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Un blog creato da sangueedanima il 03/08/2008

Sangue ed anima

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LA TERRA PROMESSA

Post n°21 pubblicato il 23 Agosto 2008 da sangueedanima
 

 Il viso rugoso di Colbain, illuminato dai piccoli raggi obliqui del sole, scivolava lento per il pendio, inciampando in radici e rami altrettanto raggrinziti. Il bosco si faceva più rado ad ogni passo, facendo intravedere in lontananza un lungo fiumiciattolo e una minuscola baita lignea. Era il Canada! Doveva esserlo! Le gambe del fuggitivo cominciarono a muoversi molto più velocemente, infischiandosi degli irti e spinosi cespugli e dei pericolosi sassi posti sul loro cammino. Grant sbatteva le spalle doloranti contro gli alberi posti sulla sua via cercando di non rallentare il passo, sradicando accidentalmente, talvolta, i piccoli arbusti e spostandoli di qualche metro più avanti. Si avvicinava sempre più alla casa. Ormai era lì, a pochi passi. Lì, davanti a lui.

Un colpo. Un solo colpo. L’urlo di un grosso fucile a canne mozze risuonò nell’infinità dello spazio forestale, facendo sollevare dai piccoli rami uno stormo di uccelli neri gracidanti. Colbain aveva il viso martoriato dal bruciore procuratogli dai graffi, ma sentì appieno quel dolore, quella lacerazione che gli penetrava le carni. Qualcuno gli aveva sparato. Qualcuno gli aveva sparato alla schiena. Portò lentamente la grossa mano destra sulla ferita, coprendo quindi la zampillante spalla sinistra con più tessuto possibile. Continuò, barcollante, a correre, premendo con forza quella ferita e tenendo il fluido corporeo ben dentro il corpo. Il viso, smascherato nel più grande dolore, gemeva di paura e di pianto. Le grosse lacrime gocciolavano dai piccoli occhi, scendendo nelle ferite e facendole bruciare come roghi. Il proiettile, conficcato nella carne, premeva come una lancia, aprendo un tormentoso varco di vuoto tra i tessuti. Avanzava, comunque, contrastando quell’immenso spasimo con la visione di quella piccola baita. Si annebbiava, diveniva più fioca. Quella baita stava sparendo nell’oblio, ma lui non si sarebbe fermato. Barcollava ancora. Correva ancora. Doveva correre.

Un altro colpo. Il corpo sussultò. Il sangue uscì come un rigurgito dalla bocca, piagata dalla rabbia e dal dolore. La testa era balzata avanti, come colpita anch’essa da una botta. La mano destra, appoggiata sulla ferita, ricadde in avanti. Colbain era lì, fermo, con la schiena inarcuata, a fissare il terreno buio. L’altra spalla, quella destra, era stata aperta da una saetta metallica, serrata ora nella rossastra polpa. Portò pesantemente avanti il piede destro, noncurante delle grosse ferite. Le braccia ciondolavano ai fianchi, distrutte da un nemico lontano. Le piccole foglie gialle, sollevate in aria dagli spari e dalla poderosa cadenza del fuggitivo, danzavano nell’aria tutt’intorno al povero Grant. Singhiozzava, mentre i suoi movimenti lenti e pesanti lo portavano verso il fiume. Entrò, con le scarpe, nelle sue acque, cercando un qualsiasi sollievo. I suoi piccoli occhi non vedevano più nulla. Il dolore invalicabile aveva ormai coperto ogni cosa, oscurandola col suo velo di sofferenza. Pativa, ma non si fermava. Avanzava ancora nel liquido freddo e pungente che gli bagnava i piedi, soffocando il pizzicore dei piccoli sassi appuntiti. Le spalle non gli rispondevano più. I chiodi che avevano impuntato ormai nella sua anima incatenata stavano facendo il loro dovere, bloccandone i movimenti e le reazioni. Ma lui procedeva comunque.

