Mi domando spesso che cosa c'entrino le politiche ideologiche con il calcio. Cioè, quale legame unisca il vecchio saluto fascista ad una pratica domenicale che dovrebbe essere di puro divertimento. Ma, si sa, di imbecilli il mondo ne è pieno. E allora giù con le schiere di sociologi e psicologi i quali ci spiegano come questo desiderio di oltraggiare il prossimo con gli insulti razzisti derivi in massima parte dalla perdita di sicurezza che i nostri giovani soffrono; e di come questi, al di fuori di ogni schematismo sociale, abbiano solamente il vuoto della comunità a circondarli.Bene, ma la società non siamo noi? Allora tutti siamo al contempo corrotti e corruttori? No, io credo che il problema stia in verità da un'altra parte.Il fatto che oggi, nel "civilissimo terzo millennio", uno Stato sovrano come quello austriaco abbia portato al governo i figli di una nuova destra dovrebbe quanto meno farci sospettare che qualche fantasma continui ancora ad aggirarsi nel cuore della Vecchia Europa: in Germania, tra gli altri, con la Deutsche Volksunion, in Francia con Jean-Marie Le Pen ed il suo Fronte Nazionale, e poi in Belgio (uno per tutti: Vlaams Belang), in Danimarca (Venstre), in Spagna (MSR), in Ungheria (MIEP), perfino nella sonnolenta Svizzera wellesiana degli orologi a cucù (PNOS); tutti movimenti dichiaratamente xenofobi e fortemente nazionalisti (ho tralasciato volutamente l'Italia, che tra Lega e berlusconismo meriterebbe un piagnisteo collettivo).Eppure, nonostante le sottili disquisizioni accademiche sul malessere sociale mitteleuropeo, nessuno si preoccupa di vedere come dietro queste grandi facciate ideologiche non ci sia altro che un desiderio sfrenato di omologazione, di smarrimento nel gruppo unitario, di restare attaccati a concezioni (per quanto stupide possano essere) che per opportunismo, o per radicata convinzione, diano la facoltà di rendersi solo un numero infinitesimo nella moltitudine: in altre parole, di soffrire del complesso del gregge.E' chiaro che, naturalmente, bisogna distinguere. I cretini domenicali che allo stadio inneggiavano ad Arkan o invocano tuttora Auschwitz come rifugio per gli ebrei lo fanno solo perché fa tendenza come il nuovo cellulare che hanno appena acquistato; fa sentire i disadattati più forti e sicuri; rende i semianalfabeti più liberi di esternare la loro soggezione culturale mediante slogan destorificati appresi da altri. Questi neofascisti (ma detto così sarebbe un complimento), queste pecore insomma, cercano nella massa anonima un riscatto alla loro inferiorità sociale: leggano i sedicenti signori tifosi i libri di Primo Levi, si degnino per un momento di aprire i voluminosi tomi sugli studi socio-psicologici di Henry Dicks riguardo alla criminalità delle SS, apprendano ciò che afferma Jean Améry sulla Entwurdigung, la degradazione dell'intellettuale ad Auschwitz. Altresì sappiano apprezzare gli scritti di Nietzsche, Hegel e Fichte: ma sarebbe chiedere troppo a dei mentecatti che cercano nello stadio un significato alla propria esistenza; esistenza collettiva, appunto, legata da una profonda ignoranza.Se dunque il desiderio di rendersi uniti tramite un interesse comune che ha in sé forti contraddizioni di base è il segno distintivo dei teppistelli calcistici settimanali, anche nei grandi movimenti politici di destra europei il messaggio dei "padri" nazionalsocialisti viene in qualche modo trasceso. Quantunque il nazismo sia stato un'ideologia aberrante e indiscutibilmente esecrabile, pochi si sono sempre chiesti la ragione di fondo per la quale un uomo solo, anch'egli austriaco come Haider, cioè Hitler, abbia avuto la capacità di portare il suo Paese alla follia. Il Fuhrer diceva alla gente ciò che la stessa gente tedesca voleva sentirsi dire; il popolo cercava l'origine delle proprie disgrazie economiche e sociali, vagheggiava un ideale pangermanico caratterizzato da una tetragona identità tedesca; e la causa del male, il capro espiatorio, era l'ebraismo internazionale. Pura demagogia basata sull'utopia, certo, che però ha purtroppo scolpito le pagine più tristi della Storia. Ed avviene lo stesso anche oggi, solo che gli ebrei vengono ora rappresentati dai romeni e slavi in genere, dagli africani, dai cinesi, ovvero dall'altro, dal "diverso", da colui che, nell'ottica popolare, simboleggia un avvertimento alla disgregazione, alla disunità nazionale, culturale, ideologica. E lo stesso Jörg Haider, morto nel 2008, non faceva che ribadire, attraverso