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Un blog creato da sangueedanima il 03/08/2008

Sangue ed anima

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L'INFERNO CHE ATTANAGLIA

Post n°6 pubblicato il 08 Agosto 2008 da sangueedanima
 

La prima cena dopo l’apparizione delle larve fu come le altre: calma, calda e profumata. Il dubbio assaliva a ondate l’animo di Colbain, sorpreso a difese abbassate dalla nascita di quel nuovo fenomeno, ma la ragione, il pudore e un poco di viltà bloccavano le sue domande. Il senso di rispetto che provava per quell’uomo che lo aveva accolto nella casa bruciata da sua madre, che vedeva come uno di quei supereroi solitari e misteriosi da fumetto dark e che aveva dato un letto e un sostegno ad un’anima condannata alla dannazione eterna per il tentato suicidio era troppo grande per essere superato da un dubbio così piccolo. Le domande si infrangevano nello sguardo di Grant, intento a fissare il suo grande angelo nero, maledetto dal paese e schernito dalla plebe, ma onorato e glorificato dai media e dal governo. Quella sera il piccolo mangiò più lentamente, quasi fosse distratto da qualcosa di immensamente importante. Il dubbio, nascosto nella profondità del suo istinto, attendeva la notte.

Finita la cena, Grant salì piano le scale, aspettando il momento opportuno per attaccarsi alla grossa finestra senza essere visto da Williams. Vedendo il bambino attendere un evento presso la vetrata, Cole non si mosse dal divano su cui si era seduto e continuò a guardare tranquillamente i programmi televisivi. Colbain dovette aspettare al freddo finestrone di metallo la mezzanotte, prima di arrendersi definitivamente e precipitarsi in camera sua. Vestito di un pigiama corto, aveva ormai tutto il corpo intirizzito dal gelo che ogni notte penetrava in quella casa, rendendola un vero e proprio frigorifero. Battendo i denti vigorosamente si infilò nel letto, coprendosi fino alle orecchie. L’attesa era stata lunga e dolorosa e il silenzio e la solitudine di quei momenti gli aveva riportato alla mente i giorni di scuola solitari e cupi. Il buio che circondava la finestra e in cui si era immerso per non farsi vedere da Cole era penetrato nella sua mente, facendolo, come un racconto di paura, intimorire e rabbrividire. Fu allora che si ricordò di tutte le pastiglie ingurgitate in quello sgabuzzino buio solo pochi mesi prima. Pastiglie che lo avevano portato alla coscienza che ormai la vita, colma di sofferenze, sarebbe stata solo un periodo di passaggio prima di una punizione ancora più grande. Chiuse gli occhi per non pensare a tutto questo, a tutto l’orrore che lo aspettava al di là della vita, al di là del mondo terreno e sensibile. La mente, però, fa brutti scherzi. Difatti quella stessa notte Grant ebbe un incubo tra i più terribili della sua intera fanciullesca vita, una visione colma di urla, vuoto, buio e orrore. Quella notte Colbain vide per la prima volta l’inferno.

Il soffitto, alto e roccioso, pendeva sulla sua testa di fanciullo. Intorno a lui l’oscurità copriva ogni angolo della tetra e vastissima grotta in cui si trovava. Era da solo in un buio assoluto. Una eco fortissima riuscì quasi a bucargli i timpani – CALIMEEEROOO- La voce era roca e sibillina e riempiva l’intero ambiente con la sua stridente potenza.-CAAAAAALIMMMMMERRROOOOOO- Gridava, strideva, si avvicinava. I passi si facevano forti e pesanti. Non era comunque Colbain a muoversi. Qualcosa si avvicinava. Qualcosa di grosso. Grant sentiva il suo respiro asmatico e profondo diventare sempre più forte – CAAAAAAALIIIIIIIIMEEEEEEROOOOOOO- Una brezza caldissima colpì la schiena di Colbain, fermo nel bel mezzo della grotta e madido di sudore. Il piccolo tremava come una foglia – CALIMEROOO- Le stalattiti ferme sulla sua testa cominciarono a vibrare lentamente, mentre il respiro e la voce si facevano più forti. L’oscurità cedeva a un rosso fuoco che stava avvolgendo sempre più la stanza. Grant cominciò a percepire un forte caldo e fissò la sua mano, bagnata dal sudore e illuminata da una strana luce scarlatta. I battiti del suo cuore diventarono più veloci, più forti. Il suo animo era scosso e il suo corpo, solo nell’oscurità più completa, cominciava a non rispondergli più. Il suono di una brezza desolante pervadeva l’intero antro. – CAAAALIIIIMEEEEROOOO- La voce era vicina, la luce sempre più forte e il rosso sempre più caldo e potente – CALIIIMEROOO – Silenzio. Il corpo di Colbain fremeva, ma era bloccato dal terrore. Nulla. La voce era svanita, il buio era tornato all’improvviso, le stalattiti erano ferme e la brezza era tornata calma. La mente di Grant si calmò e il suo corpo, bagnato dal sudore come in una grande sauna, tornò in suo completo controllo. Poi la vide. Una stalattite si muoveva ancora. E la luce. La luce era piccola, ma si espandeva velocemente. E il vento tuonava, più forte che mai. La carne era cotta dal calore di una fiammata calda . Le stalattiti si staccarono dal soffitto. Si avvicinavano allo sguardo terrorizzato di Colbain, fisso a osservare il soffitto che inesorabilmente crollava su di lui. Il corpo non si muoveva. E il caldo spazzava via la pelle, investendo il fanciullo con tutta la sua potente brezza. E ancora il grido                           

