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« COME GUARDIE E LADRINELLA GROTTA DEL DRAGO »

ALLE PORTE DELL'INFERNO

Post n°4 pubblicato il 06 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Era ancora lo zimbello di tutti, il Calimero del paese. Colbain, bistrattato dai ragazzi e ignorato dagli adulti, cominciava a pensare che le altre persone non fossero altro che ostacoli da abbattere. Il suo unico amico era quell’uomo alto e biondo conosciuto tanto tempo prima alla stazione del bus e mai più rivisto. Il ‘ principe delle mosche ‘, come lo chiamavano in paese, era il suo unico sostegno nell’irta scalata alla vita. Grant non sapeva nulla di lui, ma per quel poco che aveva potuto vedere quel ragazzo non si meritava la cattiva fama che tutti gli attribuivano.

Sperava di incontrarlo ancora una volta per cercare insieme una via d’uscita da quella vita impossibile, ma ogni giorno le sue speranze si affievolivano e in un anno quel desiderio scomparve del tutto. Calimero aveva ormai dieci anni quando, conscio della scoperta di una scappatoia alla sua sofferenza, prese la decisione di suicidarsi, di sparire da un mondo che non lo aveva mai voluto. Sua madre, che da tempo lo bistrattava – soprattutto perché stupita dall’avvicinamento del figlio al principe – lo sorprese, una mattina, a ingurgitare decine di pasticche medicinali. Come aveva potuto suo figlio progettare così bene il suo suicidio? Doveva esserci stata per certo una spinta a questo insano desiderio di morte, e chi se non quel bastardo di Cole Williams, l’angelo nero, il principe delle mosche,  poteva averla data al suo piccino?    

Sconvolta dal comportamento del figlio, la giovane donna decise di farsi giustizia da sé. Fu nella  notte del quindici agosto che la casa di Cole Williams venne rasa al suolo da un incendio. La polizia trovò la donna , stravolta dalla pazzia, stesa nel giardino sul retro della villetta. Il giudice fu ineccepibile e, tenendo conto del dolore provato dalla donna per il grosso pericolo scampato dal figlio, la condannò a qualche anno di reclusione in un centro di sanità mentale. Il giovane  Cole, partito la sera prima per un viaggio, si salvò dal rogo e non poté intervenire in tribunale   perché trattenuto da intense attività lavorative. Comunicò comunque con la corte via fax e, venuto a sapere del giudizio della corte, chiese di ottenere in affidamento il piccolo Colbain. Grant, che si trovava in ospedale ed era scampato da una morte piena di sofferenze, venne a sapere tutto molto più tardi e si adeguò alla decisone presa dal giudice come fosse  una scelta divina. Trasferitosi alla fine della riabilitazione nella casa di Cole, appena ristrutturata dopo l’incendio, avvertì subito la mancanza di qualcosa in quella sua piccola triste vita.