una dialettica più "adatta" ai tempi, quello che i nazisti della prima ora sostenevano: grande coesione interna e chiusura dei confini (naturali e sociali) con le relative espulsioni, per combattere il pericolo straniero che viene da fuori, il quale è dissimile, è alieno rispetto alla uguaglianza, alla identità cromosomica e intellettuale della nazione austriaca.Dunque i rigurgiti razzisti (che tuttavia non si sono mai sopiti) coinvolgono l'Europa intera, l'Europa comune. Per sua natura l'uomo è portato all'aggregazione, ed ecco perché il disegno utopistico di isolamento, di autarchica chiusura in se stessi di cui si parlava prima e che ha condotto al genocidio. I nazisti bruciavano libri da essi ritenuti scomodi, affinché pagine di carta non guastassero l'incipiente germinazione del veleno hitleriano. Ma, è noto, chi brucia libri finirà prima o poi col bruciare gli uomini. Oggi la Comunità Europea alimenta l'orgoglio di quelle nazioni che cercano di sfuggire continuamente all'inoculazione di un pensiero libertario sovranazionale, aperto ai processi di acculturazione e deculturazione etnica; purtuttavia impone ai popoli di cultura e modo di vivere differenti, schemi comunitari che rischiano di far scoppiare definitivamente questo calderone immenso che è il continente europeo. Haider non è che un'avvisaglia dell'identità che si vuol conservare: e sarebbe bene non sottovalutarlo; proprio infatti da quei deficienti che riempiono le loro malinconiche domeniche nei campi di calcio inneggiando a un passato che, fortuna loro, non hanno vissuto, ogni fondamentalismo trae energia e se ne serve per esercitare il proprio dominio culturale. Haider era einer von uns, uno come noi; uno uguale a noi. Questa è la tecnica di tutti coloro che vogliono far pensare gli altri con un cervello diverso, vale al dire il loro, ed è la base di ogni sistema totalitario. Appunto il sentimento della identità quando diventa pericoloso, e qualcuno lo utilizza per esaltarne la grandezza verso la diversità. Allora, a questo punto, non resta che stare a guardare; oppure trovare il coraggio di servirci della nostra intelligenza, se mai nel corso della Storia ne avessimo avuta un poco.
Per un'antropologia dell'«altro»: recrudescenze xenofobe nella Vecchia Europa.
Mi domando spesso che cosa c'entrino le politiche ideologiche con il calcio. Cioè, quale legame unisca il vecchio saluto fascista ad una pratica domenicale che dovrebbe essere di puro divertimento. Ma, si sa, di imbecilli il mondo ne è pieno. E allora giù con le schiere di sociologi e psicologi i quali ci spiegano come questo desiderio di oltraggiare il prossimo con gli insulti razzisti derivi in massima parte dalla perdita di sicurezza che i nostri giovani soffrono; e di come questi, al di fuori di ogni schematismo sociale, abbiano solamente il vuoto della comunità a circondarli.Bene, ma la società non siamo noi? Allora tutti siamo al contempo corrotti e corruttori? No, io credo che il problema stia in verità da un'altra parte.Il fatto che oggi, nel "civilissimo terzo millennio", uno Stato sovrano come quello austriaco abbia portato al governo i figli di una nuova destra dovrebbe quanto meno farci sospettare che qualche fantasma continui ancora ad aggirarsi nel cuore della Vecchia Europa: in Germania, tra gli altri, con la Deutsche Volksunion, in Francia con Jean-Marie Le Pen ed il suo Fronte Nazionale, e poi in Belgio (uno per tutti: Vlaams Belang), in Danimarca (Venstre), in Spagna (MSR), in Ungheria (MIEP), perfino nella sonnolenta Svizzera wellesiana degli orologi a cucù (PNOS); tutti movimenti dichiaratamente xenofobi e fortemente nazionalisti (ho tralasciato volutamente l'Italia, che tra Lega e berlusconismo meriterebbe un piagnisteo collettivo).Eppure, nonostante le sottili disquisizioni accademiche sul malessere sociale mitteleuropeo, nessuno si preoccupa di vedere come dietro queste grandi facciate ideologiche non ci sia altro che un desiderio sfrenato di omologazione, di smarrimento nel gruppo unitario, di restare attaccati a concezioni (per quanto stupide possano essere) che per opportunismo, o per radicata convinzione, diano la facoltà di rendersi solo un numero infinitesimo nella moltitudine: in altre parole, di soffrire del complesso del gregge.E' chiaro che, naturalmente, bisogna distinguere. I cretini domenicali che allo stadio inneggiavano ad Arkan o invocano tuttora Auschwitz come rifugio per gli ebrei lo fanno solo perché fa tendenza come