti a me avevo uno dei“Magnifici sette”, il film in cui il pelato più famoso del grande schermo, Yul Brinner, conduce un gruppo di pistoleri americani in una sanguinosa battaglia in difesa di poveri contadini. Fra gli interpreti c’era un attore che, in seguito sarebbe diventato famosissimo anche in Italia. Piccolo, fisico statuario, mascella squadrata, occhi nerissimi e un sorriso lievemente beffardo, nel film non portava ancora i baffetti che in seguito sarebbero diventati la sua principale caratteristica. Era stato anche “Armonica” in “C’era una volta il West” di Sergio Leone, il mio film preferito.Ora mi trovavo davanti al suo sosia e, in piedi accanto a lui, il Capo mi disse:- Ti presento Alfredo, un nuovo assunto, prendilo con te e insegnagli il mestiere. -Era uguale in tutto e per tutto,a parte la faccia che, pur essendo anch’essa molto somigliante, mostrava diversi anni in meno. Il fisico, seppur minuto era scolpito e muscoloso e anche nel carattere faceva il verso al famoso attore, parlava poco e con frasi scarne e scandite. Sul lavoro era bravo, attento e generoso, imparava alla svelta e se, per qualche motivo, ci si doveva fermare era sempre l’ultimo a posare gli attrezzi ed il primo a riprenderli. Si impegnava tantissimo e quando qualcosa veniva realizzato in maniera un po' imperfetta, non cercava scuse e si prendeva le sue colpe, spesso anche quelle dei compagni.Io lo chiamavo col cognome, Moretto, ma per tutti era “Bronson”.Veniva da “Ca Mello”, una frazione del comune di Porto Tolle, in provincia di Rovigo.Ricordo ancora la prima volta che visitai tale metropoli.Con noi lavorava già da qualche mese un altro ragazzo di quel paese e una sera l’ho portato a casa. Era lui a indicarmi la strada e, dopo aver percorso innumerevoli curve a gomito in una stradina scalcinata, mi indicò sulla sinistra la sua abitazione:- Non fermarti però - disse - qui la strada è stretta, vai più avanti e girati in piazza.-Continuai a guidare e oltrepassai alcune case.- Ma dove vai ? - mi chiese lui, scocciato.- A girarmi in piazza, come hai detto tu. - gli risposi.- L’abbiamo già passata, la piazza. - mi fece desolato.- Frenai e invertii la marcia,tornando indietro vidi che in mezzo alle costruzioni la strada si allargava leggermente e, davanti ad un fabbricato c’era uno spiazzo ghiaioso, invisibile provenendo dalla direzione opposta, sul quale si affacciavano le vetrine di un bar e di un negozio di generi alimentari. Quella era “la piazza”, comunque il paesino contava circa cinquecento abitanti…solo che le abitazioni erano sparse per la campagna.Era un tipico villaggio della zona del delta Polesano, tutta terra strappata faticosamente alla palude con le bonifiche del ventennio fascista. In quel periodo l’opera degli “scarriolanti”aveva reso coltivabile una enorme distesa di terra di valle. Porto Tolle, dopo Roma, è il comune più vasto d’Italia.Tornando a Moretto Alfredo, meglio conosciuto come “Bronson” era anche allegro e di compagnia. Gli piaceva ridere e scherzare e, come me, possedeva un non comune spirito di avventura che ci permetteva di sopportare il lavoraccio che facevamo.Era molto impegnativo e lo svolgevamo su cantieri in giro per tutta Italia, con qualche capatina anche all’estero. Si partiva da casa il lunedì mattina presto e si tornava a tarda sera il venerdì, qualche volta che era già sabato mattina.In albergo dormivamo in camera assieme, in tutta sincerità io devo dire che a russare me la cavo molto bene, e gli altri miei colleghi cercavano di evitarmi. Lui non faceva in tempo a stendersi sul letto che già dormiva e non l’avrebbero svegliato nemmeno le cannonate.Al mattino gli appoggiavo la mano su una spalla e lo scuotevo leggermente, senza aprire gli occhi sbadigliava, poi  stirava le braccia e tastava sul comodino, alla ricerca delle sigarette. Trovato il pacchetto, sempre con le palpebre abbassate, ne estraeva una, se l'infilava in bocca e l’accendeva, poi aspirava una profonda boccata e, finalmente, apriva gli occhi.Fumava, normalmente, sessanta sigarette al giorno, quando non lavorava arrivava anche a cinque pacchetti. In compenso prendeva pochi caffè, 10/12 ogni ventiquattrore, 15/18 se stava in ozio.Mi ha raccontato il motivo di queste sue esagerazioni, che fino a diciannove anni non aveva mai fumato e neppure conosceva il gusto della tazzina. Quando lo chiamarono alla visita di leva, in marina, un amico gli suggerì la maniera per essere scartato. Durante tutto il periodo, dieci giorni, stette senza mangiare, solo caffè e sigarette. Arrivò al punto di non riuscire a stare fermo, tremava convulsamente con il cuore in subbuglio. I medici lo dichiararono inabile e così scansò due anni da marinaio ma prese il doppio vizio, che mantenne per tutta la vita. L’anno successivo, chiamato alla visita nell’esercito non ebbe il coraggio di ripetere il trucco e l'arruolarono.Dall’ultima volta che l’ ho visto sono passati perlomeno una trentina d’anni e, anche se il ricordo dell’amicizia è ben vivo, tanti particolari si sono persi nell’oblio. Tuttavia ho chiari nella memoria due episodi, degni di essere narrati.Il primo tratta di un fatto accaduto sul lavoro: all’epoca facevamo pavimenti industriali, si stendeva il getto in calcestruzzo e poi, man mano che questo induriva occorreva frattazzarlo con attrezzi meccanici fin quando diventava liscio. Si dovevano effettuare diverse passate, ognuna quando il massetto aveva raggiunto una determinata consistenza, progressivamente sempre maggiore.Con il caldo non c’era tempo da perdere, dovevamo essere svelti affinchè non indurisse troppo, mentre d’inverno il processo era lento e si finiva a notte fonda, a volte anche il mattino successivo.Quel giorno eravamo a Cuneo, in un capannone vicinissimo ad alcune abitazioni e il rimbombo dei motori a scoppio dei nostri macchinari usciva dal fabbricato, ancora privo di infissi, e disturbava gli abitanti del luogo. Durante il giorno sopportarono con pazienza, ma dopo cena, quando riprendemmo a lavorare circa verso la mezzanotte, fummo invasi dai “protestanti”.In particolare un uomo chesembrava un armadio si diresse furioso verso Bronson,  che lavorava tranquillo:                                                                                                                                                                  - Mia moglie non riesce a dormire - gli urlò esasperato.                                                                             