                                                    - DANNNATOOOOOO -

 

     

      Il mattino dopo si svegliò. Il letto era bagnato e non solo dal sudore. Si era orinato addosso dalla

      paura e la vergogna di doverlo dire al suo tutore lo assalì potentemente. Prese le coperte e il   

      copriletto e le strappò dal  materasso per poterle gettare nel secchio del bucato sporco. Notò che

      anche la branda era sporca e venne tentato dall’idea di gettarla dalla finestra. Faceva più caldo

      del solito, forse perché l’urina aveva riscaldato in parte il suo piccolo pigiama. Era confuso sul

      da farsi e, profondamente indeciso, si buttò sul pavimento in parquet abbracciando le coperte.

      Restò in quella posizione a pensare per parecchi minuti. L’incubo aveva sconvolto il suo animo

      debole. Quelle sensazioni non potevano essere solo mentali: lui le aveva percepite, le sentiva,

      cercava di soffocarle, ma le ricordava perfettamente. Andandolo ad avvisare che la scuola

      apriva fra pochi minuti, Williams lo trovò coricato sul pavimento, avvolto dalle gialle coperte

      bagnate. Il cuscino era a terra poco distante da lui. Cole lo raccolse e lo porse a Colbain, il cui

      sguardo era perso nel vuoto più totale. Williams lo prese da sotto il braccio e lo sollevò con

      forza, per poi adagiarlo sullo stesso materasso a cui Grant lanciava ora le maledizioni più

      disparate.

-         E’ normale avere incubi, non ti preoccupare –sussurrò il tutore al suo affidato.

Quasi come gli avesse letto negli occhi, con queste parole Cole riaprì totalmente le porte dell’animo di Grant, il cui sguardo tornò vispo e vivo. Colbain prese le coperte e si diresse verso il bagno,  chiudendo fragorosamente la porta per poi appoggiarvisi. Il suo angelo nero lo aveva salvato un’altra volta dall’oblio, dalla cancellazione dell’essere e dell’esistere. Come aveva potuto dubitare di lui, pensare solo per un attimo che lui avesse qualche relazione con quei vermi? Come aveva potuto far parte, anche se per pochi istanti, della plebaglia giudicante del villaggio? Si sentì profondamente sporco, infangato da quella sporcizia che ti attanaglia l’anima. Pensò che forse l’inferno era il giusto luogo per un’anima macchiata come la sua, che avrebbe raggiunto l’intero villaggio negli antri abissali e che, per giunta, se lo meritava. Grant pensava che il suo sogno sarebbe divenuto reale e che Dio avrebbe operato bene facendolo scendere nell’oscurità in cui in fondo si trovava dalla nascita. L’inferno era il suo luogo e l’obbedienza e il rispetto di un angelo terreno come Cole lo avrebbe portato ad alleviare, anche se di poco, la sua pena. 

-         Ti ho portato un paio di mutande pulite. I vestiti te li potrai prendere da solo,no?- disse la voce di Williams al di là della porta- Fai pure con calma. Ti porterò a scuola quando te la sentirai.

