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« ETIMOLOGIA DI "PUTTANA"....IL CULTO DELLE PIETRE "F... »

UNA VISITA NEL TEMPO. Ex voto, madri di pietra e divino femminile al Museo Provinciale Campano di Capua (Ce).

Post n°44 pubblicato il 01 Settembre 2009 da marcalia1
 

          Sono di fronte a quello che mi è stato detto essere l'esemplare più antico di Mater custodito nel Museo Campano di Capua, la città che nelle vecchie mappe romane figurava col nome di Casilinum.[1] Si tratta di un modesto blocco parallelepipedo di tufo, dai contorni netti ed appiattiti, sul quale l'anonimo scultore del VI secolo avanti Cristo ha voluto appena sbozzare i seni, le due braccia e i tratti di un bimbo dormiente che giace sulle ginocchia della madre. A differenza delle altre solenni rappresentazioni femminili nella sala, questa effigie così rozzamente primitiva pare comunicare un affascinante senso di virilità olimpica che attinge dal divino, e anzi l'assimila completamente ad un'eterna dimensione sacra: tanto lontana dall'iconografia classica della donna, quasi priva dello spirito plastico, eppure ieratica e maestosa nella semplicità della sua immagine silenziosa, di una sovrana Madre Universale rapita immobile nella dura materia che pare non avere un tempo né una storia. Se mai li abbia avuti.

          Effigi femminili analoghe alla Mater capuana sono rintracciabili nelle aree fra le più disparate al mondo, dall'Africa alle Americhe sino alla valle dell'Indo, e in Europa la loro provenienza copre l'intero arco geografico che movendo dalla Siberia giunge oltre i Pirenei. Le statuette di argilla di figure di donna, prodotte in Bretagna, Gallia centrale e Renania durante il I e il II secolo d.C., riproducono per esempio l'immagine complementare di una dea seduta, spesso su una sedia di vimini dall'alto schienale, nell'atto di allattare uno o due bambini: si tratta della cosiddetta Dea Nutrix, particolare manifestazione della Dea Madre celtica. Gli emblemi di questa divinità si trovavano solitamente in un contesto domestico, oppure nelle tombe e nei santuari. A Dhronecken, vicino Treviri, un tempio dedicato alla Dea Nutrix conteneva numerose figurine sia della dea stessa sia dei bambini che ella proteggeva, ma nelle sepolture probabilmente la collocazione dei simulacri della dea aveva lo scopo di confortare i morti come promessa di rigenerazione e rinascita nell'aldilà.[2] In ogni caso, una delle più antiche rappresentazioni di Madre con il figlio è un rilievo accadico risalente al III millennio a.C.[3]

          Sta di fatto, tuttavia, che a rendere le maestose kourotrophos di Capua così singolari è il privilegio che esse hanno di restare l'unica collezione museale esistente al mondo. Benché poi ognuna caratterizzata da dettagli propri, in pratica tutti i reperti riproducono simulacri femminili raffiguranti, in posizione prospettica, una donna seduta mentre regge in braccio o sulle ginocchia uno o più bambini in fasce, simmetricamente disposti:

[...] Esse sembrano sospese in un limbo metastorico, in una sorta di fissità intemporale. Quasi fossero più lo scrigno di un mistero da custodire che non la riproduzione ad infinitum di un prototipo insigne per bellezza, fonte, a vederlo, di emozioni esaltanti e sensitivo piacere. Sembrano. Esse sono in realtà piuttosto il simbolo muto ed eloquente della vita che si ripete e si rinnova, si riceve e si trasmette con la naturalezza d'un seme che morendo non muore ma risorge mutato in albero fiorente.[4]

          Di certo, ai primi scopritori che ebbero modo di osservarle, dovettero destare notevole impressione e disagio, tanto che non si esitò a definire alcune di esse «tozze e mostruose sì che sembran rospi».[5] Del resto, non meno sorprendente è stata la loro scoperta. Nell'anno 1845, lungo la Via Appia alla periferia orientale dell'antica Capua, in direzione di Caserta, nel fondo di una proprietà privata, a quattro metri sotto il suolo, vennero rinvenuti casualmente i resti di un santuario monumentale che un'iscrizione in lingua osca indicava come luvko, «recinto» o «bosco sacro». L'ara votiva, orientata secondo i quattro punti cardinali, era costituita da un grande rettangolo analogo a quello del tempio di Iuppiter Victor sul Palatino, a Roma, e sarebbe stata dedicata, in virtù degli ex voto presenti, ad una triade divina: Iuppiter Falagius, Vesolia e Iovia Damusa. Intorno al santuario furono portate alla luce anche numerose antefisse ornamentali, oltre 600 kourotrophos in terracotta e, a nord dell'edificio, accatastate alla rinfusa, circa 150 statue votive in tufo grigio del monte Tifata, ricoperte in origine da uno strato di stucco bianco e in qualche tratto dal colore rosso: le celebri Matres custodite appunto nel Museo Campano. Tra esse emerge tuttora per dimensioni un simulacro matronale che, seduto, sorregge (ma non più visibili) in una mano la melagrana e nell'altra la colomba. Alcuni studiosi hanno ritenuto di poter identificare questa Iovia Damusa (altrimenti conosciuta come Damia o Bona Dea) con Ceres, patrona della crescita e della fertilità agraria. Altri vi hanno voluto ravvisare invece la figura tutelare paleoitalica della Mater Matuta (assimilata alla dea Uni etrusca ed alla Kere sannitica), venerata a Roma come dea dell'aurora con Giano Pater Matutinus[6] e poi come protettrice delle partorienti e dei fanciulli, e quindi delle messi. Sicché, con la divina presenza della Mater Matuta, si ritroverebbe giustificata la supposizione riguardo al tempio consacrato proprio ad ella nelle vesti di dea dell'aurora, e la circostanza sembra essere confermata dal fatto che la scalinata d'accesso del santuario era rivolta ad oriente,[7] come a stabilire un legame simbolico e indissolubile verso la luce aurorale che sorge da Est, innalzando in termini cosmici l'eterno mistero della nascita.


