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« Per un'antropologia del...FIGLI DIVINI E VERGINI M... »

PER FAVORE, NON CHIAMATELI EROI. L'attacco a Kabul del 17/09 e l'antropologia del consenso.

Post n°47 pubblicato il 17 Settembre 2009 da marcalia1
 
Foto di marcalia1

Mi si permetta di fare alcune considerazioni. Se uno studente qualsiasi, sotto esame, sostenesse che lo sbarco degli anglo-americani in Normandia il 6 giugno 1944 fu una missione di pace per liberare l'Europa dalla tirannia nazifascista beh, oltre a suscitare l'ilarità collettiva, non credo verrebbe promosso. Eppure, oggi s'insinua un'idea analoga nella nostra critica morale, nella nostra capacità di giudizio. Non parliamo ormai della II Guerra Mondiale, bensì di quanto capitato oggi 17 settembre a Kabul, nella fattispecie un attentato dinamitardo ad un convoglio di militari italiani in cui sei connazionali (e 15 civili del posto) sono deceduti. Ora, per favore, evitiamo di chiamarli "eroi". Esprimiamo il nostro cordoglio, certo, ma al lavoratore, all'individuo, non al soldato col fucile: perché da che mondo è mondo, i soldati hanno il compito di giocare alla guerra; e giocando alla guerra talvolta succede pure che non se ne esca vivi. Per cui, dov'è l'eroismo qui? I telegiornali di Mediaset, alla stregua di una retorica olimpica e virile di stampo göbbelsiano, subito hanno imbastito il ridicolo teatrino sulla falsariga delle antiche saghe norrene chiamando questi poveri lavoratori morti nell'espletamento del loro dovere bellico, "giovani martiri", "valorosi"; addirittura, in uno slancio iperbolico, uno dei tanti cani da guardia di Berlusconi, Renato Schifani (Presidente del Senato) ha dichiarato quanto segue: «Il sacrificio di questi eroi costituisce un ulteriore doloroso contributo che i nostri militari, con grande coraggio e professionalità, continuano a dare per difendere la democrazia, la pace e la sicurezza internazionale». Schifani probabilmente ignora l'etimologia del sostantivo "eroe", che è di origine greca ed attiene al sacrificio rituale in onore della dea Hera.[1] Pertanto il succitato Onorevole dovrebbe illuminarci, al di fuori di ogni retorica di Regime, sul dove egli possa scorgere epifanie eroiche  in un convoglio blindato che percorreva come consuetudine la strada verso l'aeroporto. Dove sta il sacrificio, l'autoimmolazione? Ripeto: mi addolora la morte di quei ragazzi, lavoratori come tanti, ma non posso assolutamente considerarli delle vittime sacrificali; loro non hanno nulla della sacralità pagana. Erano giovani soldati; nemmeno, sia chiaro, "missionari di pace". Chi s'impegna per la pace non invade con le armi  uno Stato sovrano (certamente marcio, come il caso dell'Afghanistan) ma comunque riconosciuto dalla comunità internazionale. Anziché portare con sé autoblindati e fucili, il filantropo democratico e speranzoso nella pace mondiale fornisce altri apparati sociali, come ospedali, cibarie, progetti industriali. Per ogni persona di buon senso, dunque, questa è la configurazione di una vera "missione di pace". Il resto è solo vetera antropologia del consenso fascistoide alla Berlusconi&Co. che cerca di spacciare la guerra per pace e soldati in battaglia per creature semidivine nella Valhalla di Arcore, paradigma assoluto di ogni disvalore che conforma ideologicamente la mente dello studentello ipotetico citato sopra. Insomma, ecco il pericolo di quella "rivoluzione culturale" negativa che oggi l'attuale governo sta attuando in maniera subornata e manipolatrice (oserei dire), per ribaltare la semantica delle parole ed il modo sano di concepire la nostra esistenza, fondata sui veri pensieri libertari dell'antifascismo. Ecco, ancora, il  reale nocumento di un uomo perennemente itifallico che voleva fare lo chansonnier ma che per tragica sfortuna di noi italiani ha finito per produrre (dis)informazione politica, inculcando teorie assiologiche basate sul nichilismo puro, in cui il denaro ed il fatuo apparire divengono generatori assoluti di falsi criteri etici non meno pericolosi di una bomba. E detto ciò, finisco il mio vaniloquio.


[1] Possibilmente dal sanscrito Heruka, ossia Divinità che detiene la Conoscenza, attraverso l'egizio Heru o Harakhti, la diade Horus-Osiride come dio morente.

 

 
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