I passi di Cole si allontanarono dalla porta e risuonarono per l’antro delle scale. Grant socchiuse la porta e prese le mutande che trovò subito di fronte a sé, appoggiate sul corrimano. Infilò gli slip dopo aver riposto la biancheria sporca nel cesto e restando nudo per qualche attimo, giusto il tempo di sentire di nuovo la fredda brezza della casa. Appoggiò per  un momento le lenzuola alla grossa vasca e poi le spinse facendole cadere nella stessa. Aprì il rubinetto dell’acqua calda e fece riempire la conca fino all’orlo, in modo che le macchie si smollassero completamente. Il liquido che circondava i tessuti diveniva sempre più giallognolo, rendendo la vasca una piccola pozza di stagno. Grant fissò per un attimo le lenzuola, osservò il suo sguardo ambiguo allo specchio e infine, con tutto il ribrezzo che provava per sé stesso, sputò dentro il lavandino. Fissò nuovamente lo specchio con aria furiosa e quindi si allontanò dal bagno, cercando nei cassetti della sua camera i vestiti per la giornata. Buttò sul letto una maglietta pesante presa a caso nel mucchio ed un paio di jeans blu regalatogli dalla madre il giorno del suo decimo compleanno. Dopo essersi vestito, uscendo dalla camera, fissò la finestra a cui tante attenzioni aveva dedicato la notte precedente, quindi scese le scale e si avviò verso la cucina, dove una sontuosa colazione lo attendeva. Una dura giornata lo aspettava a scuola: si era scordato di lavarsi e togliersi di dosso quel fetore di piscio prima di cambiarsi d’abito.

 

 
 
 

NELLA GROTTA DEL DRAGO

Post n°5 pubblicato il 07 Agosto 2008 da sangueedanima
 

La casa, al ritorno del sergente, era vuota come la botte di un ubriaco. Quell’aria di gioia e vita che si respirava fino a pochi anni prima era svanita nel nulla. Mike guardò l’attaccapanni, su cui poggiava ancora un pesante cappotto verde tonso di polvere. Restò a fissarlo pochi attimi, poi poggiò il suo impermeabile sul supporto libero e si avviò verso la cucina. La moglie lo sentì entrare, ma non pronunciò nessuna parola. La tavola era perfettamente preparata alla cena e le sedie, leggermente scostate, attendevano i glutei degli inquilini. Baptista si sedette, senza parlare, tenendo lo sguardo basso. I suoi occhi fissarono per un attimo sua moglie, seduta di fronte a lui, per poi abbassarsi nuovamente. Un pasto povero, caldo solo in apparenza, inondava la stanza di profumi tenui. La terza sedia, vuota e serrata al tavolo, faceva da commensale alla coppia. Non era il sonno ad annebbiare la mente del sergente, ma la malinconia che si nascondeva nei suoi occhi. Quella sedia vuota, ricordo di qualcuno che non c’era più e avrebbe dovuto esserci, si stagliava contro la sua anima come un pugnale. Si dice che l’assenza uccida. Di certo al sergente bene non faceva.

Intanto, Grant continuava a correre sulla lunga via verso il Canada, con la mente ormai in ostaggio della velocità. Quella strada, lunga e ampia, senza svolte, trasportava la sua mente verso i luoghi più disparati. Verso i giochi, verso la scuola, verso i profumi di una tavola imbandita e di un vero pranzo, verso la comodità di un letto, verso Cole, l’angelo nero di Norwich.

 

Dopo qualche giorno, Grant si rese conto che Williams non era altri che il direttore del carcere penitenziario della città, rinomato per la sua severità e per la sua intransigenza in tutta la nazione. Fu un giornale a raccontarglielo, attraverso quegli ampi titoli accattivanti, quelle strisce di pensiero e quei fiumi di parole che dominano ormai l’opinione dell’uomo. “Il giovane Cole Williams, menzionato al governatore per la perfezione del suo lavoro, è stato premiato con un riconoscimento alla carriera. Sotto la sua giurisdizione i crimini sono diminuiti del 40%. Il futuro promette bene per la nuova classe dirigente”. Colbain rimase colpito da questa enorme e prolissa lode e cercò di capire meglio in cosa consisteva il lavoro del suo tutore. Informandosi attraverso la biblioteca, i professori e Internet, a cui accedeva grazie all’ora di Informatica, Grant venne a sapere che quello che stava ormai diventando il suo idolo mandava alla sedia elettrica migliaia di persone all’anno. Convincendosi che il suo angelo non potesse agire contro il volere Divino, a cui il bimbo credeva ancora fermamente, Colbain costruì attorno a Williams un mondo di malvagi intenti a distruggere lui e il suo bambino. Cole stava diventando, agli occhi del giovane, un vero e proprio supereroe.