[1] La Capua di origine etrusca, da dove partì nel 73 a.C. la rivolta servile capeggiata dal gladiatore Spartaco, (definito da Marx «il figlio più nobile di tutta la storia antica, vero rappresentante dell'antico proletariato»), è oggi invece Santa Maria Capua Vetere. L'odierna Capua e Santa Maria Capua Vetere sono pressoché contermini.

[2] Miranda J. Green, Dizionario di mitologia celtica, Milano, Bompiani, 2003, p. 110.

[3] Traggo l'informazione datata e approssimativa da Erich Neumann, La Grande Madre, cit., p. 309. Invece Laura Rangoni, a p. 18 del suo recente saggio dedicato al culto del Femminile nella storia, dal titolo analogo a quello dello psicologo junghiano, precisa che «dal 21.000 a.C. cominciano ad apparire scene di parto e statuette raffiguranti donne con bambini in braccio, che saranno il modello iconografico delle dee più tarde e della Madonna». In ogni caso, a prescindere dalla datazione esatta, resta il fatto che le immagini della Donna e della Madre costituiscono le prime e più antiche figurazioni antropomorfe dell'umanità.

[4] Giuseppe Centore, Matres Matutae. Le madri di Capua, Museo Provinciale Campano, s.l., 2003, pp. 6-7.

[5] In Luigia Melillo Faenza et alii, Matres Matutae dal Museo di Capua, Milano, Angelicum-Mondo X, 1991, p. 17 (citando l'espressione diel cronista Mancini nel Giornale di Pompei). In realtà, se a prima vista tale dichiarazione può apparire disprezzante, essa conserva al fondo un'associazione simbolica primaria. Vi è abbondanza di dati, tanto folcloristici che storici (miti egiziani, greci e romani), i quali dimostrano che il rospo è la stessa Dea Madre Universale: di qui la credenza nell'«utero vagante» che si registra in Egitto, nella Grecia classica, e che è ancora viva nella superstizione europea. Nel folclore lituano, ad esempio, Ragana, la dea della Vita e della Morte, ora una strega, può trasformarsi in un rospo e causare la morte, come pure la vita. Inoltre il rospo come simbolo di rinascita è osservabile nella necropoli di Nida, nella Lituania occidentale, dove molte pietre tombali hanno la forma di questo animale con un giglio che spunta dalla testa. Cfr. Marija Gimbutas, La 'Venere mostruosa della preistoria'. Creatrice divina, in Joseph Campbell e Charles Musès (a cura di), I nomi della Dea, Roma, Ubaldini, 1992, p. 34.

[6] Matuta trova la sua origine nell'indeuropeo *MAT, indicante tempo opportuno, da cui chiaramente "maturo" e "mattutino". Come "Madre dell'Aurora" si associa alla greca Heos, Hebe, Ilizia o alla divinità egizia Matet, il cui nome significa "crescita". Cfr. Barbara G. Walker, The Woman's Encyclopedia of Myths and Secrets, cit., p. 619. Alla Mater Matuta, che a Roma aveva un tempio dedicato nel Foro Boario, erano dedicate le feste Matralia (11 giugno); cfr. Ovidio, I Fasti, VI,475. Su Giano come Pater Matutinus, cfr. Orazio, Le Satire, II,6.

[7] Cfr. Luigia Melilla Faenza, op. cit., p. 16. L'Est è tradizionalmente la direzione sacra delle divinità femminili: le tombe a tholos, ad esempio, hanno sempre l'ingresso rivolto a oriente, come promessa di resurrezione. Tutte le antiche rappresentazioni che mostrano la Dea Madre accovacciata su una tomba a tholos nell'atto di presentare i figli dell'Anno Nuovo ai pastori è dunque, in realtà, la rivelazione del suo Mistero femminile, è il ventre divino dal quale avviene la rinascita. Cfr. Rober Graves, I miti greci, cit., 43,2. Non sempre però l'est si associa alle dee. Insieme all'ovest è il punto cardinale ove il femminile dimora. Gli splendidi rosoni delle cattedrali gotiche, dedicate alla Vergine, sono spesso orientati verso Occidente, e la dea egizia Hathor condivideva con Neith il titolo di "Regina dell'Ovest". Nel Libro dei Morti la cosiddetta Camera dei Re della Grande Piramide assume la simbolica designazione di "Ritorno della vera luce che viene dall'Ovest".

 

 
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Commenti al Post:
ambrosiadossi88
ambrosiadossi88 il 25/08/16 alle 13:17 via WEB
molto bello questo articolo. mi č piaciuto. Ciao da

Mobiletech

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