Nell’aria risuonarono altri boati. Prima uno, poi due, poi tre. Ce ne furono anche un quarto e un quinto. Le saette colpirono il grosso corpo di Grant come fosse un bersaglio predestinato e pronto all’uso. L’obiettivo si piegò sul fiume. Si inginocchiò, fissando il vuoto che non vedeva. La testa oscillava, quasi cadendo all’indietro. Il sangue scendeva dalla bocca martoriata e dalle grosse ferite, ricoprendo la figura di un mantello scarlatto. Il liquido venoso cadeva nel corso d’acqua, tingendolo di un colore opaco. La mente del fuggitivo si accese un’ultima volta, invocando l’aiuto. Era dunque questa la fine? 

Si accasciò nel liquido. Il capo sbatté violentemente contro una roccia del letto fluviale, lasciando l’occhio bianco fisso nell’oblio. Era caduto, dopo tutta quella vana corsa. Era caduto.

 

 

 
 
 

RITORNO ALLA TANA

Post n°20 pubblicato il 22 Agosto 2008 da sangueedanima
 

 

L’uomo non potrà mai confutare una verità che in vita non gli è permesso analizzare. E’ a questo che penso ogni qualvolta la mia mente spazia verso locazioni infinitamente distanti dal nostro tempo, cercando nell’infinità del ricordo una motivazione alla mia piccola vita. Per molti anni ho tentato di capire cosa mi abbia portato a compiere azioni che ho già compiuto, cosa mi abbia trascinato verso situazioni che non mi aspettavo, cosa mi abbia spinto a pensare e a sprecare gran parte del tempo vitale concessomi dal Padreterno cercando uno scopo a questa esistenza. In realtà, come ho già detto, a noi uomini ciò è e dev’essere precluso. Perché dovremmo sapere il motivo per cui siamo nati? Perché dobbiamo conoscere lo scopo, e quindi le sue conseguenze sulla nostra vita? Per comportarci in modo diverso? Se sapessimo che siamo qui per costruire una casa, la costruiremmo forse più bella di come era destino che fosse? O forse sarebbe la stessa casa ispirataci e destinataci dal Padre? Per questi e altri motivi mi sono rassegnato a lasciar perdere ogni ricerca e a far solo ciò che penso sia giusto e ciò che penso possa migliorare la mia situazione agli occhi di Dio. Sapendo di non poter certo aiutare una creatura onnipotente, ho cercato di aiutare me stesso e in una misura un poco inferiore gli altri. Potrebbe e dovrebbe sembrare una ricerca della salvezza molto egoistica nei confronti dell’intera umanità, ma spero sempre che l’Eterno mi perdoni, prima o poi. Comunque, ho perso ogni speranza nel trovare una verità che solo il Padre conosce e forse ci farà sapere. L’ho fatto cercando di impegnare ogni mia forza nella fede e nella riconoscenza. Ho lasciato una ricerca esteriore per tentare una ricerca interiore che ancora cerco di migliorare. Ho lasciato perdere, appunto, la ricerca di un’origine.

La ricerca di un’origine. Questa frase sembrava ormai persa dopo che Grant e Brian, intrisi di una furia reciproca inusitata, si erano abbandonati vicendevolmente in quello sperduto bar nella notte piovosa. Il professore temeva di aver perduto per sempre in quel locale la speranza di trovare quella tanto fantasiosa prova, quella dimostrazione che il mondo aveva un significato e uno scopo. Aveva vagato per il mondo in cerca di quella risposta, ma non l’aveva mai trovata da nessuna parte. Grant, d’altra parte, aveva capito che se voleva qualcosa, non poteva pensare di scovarla nella casa di un patetico scrittore. Quell’uomo, quel Lodge su cui aveva investito molte delle sue speranze, era solo riuscito a fargli saltare i nervi e a sporcargli il locale col suo impermeabile annacquato.