Grant ricominciò a credere in sé stesso, a trovar la forza per andare avanti, a mangiare e bere con gusto, a porre domande, a vivere. Il suo tutore fu stupito dalla reazione inspiegabile del piccolo, risollevatosi dal suo guscio di silenzio e cieca obbedienza senza un’apparente ragione. Preoccupato sul da farsi, finì per non far nulla di diverso da quello che faceva abitualmente.

Il piccolo dormiva di gusto, addormentandosi sempre prima delle undici. Le sere passavano velocemente, come una dolce brezza sul selciato di un parco in primavera. I giorni felici passano in fretta e si può ben dire che quello fu uno dei periodi più veloci della vita di Colbain. Almeno finché non cominciarono a spuntare i ‘ vermi oscuri ’,  grossi sacchi neri che apparivano ogni notte nel giardino di Cole per poi sparire nel nulla la mattina. Quegli esseri attanagliavano la mente di Grant scatenando la sua morbosa curiosità infantile e da quel momento in poi le cene con il suo angelo nero sarebbero state piene di domande. 

 

 
 
 

ALLE PORTE DELL'INFERNO

Post n°4 pubblicato il 06 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Era ancora lo zimbello di tutti, il Calimero del paese. Colbain, bistrattato dai ragazzi e ignorato dagli adulti, cominciava a pensare che le altre persone non fossero altro che ostacoli da abbattere. Il suo unico amico era quell’uomo alto e biondo conosciuto tanto tempo prima alla stazione del bus e mai più rivisto. Il ‘ principe delle mosche ‘, come lo chiamavano in paese, era il suo unico sostegno nell’irta scalata alla vita. Grant non sapeva nulla di lui, ma per quel poco che aveva potuto vedere quel ragazzo non si meritava la cattiva fama che tutti gli attribuivano.

Sperava di incontrarlo ancora una volta per cercare insieme una via d’uscita da quella vita impossibile, ma ogni giorno le sue speranze si affievolivano e in un anno quel desiderio scomparve del tutto. Calimero aveva ormai dieci anni quando, conscio della scoperta di una scappatoia alla sua sofferenza, prese la decisione di suicidarsi, di sparire da un mondo che non lo aveva mai voluto. Sua madre, che da tempo lo bistrattava – soprattutto perché stupita dall’avvicinamento del figlio al principe – lo sorprese, una mattina, a ingurgitare decine di pasticche medicinali. Come aveva potuto suo figlio progettare così bene il suo suicidio? Doveva esserci stata per certo una spinta a questo insano desiderio di morte, e chi se non quel bastardo di Cole Williams, l’angelo nero, il principe delle mosche,  poteva averla data al suo piccino?    

Sconvolta dal comportamento del figlio, la giovane donna decise di farsi giustizia da sé. Fu nella  notte del quindici agosto che la casa di Cole Williams venne rasa al suolo da un incendio. La polizia trovò la donna , stravolta dalla pazzia, stesa nel giardino sul retro della villetta. Il giudice fu ineccepibile e, tenendo conto del dolore provato dalla donna per il grosso pericolo scampato dal figlio, la condannò a qualche anno di reclusione in un centro di sanità mentale. Il giovane  Cole, partito la sera prima per un viaggio, si salvò dal rogo e non poté intervenire in tribunale   perché trattenuto da intense attività lavorative. Comunicò comunque con la corte via fax e, venuto a sapere del giudizio della corte, chiese di ottenere in affidamento il piccolo Colbain. Grant, che si trovava in ospedale ed era scampato da una morte piena di sofferenze, venne a sapere tutto molto più tardi e si adeguò alla decisone presa dal giudice come fosse  una scelta divina. Trasferitosi alla fine della riabilitazione nella casa di Cole, appena ristrutturata dopo l’incendio, avvertì subito la mancanza di qualcosa in quella sua piccola triste vita.