L’assenza di sua madre, pilastro dei primi anni della sua vita da quando suo padre era morto in quell’incidente stradale, era per Grant un salto nel vuoto più profondo. L’unica consolazione era quella di poter iniziare una nuova vita, diversa da quella che aveva, a sofferenza, vissuto finora. Quella casa fu la prima cosa che vide dopo i mesi passati in un centro di riabilitazione psichiatrica. La morte lo accompagnava ormai in ogni momento della sua piccola vita e quel giorno entrò insieme a lui in quella casa, portando con sé la preoccupazione della pena che gli sarebbe toccata dopo il decesso. Quei muri bianchi e quella ostentata purezza sbattevano contro il suo animo nero e peccaminoso, avvolto dalla visione paradisiaca di una magione candida come la neve. Le finestre, occhi ampi e vitrei, scrutavano la perversità di quel bimbo, che da solo aveva cercato di fermare il treno della vita e che ne era stato travolto. Quella pena, quel rimorso, quella svogliatezza e quel rifiuto del mondo lo avrebbero accompagnato per tutta la sua esistenza. Cole prese le chiavi dall’ampia tasca del pantalone blu e le infilò nella grande e massiccia porta d’ebano. Appena la porta si aprì l’intera casa penetrò nei ricordi di Grant con una tale violenza da lasciarlo attonito per qualche secondo. La grande scala in ciliegio, posta davanti alla porta, sembrava una grande lingua pronta a inghiottire chiunque entrasse. Al lato sinistro della rampa, un piccolo corridoio conduceva al sottoscala e alla cantina, chiusa a chiave a doppia mandata e impenetrabile per il piccolo Colbain. Sempre sul lato sinistro un’ampia arcata conduceva alla sala, tappezzata in ogni angolo di verde antico, al cui centro un grande tavolo, anch’esso, come la porta, d’ebano, focalizzava l’attenzione dell’ospite. Ampi mobili e cristalliere, un grande sofà, tende rosse alla finestra, imponenti sedie alte e sfarzose, come quelle nei gloriosi ritratti di re e papi, grandi quadri alle pareti e un enorme stereo riempivano il resto della stanza. Grant, nel suo girovagare, aveva capito che Cole, nonostante le maledizioni dei paesani, non se la passava male. In due o tre mesi il suo tutore era riuscito a costruirsi una casa da alta borghesia facendo sparire dalla magione qualunque segno del precedente incendio. Di fianco alla sala una piccola cucina risplendente di metallo e plastica accolse l’ultima tappa dell’esplorazione di Grant del piano terra. Diretto a grandi passi verso il piano superiore e appeso al corrimano come una scimmia, Colbain scalò quella che poco prima gli sembrava una grande lingua e si trovò infine in un grande atrio vuoto, dove un enorme finestra luminosa abbagliò il piccolo ospite. Alla sua destra una grossa porta conduceva alla camera da letto di Cole: grande, ben arredata, sofisticata, con un enorme letto a baldacchino ricoperto di teli di seta, un comodino su cui poggiava un’elegante abatjour, un grande lampadario di ferro raffigurante un angelo con una fiaccola tra le mani, un grosso armadio in stile ottocentesco e vasti tappeti arabi a coprire il pavimento. Uscito dalla camera del suo ospitante, Grant esplorò dapprima il piccolo bagno, munito di gabinetto, bidè, lavandino e di un box doccia in vetro, per poi piombare nella camera degli ospiti, sua futura dimora. Un’ ampia finestra illuminava i più reconditi anfratti della stanza, evidenziando il piccolo e vuoto armadio in ciliegio, le piccole valigie e l’anima di Colbain, steso sul comodo letto a fissare il soffitto. La casa, come aveva notato, era priva di qualsiasi fonte di calore: persino lampade e lampadine erano limitate alla sola stanza di Cole. In inverno il freddo sarebbe penetrato dalle ampie finestre rendendo la casa un vero e proprio frigorifero. L’unico luogo ignoto a Grant, la cantina, lo attirava a sé più di qualsiasi altro luogo. La prima cena a casa Williams fu un disastro. Grant era rinchiuso nel suo guscio oscuro e si limitava solo a fissare il lungo coltello d’acciaio messogli di fianco al piatto. Cole cercava di scrutare l’animo del ragazzino per risvegliarlo da quel più che evidente torpore, invitandolo talvolta a mangiare ciò che aveva nel piatto. Colbain snobbava il cibo, ingurgitandone poche briciole alla volta. La voce di Cole passava dalle sue orecchie senza essere trasmessa al cervello, finendo dispersa negli ampi spazi vuoti della sua alienazione.

Ad un tratto, dalla bocca di Grant uscirono frasi che agli altri sarebbero parse leggere come l’aria, ma che Cole sentì pesare sul suo animo come macigni. Quel sussulto, quella provvisoria uscita dal guscio oscuro che isolava Colbain dal mondo, risuonò nella mente di Cole come un potente rinculo.

-         Cosa c’è nella cantina?

      Williams fece finta di non aver sentito e continuò a mangiare, mentre le parole si disperdevano nell’ampio salone e rimbombavano nel suo cranio. Grant, già in condizioni mentali più che precarie, fu talmente colpito dal silenzio che non ebbe più il coraggio di parlare. Il suo tutore, l’angelo nero, vide l’espressione del bimbo svanire nel nulla, in quella maschera di sopportazione e angoscia che avrebbe coperto il suo volto per qualche tempo.

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