Colbain dovette rimanere a pulire il pavimento del ristorante fino a notte tarda, sopportando il sonno e il pensiero di un prossimo rimprovero quando, all’indomani, si sarebbe presentato a lavoro con gli occhi sbarrati dalla stanchezza. Le macchie nere sparivano difficilmente, incrostate sulle mattonelle da grosse orme a forma di piede. Il moccio, impugnato saldamente dal ragazzo con ambo le mani,  passava lento e deciso nella vacua illuminazione della camera. La notte circondava la stanza penetrando dalle grosse lastre di vetro. Qualche d’uno passava, solitario e silenzioso nel buio, cercando nel bar un conforto che non avrebbe trovato. Grant si asciugò la fronte pulsante per il forte mal di testa e, alzando lo sguardo, guardò la strada vuota e oscura. Non pioveva più da qualche minuto e le pozzanghere cominciavano già, per il freddo, a indurirsi. Il gelo copriva le case e il blando fumo che saliva dal cemento, accerchiandoli con una nube bianca. Il sonno e la stanchezza, dipinte nell’ambiente cittadino, cominciavano a farsi sentire prepotentemente sul volto pallido del ragazzo. Colbain guardò la sua immagine riflessa e, facendosi forza, riprese a lavare il pavimento. Prima avrebbe finito, prima sarebbe andato a letto.

Intanto lo storico camminava piano nella notte, meditando su cosa avrebbe fatto l’indomani mattina. Lo aspettava un convegno televisivo con altri esperti del settore sul suo ultimo libro, ‘Demoni a pranzo’, ma non aveva assolutamente voglia, dopo la notte passata sotto l’acqua scrosciante a vagare in cerca di una risposta, di presentarvisi. Guardava le sue scarpe bagnate e infreddolite scuotendosi a tempi regolari il vestito umido e riflettendo su quanto vane erano state le sue ultime pubblicazioni, date in pasto a critici e pubblico solo per ottenere soldi e fama, e non poteva che pensare a quanto immeritato era stato il suo successo. Tutto quel denaro, tutto quel riconoscimento, utilizzati solo per godersi qualche attimo fuggente in compagnia di avvenenti modelle e di importanti personaggi del mondo musicale, televisivo e cinematografico, usati solo per glorificare sé stessi e la propria popolarità davanti a giornalisti e fotografi. Come aveva potuto sprecare tutti quei fondi? Non avrebbe già potuto iniziare una vera e propria ricerca senza appellarsi a quell’idiota di un ragazzo, senza appendersi, come un barbone, alla maglia del primo passante? Doveva cambiare. Doveva investire su quell’idea. Doveva finanziarla, trovarla, studiarla e renderla pubblica al mondo. Ma da dove avrebbe iniziato? Forse da quella striminzita ipotesi? Doveva cercare, cercare e cercare. La ricerca doveva iniziare. E sarebbe iniziata. Presto.

 
 
 

SFONDARE UNA PORTA APERTA

Post n°19 pubblicato il 21 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Pochi minuti dopo era già dentro, zuppo, curioso e incazzato.

-  Sto aspettando. Parla.- disse Grant. Anche lui era arrabbiato. Arrabbiato per la visita inattesa che

    gli aveva sporcato la vetrata e il pavimento, arrabbiato per l’ospite non molto desiderato.

-  Parla? E’ il modo di parlare a un figlio di puttana che si è girato tutta la fottuta città sotto la

    pioggia per cercarti? Mi devi almeno del lei, cazzo! – gli gridò contro Lodge

-   Io non do del lei a persone che non rispetto e che non mi rispettano, quindi, se vuoi uscire.. la

    porta è aperta.- rispose con tono stizzito Colbain, strattonandolo e spingendolo per la schiena

    piano piano verso l’uscita.

-   No, no, aspetta – disse Brian, puntando i piedi sul pavimento e bloccandosi sull’uscio – il foglio..

     il foglio.. l’ho letto.

La giacca era zuppa e aveva macchiato il pavimento con piccole gocce zampillanti. Il ragazzo era stato innervosito dal carattere scontroso del professore e da quella nuova macchia che avrebbe dovuto essere pulita da lui medesimo tra qualche minuto, ma decise di lasciare le spalle dell’uomo e farlo parlare.