L’assenza di sua madre, pilastro dei primi anni della sua vita da quando suo padre era morto in quell’incidente stradale, era per Grant un salto nel vuoto più profondo. L’unica consolazione era quella di poter iniziare una nuova vita, diversa da quella che aveva, a sofferenza, vissuto finora. Quella casa fu la prima cosa che vide dopo i mesi passati in un centro di riabilitazione psichiatrica. La morte lo accompagnava ormai in ogni momento della sua piccola vita e quel giorno entrò insieme a lui in quella casa, portando con sé la preoccupazione della pena che gli sarebbe toccata dopo il decesso. Quei muri bianchi e quella ostentata purezza sbattevano contro il suo animo nero e peccaminoso, avvolto dalla visione paradisiaca di una magione candida come la neve. Le finestre, occhi ampi e vitrei, scrutavano la perversità di quel bimbo, che da solo aveva cercato di fermare il treno della vita e che ne era stato travolto. Quella pena, quel rimorso, quella svogliatezza e quel rifiuto del mondo lo avrebbero accompagnato per tutta la sua esistenza. Cole prese le chiavi dall’ampia tasca del pantalone blu e le infilò nella grande e massiccia porta d’ebano. Appena la porta si aprì l’intera casa penetrò nei ricordi di Grant con una tale violenza da lasciarlo attonito per qualche secondo. La grande scala in ciliegio, posta davanti alla porta, sembrava una grande lingua pronta a inghiottire chiunque entrasse. Al lato sinistro della rampa, un piccolo corridoio conduceva al sottoscala e alla cantina, chiusa a chiave a doppia mandata e impenetrabile per il piccolo Colbain. Sempre sul lato sinistro un’ampia arcata conduceva alla sala, tappezzata in ogni angolo di verde antico, al cui centro un grande tavolo, anch’esso, come la porta, d’ebano, focalizzava l’attenzione dell’ospite. Ampi mobili e cristalliere, un grande sofà, tende rosse alla finestra, imponenti sedie alte e sfarzose, come quelle nei gloriosi ritratti di re e papi, grandi quadri alle pareti e un enorme stereo riempivano il resto della stanza. Grant, nel suo girovagare, aveva capito che Cole, nonostante le maledizioni dei paesani, non se la passava male. In due o tre mesi il suo tutore era riuscito a costruirsi una casa da alta borghesia facendo sparire dalla magione qualunque segno del precedente incendio. Di fianco alla sala una piccola cucina risplendente di metallo e plastica accolse l’ultima tappa dell’esplorazione di Grant del piano terra. Diretto a grandi passi verso il piano superiore e appeso al corrimano come una scimmia, Colbain scalò quella che poco prima gli sembrava una grande lingua e si trovò infine in un grande atrio vuoto, dove un enorme finestra luminosa abbagliò il piccolo ospite. Alla sua destra una grossa porta conduceva alla camera da letto di Cole: grande, ben arredata, sofisticata, con un enorme letto a baldacchino ricoperto di teli di seta, un comodino su cui poggiava un’elegante abatjour, un grande lampadario di ferro raffigurante un angelo con una fiaccola tra le mani, un grosso armadio in stile ottocentesco e vasti tappeti arabi a coprire il pavimento. Uscito dalla camera del suo ospitante, Grant esplorò dapprima il piccolo bagno, munito di gabinetto, bidè, lavandino e di un box doccia in vetro, per poi piombare nella camera degli ospiti, sua futura dimora. Un’ ampia finestra illuminava i più reconditi anfratti della stanza, evidenziando il piccolo e vuoto armadio in ciliegio, le piccole valigie e l’anima di Colbain, steso sul comodo letto a fissare il soffitto. La casa, come aveva notato, era priva di qualsiasi fonte di calore: persino lampade e lampadine erano limitate alla sola stanza di Cole. In inverno il freddo sarebbe penetrato dalle ampie finestre rendendo la casa un vero e proprio frigorifero. L’unico luogo ignoto a Grant, la cantina, lo attirava a sé più di qualsiasi altro luogo. La prima cena a casa Williams fu un disastro. Grant era rinchiuso nel suo guscio oscuro e si limitava solo a fissare il lungo coltello d’acciaio messogli di fianco al piatto. Cole cercava di scrutare l’animo del ragazzino per risvegliarlo da quel più che evidente torpore, invitandolo talvolta a mangiare ciò che aveva nel piatto. Colbain snobbava il cibo, ingurgitandone poche briciole alla volta. La voce di Cole passava dalle sue orecchie senza essere trasmessa al cervello, finendo dispersa negli ampi spazi vuoti della sua alienazione.

Ad un tratto, dalla bocca di Grant uscirono frasi che agli altri sarebbero parse leggere come l’aria, ma che Cole sentì pesare sul suo animo come macigni. Quel sussulto, quella provvisoria uscita dal guscio oscuro che isolava Colbain dal mondo, risuonò nella mente di Cole come un potente rinculo.