il nuovo cellulare che hanno appena acquistato; fa sentire i disadattati più forti e sicuri; rende i semianalfabeti più liberi di esternare la loro soggezione culturale mediante slogan destorificati appresi da altri. Questi neofascisti (ma detto così sarebbe un complimento), queste pecore insomma, cercano nella massa anonima un riscatto alla loro inferiorità sociale: leggano i sedicenti signori tifosi i libri di Primo Levi, si degnino per un momento di aprire i voluminosi tomi sugli studi socio-psicologici di Henry Dicks riguardo alla criminalità delle SS, apprendano ciò che afferma Jean Améry sulla Entwurdigung, la degradazione dell'intellettuale ad Auschwitz. Altresì sappiano apprezzare gli scritti di Nietzsche, Hegel e Fichte: ma sarebbe chiedere troppo a dei mentecatti che cercano nello stadio un significato alla propria esistenza; esistenza collettiva, appunto, legata da una profonda ignoranza.Se dunque il desiderio di rendersi uniti tramite un interesse comune che ha in sé forti contraddizioni di base è il segno distintivo dei teppistelli calcistici settimanali, anche nei grandi movimenti politici di destra europei il messaggio dei "padri" nazionalsocialisti viene in qualche modo trasceso. Quantunque il nazismo sia stato un'ideologia aberrante e indiscutibilmente esecrabile, pochi si sono sempre chiesti la ragione di fondo per la quale un uomo solo, anch'egli austriaco come Haider, cioè Hitler, abbia avuto la capacità di portare il suo Paese alla follia. Il Fuhrer diceva alla gente ciò che la stessa gente tedesca voleva sentirsi dire; il popolo cercava l'origine delle proprie disgrazie economiche e sociali, vagheggiava un ideale pangermanico caratterizzato da una tetragona identità tedesca; e la causa del male, il capro espiatorio, era l'ebraismo internazionale. Pura demagogia basata sull'utopia, certo, che però ha purtroppo scolpito le pagine più tristi della Storia. Ed avviene lo stesso anche oggi, solo che gli ebrei vengono ora rappresentati dai romeni e slavi in genere, dagli africani, dai cinesi, ovvero dall'altro, dal "diverso", da colui che, nell'ottica popolare, simboleggia un avvertimento alla disgregazione, alla disunità nazionale, culturale, ideologica. E lo stesso Jörg Haider, morto nel 2008, non faceva che ribadire, attraverso una dialettica più "adatta" ai tempi, quello che i nazisti della prima ora sostenevano: grande coesione interna e chiusura dei confini (naturali e sociali) con le relative espulsioni, per combattere il pericolo straniero che viene da fuori, il quale è dissimile, è alieno rispetto alla uguaglianza, alla identità cromosomica e intellettuale della nazione austriaca.Dunque i rigurgiti razzisti (che tuttavia non si sono mai sopiti) coinvolgono l'Europa intera, l'Europa comune. Per sua natura l'uomo è portato all'aggregazione, ed ecco perché il disegno utopistico di isolamento, di autarchica chiusura in se stessi di cui si parlava prima e che ha condotto al genocidio. I nazisti bruciavano libri da essi ritenuti scomodi, affinché pagine di carta non guastassero l'incipiente germinazione del veleno hitleriano. Ma, è noto, chi brucia libri finirà prima o poi col bruciare gli uomini. Oggi la Comunità Europea alimenta l'orgoglio di quelle nazioni che cercano di sfuggire continuamente all'inoculazione di un pensiero libertario sovranazionale, aperto ai processi di acculturazione e deculturazione etnica; purtuttavia impone ai popoli di cultura e modo di vivere differenti, schemi comunitari che rischiano di far scoppiare definitivamente questo calderone immenso che è il continente europeo. Haider non è che un'avvisaglia dell'identità che si vuol conservare: e sarebbe bene non sottovalutarlo; proprio infatti da quei deficienti che riempiono le loro malinconiche domeniche nei campi di calcio inneggiando a un passato che, fortuna loro, non hanno vissuto, ogni fondamentalismo trae energia e se ne serve per esercitare il proprio dominio culturale. Haider era einer von uns, uno come noi; uno uguale a noi. Questa è la tecnica di tutti coloro che vogliono far pensare gli altri con un cervello diverso, vale al dire il loro, ed è la base di ogni sistema totalitario. Appunto il sentimento della identità quando diventa pericoloso, e qualcuno lo utilizza per esaltarne la grandezza verso la diversità. Allora, a questo punto, non resta che stare a guardare; oppure trovare il coraggio di servirci della nostra intelligenza, se mai nel corso della Storia ne avessimo avuta un poco.