-    Ah, bene.. – disse Lodge, aggiustandosi la giacca umida all’altezza del petto mostrando le spalle

      bagnate al giovane – Ora, se non ti dispiace..

Lo storico si voltò, dirigendosi piano verso una sedia del bancone e scostando la spalla ferma dell’ancora leggermente sbarbatello.

-    Ora, se mi servissi un drink..- affermò sdegnosamente lo scrittore, mostrando a Colbain un

      bicchiere e indicando con un dito una lontana bottiglia di Rhum.

-    Stai giocando con la mia pazienza. Ancora così e ti butto fuori – dichiarò tronfio Grant.

-    Ok, ok. Non immaginavo lavorassi in un bar. Ti credevo.. che so.. uno di quegli sfigati

      universitari mantenuti..- disse Brian, poggiando il bicchiere.

-    Ti sembro un universitario?- rispose stizzito il ragazzo.

-    … - qualche secondo di silenzio e un lungo sguardo di sfida passarono nel vuoto della stanza –

      Ho capito, non sono ben accetto – affermò lo storico, alzandosi e lasciando, grazie alla giacca

      annacquata, una pozza di liquido sulla seggiola e sul tavolo.

Colbain non lo toccò e non cercò di fermarlo. Il dibattito sembrava concluso.

Lo studioso si stava ormai dirigendo alla porta senza trovar alcun ostacolo, lasciando una scia di gocce sul terreno. Passò sotto il portone e, sbuffando, guardò il plumbeo cielo. Pioveva piano, come se l’acredine stemperata tra i due avesse calmato il diluvio. Le pozzanghere contenevano echi di cerchi infranti che risuonavano nelle poche gocce cadenti qua e là. Era ancora notte, e la città dormiva. Il fumo bianco dello sbuffo del professore si sparse nell’aria, come un segnale di vita verso entità morte. Sbuffò ancora e sospirò, dicendo:

-    Credo.. credo che.. – disse Lodge, con tono sincero e aperto. Passò qualche attimo di silenzio.

      Qualche sbuffo, qualche sospiro. Lo scrittore era muto come un pesce, bloccato dopo tutta 

      quella veemenza. Grant guardava  l’uomo voltato di spalle come un toro guarda la banderilla –

      …. Claire ti saluta.. o almeno credo.. Ciao

Le parole, dette piano, lentamente, risuonarono nel completo silenzio della città come martelli. Chissà come stava Claire.. Solo per lei, solo per lei sarebbe andato anche a casa di quell’odioso professore. Odioso. Vedeva i suoi passi allontanarsi nella notte e un po’ gli dispiaceva. Se lui si fosse posto diversamente, avrebbe potuto porgli le domande. Ma ora questo non lo interessava più. La verità, per il ragazzo, vagava nelle parole di un bar. La verità sarebbe arrivata presto, come una freccetta sul cerchio concentrico. La verità sarebbe arrivata. Prima o poi.

 

 

 
 
 

PRIMO DIALOGO

Post n°18 pubblicato il 20 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Appena ricevuta dalla provvidenza quell’importante nozione, Lodge lasciò il suo studio. Era tardi, l’orologio a pendolo suonava due o tre rintocchi soltanto, ma doveva andare. Doveva raggiungere quel ragazzo, quel giovane sconosciuto che aveva lasciato in quel biglietto una così importante informazione. Doveva trovarlo e chiedergli come poteva sapere, come poteva ipotizzare e spiegare tutto ciò. Le risposte che poco prima Colbain si aspettava dal professore ora gli sarebbero state richieste ed estirpate dal suo stesso idolo, dallo studioso che avrebbe dovuto averle e che avrebbe dovuto consegnargliele.

Brian vagava per il freddo buio alogeno della notte cercando in ogni anfratto quel giovane, quella speranza, quell’idea nuova. Dove avrebbe potuto trovarlo? Non sapeva neppure da dov’era venuto! Sapeva solo il suo nome: Grant. Dove poteva trovare uno con un nome così? Dove?