-         Cosa c’è nella cantina?

      Williams fece finta di non aver sentito e continuò a mangiare, mentre le parole si disperdevano nell’ampio salone e rimbombavano nel suo cranio. Grant, già in condizioni mentali più che precarie, fu talmente colpito dal silenzio che non ebbe più il coraggio di parlare. Il suo tutore, l’angelo nero, vide l’espressione del bimbo svanire nel nulla, in quella maschera di sopportazione e angoscia che avrebbe coperto il suo volto per qualche tempo.

 
 
 

COME GUARDIE E LADRI

Post n°3 pubblicato il 05 Agosto 2008 da sangueedanima
 

-         E questo era Tom Jones col suo ultimo singolo “Wendy in the morning”.  Comunque, parlavamo dell’attentato di Pechino. E’ ora di leggere qualche mail…allora… Clint di Philadelphia si chiede se non sia un altro Towergate.. bello mio, potrebbe anche essere! Chi credeva che l’attentato delle Twin Towers fosse stato pianificato da Bush e dal governo? C’è voluto un anno e mezzo e la modifica della Costituzione per scoprire la verità sotto tutto quel merdaio. Non possiamo più fidarci di nessuno, credi a me! E ora beccatevi un altro po’ di musica, con Jackie Callsworth, “she said goodbye”

La radio faceva da sottofondo agli urli del cavallo metallico di Colbain, sforzato da troppe fughe e da un uso smodato che aveva ormai reso il suo motore un colabrodo. L’avantreno teneva a fatica la strada che lo sterzo cercava di creare tra flussi di asfalto e terra. L’impermeabile gocciolante sporcava costantemente i bordi del tappetino, rendendo pantanoso il tessuto sotto i piedi del fuggitivo. Inseguito dalla costante paura di un blocco stradale, Grant si stava ormai dirigendo verso i confini statali e il Canada, sua prossima meta e sua ancora di salvezza. Lì, tra i boschi del Quebec, nascosto dal fogliame e dalla mano di madre natura, un piccolo chalet avrebbe potuto offrirgli un riparo sufficiente a nascondersi fino alla cessazione delle ricerche. La vicinanza del suo rifugio gli fece temere però che qualcosa non andasse per il verso giusto. Troppa calma. Troppo facile.

Dall’altra parte dello stato il tenente di polizia Mike Baptista si scervellava per comprendere qualcosa della sua preda. Tutte le forze a sua disposizione erano alla ricerca di quel feroce assassino e ogni giorno era, davanti alla stampa, un fallimento. Non che a Mike interessasse molto il parere dei media. Buon lavoratore, buon tenente e buon poliziotto, a Baptista interessava solo catturare i malfattori per tornare, alla sera, nel suo caldo soggiorno insieme alla sua  insopportabile ma fedele mogliettina. Di umili origini portoricane, il tenente aveva dovuto, in tempi abbastanza lontani, mantenere la sua intera famiglia con azioni di cui allora si vergognava molto meno. Ora che aveva un discreto salario poteva in parte godersi la vita che non si era goduto in passato, ma aveva preferito la sobrietà di una vita semplice e di una villetta in periferia. La sua voglia di investigare, nata grazie ad un vecchio poliziotto che, negli anni dei furtarelli, si era interessato a lui e lo aveva indirizzato sulla retta via, stava ormai svanendo. O almeno, questo stava per accadere prima dell’arrivo di Grant Colbain, che con il suo alone di mistero e pazzia aveva risvegliato l’indole del tenente. Pur avviandosi verso l’età pensionabile, Baptista aveva ancora una grande energia da donare a questo suo ultimo, interessante caso. E poi, per un poliziotto, quale fine di carriera sarebbe stato migliore della cattura di un famosissimo serial-killer?  

-         Signore, la teste sta aspettando- gli disse l’appuntato.

-         Dille che arrivo- rispose con calma e fermezza Baptista.