Alfredo sollevò il capo, lo guardò con la sua aria pacifica e gli rispose serafico:                                              - Chiavala -                                                                                                                                                         L'altro si bloccò sorpreso, stette un attimo indeciso, poi scoppiò in una grande risata e se ne andò sorridente.                                                                                                                                                                 Il nostro lavoro era costituito da momenti di attività frenetica ed altri di noiosa attesa.  La sera dopo Moretto ed io stavamo appunto attendendo che il calcestruzzo raggiungesse la giusta consistenza di lavorazione, fumando seduti su due secchi rovesciati, quando lo vedemmo tornare; camminava deciso raggrumato nel suo giubbotto, tenendo la mano destra, che stringeva qualcosa,sotto l'ascella sinistra.Preoccupati lo tenemmo d'occhio, si guardò attorno con la faccia cupa, poi riconosciuto Alfredo venne verso di noi, lentamente e guardandoci negli occhi, come Django durante un duello negli spaghetti-western. Giunto a tre passi da noi estrasse velocissimo la sua mano, armata di una bottiglia di Barolo superinvecchiato e di alcuni bicchieri di carta.Brindammo tutti assieme. Nove mesi dopo ci scrisse annunciandoci che, finalmente era riuscito a diventare padre. Il figlio l' aveva chiamato Charles.La seconda vicenda è accaduta al paese  fra i suoi amici, che anch’io conoscevo benissimo.Si dà il caso che l’anno precedente,la nostra Ditta avesse ottenuto un grosso appalto: la pavimentazione della nuova sede di una azienda alimentare in provincia di Milano, una di quelle di cui si vede continuamente la pubblicità in televisione. Si trattava di quarantamila metri quadri ed avevamo un gran bisogno di altro personale, anche solo di manovalanza. Era inverno e i suoi amici, che lavoravano tutti la terra, avevano poco da fare e pertanto si fecero assumere per qualche mese. Lavorò con noi anche il figlio di un latifondista ricco sfondato.                                                                                                             Una volta gli chiesi: - Ma chi te lo fa fare? Venire fino a Milano per lavorare anche di notte? Non hai certo problemi di denaro, tu! -                                                                                                                              - Io starei benissimo a casa - mi rispose - solo che, quando vado al bar non c’è nessuno, i miei amici sono tutti a lavorare qui! -                                                                                                                                                  Al suo posto io avrei trovato altri sistemi per passare il tempo, comunque se parlare di amicizia è un po’ esagerato almeno posso dire di aver preso con tutti una certa confidenza.C’è stato un periodo in cui fra di loro era diventata comune una frase, che usavano in diverse occasioni, anche come intercalare. In particolare la pronunciavano per salutarsi . Questa frase era:                              - Ma lei lo saah? – detta con aria ammiccante e languida.Il sogno di Moretto Alfredo, detto Bronson era un’ auto, una Fiat 127, allora molto in voga. Firmando una montagna di cambiali riuscì ad acquistarne una di seconda mano, una semestrale con pochissimi chilometri, che teneva con gran cura. Mai l’avrebbe lasciata una settimana nel parcheggio della ditta e pertanto, al lunedì arrivava assieme al fratello, che la riportava in garage. Noi partivamo con il mezzo aziendale e alla fine della settimana, quando rientravamo in sede, lo riportavo io a casa, il più delle volte fermandolo al bar del paese.A quei tempi la telefonia mobile funzionava esclusivamente coi piccioni viaggiatori ed era un po’ scomodo portarsene dietro una gabbia. In quanto ai telefoni tradizionali, ben pochi l’avevano in casa, pertanto quando si andava al lavoro in trasferta difficilmente giungevano notizie da casa.Appena arrivati ci venne incontro il suo migliore amico, uno di quelli che aveva lavorato con noi e conoscevo anch’io. Alfredo gli si pose davanti e lo salutò con la frase rituale:                                                 - Ma lei lo saaaaah? -                                                                                                                                             - Ma lei lo saaaaah? - gli rispose l’altro - che non c’ha più la 127? -Il fratello, la sera precedente, uscendo di strada l’aveva praticamente distrutta.Ricordo benissimo, caro Alfredo,l’espressione di dolore che ti vidi spuntare sul volto, mentre posso solo immaginare quella che apparve sul mio, quando, dopo alcuni anni da che le vicende della vita ci avevano separato, chiesi di te ed appresi che te n’eri andato.Silenziosamente ed in punta di piedi, senza infastidire nessuno, come del resto è sempre stato nel tuo carattere.Da solo, dissanguato goccia a goccia, ferito dentro un’auto uscita di strada, nell’oscurità di una gelida notte.Spero solo che, lassù, tu non mi tenga il broncio, per aver raccontato la tua storia.