Cominciò a piovere. I tombini, chiusi, si riempirono veloci d’acqua trasformandosi in piccoli laghi a pozzanghera per i sorci che a quell’ora tiravano fuori il muso dall’oblio di una nascosta tana. Le strade, umide, sembravano pelli di granitici giganti inondati da un diluvio incontrollabile. Le case ed i palazzi, chiusi e spenti, parevano ampie colonne di un tempio al nulla e all’oscurità di una luna spenta. Le nuvole, grandi e nere, facevano ormai da cielo a quell’atmosfera morta e dormiente. Le poche persone in giro, tra cui puttane, papponi e ubriaconi, correvano verso tane e auto lontane. Qualche barbone, nascosto sotto un balcone o una scala, cercava di ripararsi tranquillamente dalla pioggia scrosciante, coperto da poveri stracci e irsuti peli.

Correndo sotto il temporale e stringendo con le mani la giacca di modo che si tendesse sulla testa a mo di cappuccio, Brian urlava ai quattro venti il nome di Colbain in cerca di una risposta. Il vento che spazzava l’atmosfera non gli seppe rispondere, né gli seppero rispondere le pozzanghere pantanose su sui camminava intingendo i candidi pantaloni. Grant non c’era, svanito nel nulla della dimenticanza. La possibilità di cominciare una ricerca, di carpire dal niente un’origine, stavano allora scomparendo nell’oblio. La pioggia copriva i sussulti dello storico zuppo di notorietà e di brandelli di nuvola, celando nel muro d’acqua che tutto circondava quell’ombra vagante e inquieta.

Una macchina della polizia passò veloce, innalzando nei pressi della figura di Brian un’ondata di liquido pronta ad assaltarlo. Aveva le luci spente e non era dunque in servizio. Magari stava solo tornando dalla visita ad un vicino bar o ad una tavola calda. Questi non erano problemi importanti per il professore, sempre più annacquato e viscido nell’atmosfera pantanosa. Non ce la faceva più! Aveva passato fin troppi minuti a invocare nel vuoto il nome di uno sconosciuto, a fare soffocare la sua voce e la sua gola da colonne di gocce improvvise, a gelare mani e piedi in fangose riserve di liquido. Non ne poteva più di vagare inutilmente.

-   OOOh RaGaScI.. – risuonò nell’aria, trascinato nell’atmosfera da un’ombra lontana e

     barcollante- QuuuEl rAgAsciO è PascIo! -  ripeté per due volte la voce

Un semplice ubriaco che vagava, come il professore, nella buia notte umida e che scherniva il nome di un folle giovine gridava nella notte il suo insulto.

-   Un PaScIo! DuE MaRoNi! CoSa CaCChio è Il Gle.. Glo.. GloGLOLand?

Nell’insano discorso di uno squilibrato spesso si scoprono inquietanti verità, come quando, intervistando un pazzo, ci chiediamo chi lo sia in realtà tra noi che lo ascoltiamo e lui che parla al vento. Quella frase, pronunciata incautamente dallo sbronzo, aveva acceso in Brian un’enorme lampadina. Doveva esserci Grant nei paraggi. Doveva. La coincidenza era troppo evidente. Anche se si fosse trattato di divina provvidenza – che avrebbe dunque portato ad alcune conseguenze certe e già decise – era comunque un’occasione da non perdere.

Lodge corse nella pioggia incontro al pazzo e, scuotendolo vigorosamente, sopportando il fetore di alcool, gli chiese di chi parlasse.

-   Di Chi PaaArlo? Ma.. Di ChI Mi Dà DA BerE!- rispose il vacillante individuo.

-   Dove? – chiese lo storico fissando i suoi occhi spenti e abbagliati dal timore – Dove?

-   E’ Al Bar ALL’AnGoLo.. ma GuArDa UN po’.. EsHcO e GGuaRDa Che Mi FaNnNo.. Oh, Io

    Pago, eh! – disse il ciuco, dipingendo sul suo volto una stranissima maschera di serietà finta e

    mostrando al suo aggressore un indice teso.