Dopo qualche secondo e qualche appunto il tenente prese un foglietto, se lo infilò nel taschino e si levò dalla scrivania del suo piccolo disordinato ufficio. La stanza, piena di ritagli di giornale, di fotografie sanguinolente e di post-it, sembrava la proiezione mentale di un pazzo. Tetra, raccolta, quasi claustrofobica, ricordava vagamente uno stanzino per lo sviluppo delle foto. Il tenente aprì la porta scricchiolante e uscì nel corridoio, dirigendosi verso la stanza dell’interrogatorio. Ne aprì la poderosa porta di metallo e vi entrò chiudendo l’uscio dietro le sue spalle. Davanti a sé la teste, una bianca vestita in modo sgargiante e provocante, fremeva dalla voglia di parlare.

-         Signora…- disse Mike dando un’occhiata alla cartellina lasciata sul tavolo dai suoi colleghi- pardon, signorina Elizabeth Goodfellow…lei dice di aver avvistato il ricercato Grant Colbain..

-         Oh, sì. Ero ad un motel a.. svolgere attività personali e.. ho intravisto questo.. quest’uomo. Aveva una faccia terrificante.. mi sembrava di averlo già visto da qualche parte e.. poi mi sono ricordata del tg e del killer dalla faccia sfregiata..- rispose la donna- Comunque può chiamarmi Bettie, tenente.

-         Signorina Goodfellow- disse Baptista, noncurante dell’ultima frase della teste- quale attività stava svolgendo nel motel? Parli schiettamente, o dovrò ritenere la sua testimonianza nulla.

-         No, i-io..- rispose Elizabeth – ecco..

-         Era per caso con un uomo che l’aveva pagata per prestazioni sessuali?- chiese il tenente

-         ….- la donna rimase ammutolita per qualche secondo, come fosse stata colpita nel segno, poi rispose – sì, tenente.

-         Bene. Ora posso accettare la sua testimonianza. La prego di dirmi ora e luogo dell’avvistamento- chiese Mike.

La teste rispose con precisione, fornendo al tenente altri dati per la sua assillante ricerca. Dopodiché la signorina si congedò e, pensando di essere ormai braccata per prostituzione, se ne uscì velocemente dalla stazione di polizia. Baptista era frastornato e cercava di mettere insieme i pochi dati a sua disposizione. La sua preda era di certo diretta all’estero, ma avrebbe potuto benissimo cambiar strada per far perdere le tracce di sé. Non sarebbe stata la prima volta, e probabilmente neanche l’ultima.

-         Tenente, l’abbiamo in pugno, vero?- chiese uno degli appuntati

-         Non credo. Può essere una delle centinaia di teste venute qui solo per un po’ di fama. Può anche aver detto solo un mucchio di stronzate. Dobbiamo indagare. Mandate una pattuglia al motel Quazar di Lexington.- ordinò Baptista all’appuntato, rientrando nel suo ufficio.

-         Come vuole, signore- rispose al tenente sull’uscio della porta.

Mike si sedette sulla sua piccola morbida sedia rossa e, appoggiati i gomiti sulla scrivania, prese a esaminare un blocchetto di documento riguardante il ricercato.

-         Chi diavolo sei realmente, Grant Colbain?- parlò tra sé e sé Baptista, osservando la scheda 

investigativa  della sua preda- Chi sei, faccia di cuoio?- disse, mentre l’occhio gli cadeva su un misfatto della sua infanzia.

 

 
 
 

IL PRINCIPE DELLE MOSCHE

Post n°2 pubblicato il 04 Agosto 2008 da sangueedanima
 

Aveva sempre vissuto come un piccolo reietto, allontanato dai compagni, più forti e furbi di lui, e schernito dal mondo per ragioni che non comprendeva. Era più piccino e minuto degli altri, tanto da sembrare di qualche anno più giovane. Pettinato e vestito dalla madre, sembrava il pulcino Calimero della pubblicità del detersivo. Ormai era questo il suo nomignolo e lui non si ingegnava affatto per scollarselo di dosso, quasi fosse travolto ancora da quel tipico calore simile al seno mammario che ti deabilita e non ti fa reagire. La mattina del terzo giorno di Marzo il sole brillava di una luce intensa, cercando tra le piccole vie la risposta della sua amata Terra. Il cielo, di un azzurro opaco, si abbinava perfettamente al maglioncino del piccolo Grant. Calimero, come lo chiamavano gli altri, si stava avviando all’autobus in tutta fretta cercando di non incrociare i bulletti del quartiere. Mancava solo qualche metro per arrivare, almeno oggi, sano e salvo alla stazione.

-         Guardate chi c’è, Calimero!- tuonò una voce dalle sue spalle.

-         Oh…Calimero…- rispose un’altra voce dall’angolo del muro di mattoni che terminava poco più avanti del suo ultimo passo.