Brian lo lasciò, mollandogli le spalle che fino a poco prima aveva bloccato con le proprie mani. Piantò subito il piede su una pozzanghera poco profonda facendo infiltrare nella scarpa e nella calza un poco di liquido e inzuppando così il tessuto e cominciò a correre nella direzione da cui lo sbronzo era venuto.

-   GuArDa Che Ha AppEna ChiuScio..- gridò l’ubriaco – Mi Ha AppENa BuTtAtO FuORi!

Lodge piazzò velocemente i piedi a terra cercando di percorrere il tragitto il più velocemente possibile e trovando, all’angolo della strada principale, un piccolo ristorante segnalato da un’insegna lampeggiante ormai spenta.

                         

                                                                      DA FRANKY

                                                       

                                                        RISTORANTE-BAR-PIZZERIA

                                                     

Vide l’entrata, quel grosso muro di vetro, e ci si proiettò addosso, cominciando a gridare e a bussare. Doveva essere il posto giusto! Troppe coincidenze!

-  GRAAAANT!

 

                                                                    

 

 
 
 

L'INIZIO DELLA COLLABORAZIONE

Post n°17 pubblicato il 19 Agosto 2008 da sangueedanima
 

 

Conoscere sé stessi, come disse un filosofo, è difficile. Se aggiungiamo alla conoscenza del proprio io quella degli altri, la cosa si fa ancor più difficile. Se asseriamo inoltre di voler conoscere e verificare con certezza l’origine di tutto ciò che abbiamo precedentemente confutato, cioè di tutto ciò che ci circonda, allora la cosa si fa impossibile.

Era di certo a questo che pensavano Grant Colbain e Brian Lodge, intenti a cercare attraverso mezzi non perfettamente consoni quali libri, riviste e internet una prova per le proprie ipotesi. I due, conosciutisi e incontratisi nella casa del secondo in un piccolo attimo fuggente, stavano cominciando a cementare un rapporto che li avrebbe portati fino alle profondità del mondo sensibile. Odiatisi ed evitatisi per lungo tempo, il ragazzo e il professore avevano trovato nella stessa ricerca e nelle stesse supposizioni un mezzo comune per avvicinarsi e scoprirsi. In realtà ciò che aveva scatenato la curiosità e la morbosità dell’uno e la pronta risposta dell’altro non era stato altro che un foglio, un piccolo foglio di fibre di carta, un comunissimo foglio da disegno. Ma, come si dice, ciò che conta di una lettera è il messaggio, non la carta su cui è scritta: quel foglio, quel piccolo foglio di fibre di carta, quel comunissimo foglio da disegno, riportava una frase che avrebbe sconvolto le fondamenta del mondo immaginato fino a quel momento dal professore. Quella frase, quell’insieme pittoresco di parole, immagini e suoni, avrebbe totalmente cambiato la ricerca del grande e famigerato storico Brian Lodge. Dipinta su quel foglio da un giovane ragazzo appena uscito dal collegio – Grant Colbain -, quella locuzione avrebbe iniziato una ricerca nuova, estranea e diversa da tutte le precedenti per contenuto, input e conseguenze.

E pensare che quella frase, come tutte le più grandi scoperte dell’umanità, era stata trovata per puro caso. Grant era ancora in istituto quando, annoiato dalle poco interessanti letture, aprì l’ Atlantide di Platone, trovandovi un mondo lontano, fantastico e chimerico. Un’utopia, uno di quei posti dove avrebbe sognato vivere, dove avrebbe potuto esprimere il proprio talento senza ostacoli e dove avrebbe avuto modo di dimenticare ogni cosa lo assillasse. Quel demonio di Cole, la madre pazza, il padre morto, la solitudine, la voglia di fuggire lontano, tutto sarebbe scomparso in quell’incredibile regno. Purtroppo le fantasie sono tali perché raramente si realizzano e Colbain dovette accorgersi subito che questa era una delle tante irrealizzabili.

Passarono i mesi e il tormento provocato da questa idea svanì nel nulla, come le poche idee da lei scatenate. Dal nulla, su un lungo scaffale bianco della biblioteca dedicato ai misteri, apparve un trattato, ‘Il Culto di Slaat’, un libro già celebre all’epoca, ma del tutto sconosciuto alla pur larga conoscenza di Grant. Il ragazzo lo vide lì, abbandonato con la sua bella copertina nuova tra grossi libri polverosi, e decise di salvarlo una volta per tutte dai tarli che lo minacciavano dal suo arrivo in biblioteca. Preso da una curiosità morbosa per il nuovo e lo sconosciuto, Colbain riuscì a finire il volume in poco più di tre giorni. Quel tomo non era certo leggero e fruibile a lettori della sua età, ma il ragazzo vi trovò comunque un motivo di interesse: il libro, ambientato nell’isola tedesca dell’Helgoland, trattava di discorsi teologici e filosofici che non lo interessavano, ma si soffermava, nella descrizione dell’ambientazione, su un particolare curioso. Quel particolare, quello specifico particolare, aveva lasciato Grant di stucco. Descrivendo un’immersione subacquea del protagonista, il libro così parlava:

                                                                  

                                                  ‘ Oh, quant’era bello rimirar

                                                    le grosse pietre rosso, giallo e nere

                                                    che in fondo al mar coprivan i fondali’

 

Conoscendo alla perfezione l’Atlantis di Platone letta solo qualche mese prima, nella mente di Colbain riaffiorarono scaglie di ricordi incredibili: nel libro il filosofo greco forniva frequenti descrizioni di grandi palazzi dipinti dei colori dei massi dell’Helgoland, tinti per l’appunto di giallo, di rosso e di nero.

Le due informazioni combaciavano perfettamente e avrebbero portato Grant ad una conclusione drastica: Atlantis era lì, e lo aspettava. Tutto combaciava: le pietre, la caduta del più grande stato dell’Occidente Classico nei fondali marini, la vicinanza dell’isola alla grande patria degli antichi Celti, famosi frequentatori del mondo greco e del suo mercato, come testimoniano alcuni ritrovamenti in tombe celtiche. Tutto era perfettamente incastrato in un enorme mosaico che stava ormai incastrandosi nella mente del giovane ed inesperto ragazzo. Fu per questo che il fanciullo aspettò impazientemente l’uscita da quella falsa prigione chiamata collegio; fu per questo che appena ne fu uscito corse a cercare il professore. E fu per questo che l’assoluta mancanza di risposte da parte del suo idolo lo scioccò profondamente, trascinandolo nel buio totale della depressione. Quel rifiuto, quella noncuranza, quella delusione avevano riportato per un momento Grant a quel momento, quell’istante di profondo smarrimento che era seguito alla sconvolgente scoperta del segreto di Cole Williams.

Fu per questo motivo che lasciò alla piccola Claire quel minuscolo foglio, quell’appunto veloce e istantaneo che tanto avrebbe sconvolto la sua vita. Fu per questa ragione che, con un grande pennarello nero, scrisse su quel foglio una frase piccola, quasi innocua a prima vista, ma che avrebbe subito colpito Brian fin nel profondo.

 

                                                             HELGOLAND = ATLANTIS

 

Il professore, leggendo svogliatamente l’appunto, credeva di avervi trovato un confronto tra la sua filosofica opera, Il Culto di Slaat, e quella di Platone, L’Atlantis. Credeva, in un primo momento, si trattasse solo di un complimento, di un altro comune riconoscimento, di un innalzamento del suo sapere filosofico verso quello del grande greco. Non pensava che quell’uguaglianza, quell’espressione logica, quella comparazione, dovesse essere presa alla lettera. Riuscì a comprenderlo solo più tardi quando, leggendo un articolo di un giornale specializzato, trovò un ampio paragone tra i fondali dell’Helgoland e le descrizioni di Platone. Riuscì a comprenderlo solo per caso, come Grant tanti anni prima. Per caso, come tutte le più grandi scoperte.     

 
 
 
 

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