-         Ce li hai i soldini del pranzo stavolta, Calimero? Te li ha dati la mammina ?- gli chiese il ragazzo robusto piombatogli improvvisamente alle spalle.

-         I-Io…non li ho- rispose con una vocina flebile il piccolo Grant.

-         O ma che bugiardo, Calimero! La mamma non ti ha insegnato che non si dicono le bugie?- tuonò l’altro adolescente, sbucato fuori dall’angolo proprio di fronte a lui.

-         Dai, tira fuori i soldi, nanerottolo

-         Tienilo, gli svuoto le tasche

-         Lasciatemi!Lasciatemi! Aiuto!

-         Stai fermo, Calimero!

-         Fermo o ti pestiamo come l’altro giorno!

Ad un tratto –Va tutto bene, ragazzi?

I due guardarono l’uomo- alto, biondo, le sopracciglia leggere e sottili, il viso rimarcato da un infanzia sofferta, capelli corti con piccole basette e una barba appena rasata –sbucato all’improvviso alle loro spalle e, presi da una paura inspiegabile, corsero via con la coda tra le gambe. Calimero pensò di aver trovato il suo angelo protettore, ma quando guardò meglio l’essere venne preso dal panico.

-     Stai bene, piccolo?- chiese l’individuo allungando una mano a Grant, che era a

      terra.Colbain era impietrito e non riusciva a spiccicare nemmeno una parola.

-         Ti hanno fatto del male? Dovrò mica chiamare un’ambulanza?!- chiese il biondo, preoccupato dello shock del fanciullo- Forse è meglio se ti accompagno all’autobus, eh?

Grant non sapeva cosa rispondere. Conosceva la reputazione del personaggio, ma sapeva che senza la sua protezione non avrebbe raggiunto la scuola senza essere picchiato.

-         Comunque, io sono Cole. Piacere.- insinuò la creatura allungando la mano tesa verso Calimero.

Colbain ragionò non poco sul da farsi, pensando a quale fosse il baratro meno profondo, ma alla fine, pur con qualche paura, allungò la manina e afferrò quella dell’uomo, trovando in essa la sicurezza che gli mancava da quando era uscito di casa quella mattina.

-         Io… s-sono G-Grant- balbettò il bambino.

-         Bene. Allora, devi prendere il bus alla stazione, vero? Io ti porto lì, poi scegli tu…se vuoi aspetto finché non arriva…- disse l’individuo. Colbain fissò il volto della figura solare. Il suo viso, illuminato dalla luce del sole, sembrava quello di un angelo decaduto. Grant, che ben conosceva le voci circolanti su di lui in paese, si chiedeva, facendo un parallelo con la favola di cappuccetto rosso, se egli fosse il lupo o il cacciatore. Fu a quel punto che mugugnò qualcosa. Trovò la forza di fare quella domanda nella curiosità di fanciullo, che spesso ha spinto noialtri a fare grosse idiozie. Una domanda che di certo Cole sentì, ma a cui evitò di rispondere. Una domanda di cui tutto il villaggio si chiedeva la risposta.

-         P-Perché ti chiamano… così?....- ripeté Grant

-         Perché non sanno nulla, piccolo. Il paese non sa nulla di me.- rispose Cole, dopo un attimo di silenzio- Come quei bulli. Quei bulli non sanno nulla di te. Per questo ti chiamano Calimero. Non sanno come chiamarti, come identificarti.. per loro sei solo un bambino che assomiglia ad un piccolo pulcino nero.. come io per il villaggio sono…

Cole non riuscì a finire il discorso. Le sue parole sembravano bloccate dall’evidenza della frase. Ci fu un momento di silenzio imbarazzante, poi Grant ritrovò il coraggio per parlare.

-         M-mi spiace.. i-io n-non…- disse il bambino

-         No, non ti devi preoccupare… Ormai sono abituato…-disse il biondo- Dai, visto, il bus è appena arrivato. Sbrigati a salire o lo perderai! Grant lasciò la mano amica e corse verso l’autobus. Salita l’irta scaletta, si sedette ad uno dei primi posti, vicino al conducente,cercando oltre il vetro del grosso finestrone di fronte a lui lo sguardo di quell’uomo alto, biondo, dai capelli corti e dalla barba rasata. Quell’uomo che tutti, nel villaggio, chiamavano ‘ principe delle mosche ‘. 

 

 
 
 
 

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