FERMARE I SATRAPI

TERREMOTO E RICOSTRUZIONI IN IRPINIA IL RESTAURO E I PIANI DI RECUPERO DEI CENTRI STORICI MINORI.


Friuli1976: Il terremoto e i criteri della ricostruzioneIl 6 maggio 1976, una prima scossa di terremoto, alle ore 20:59’:17”, del sesto grado della scalaMercalli, investì il territorio a nord delle province di Udine e Pordenone. Dopo questa prima scossa,una seconda, alle ore 21:00’:24”, fu la più forte di uno sciame sismico che si protrasse fino alle ore00:10. Questa seconda scossa fu fatale: di intensità pari all’ 8°-9° della scala Mercalli, di carattereondulatorio e sussultorio, distrusse molti dei piccoli centri sparsi nelle tre province, per lo piùcostruiti su alture o sul dorso delle montagne, e di antica formazione. Gli studi per la localizzazionedell’epicentro sismico furono numerosi e diversi i loro risultati: tra Artegna e Gemona, nel gruppodel monte Chiampon, ancora tra Pradielis e Cesariis nel comune di Lusevera, o nella valle di Resia.Fu interessato un territorio di circa 137 comuni, con una popolazione di quasi 600.000 abitanti.Nella zona più prossima all’epicentro, quasi il 40% degli abitati crollò o fu, comunque,irrimediabilmente danneggiato. I morti furono 989, i feriti 3000 e quasi 100.000 i senza tetto321. Lascossa più forte venne avvertita, con un grado pari al 2°-3° della scala Mercalli, anche a Roma.Dopo la prima scossa si interruppero le comunicazioni e i paesi risultarono irraggiungibili: migliaiadi testimonianze del passato furono ridotte in briciole322. Una prima perimetrazione geografica fueffettuata direttamente dagli Enti Statali e risulta dal Decreto del Presidente del Consiglio deiMinistri (DPCM) del 18.05.1976, mentre una seconda, regionale, fu riportata nel Decreto delPresidente della Giunta Regionale (DPGR) del 20.05.1976. Entrambe registrano Gemona eVenzone come semidistrutte.Il Friuli – Venezia Giulia, regione a statuto speciale dell’Italia nord-orientale, è certamente ancheuna delle più composite. L’unione politica non avviene, infatti, che nel 1963, aggregando territori dicultura, storia e tradizioni diverse: latina, germanica e slava. Culture che, in pochi anni, riuscirono afondersi e a convivere. Lo sviluppo storico del territorio friulano era legato essenzialmente ai modidi una società e di un’economia prevalentemente agricola, cosa che si rispecchiava anche nellacomposizione urbanistica di una struttura abitativa “sparsa”, fatta di piccoli centri abitati, conlontane origine romane ma con sviluppo d’epoca medievale. Tali piccoli centri nacquero spessocome emanazione di centri più grandi di potere feudale. Anche per questo era forte il legame traperiferia e “città”.323 Negli anni settanta, l’economia friulana, attraversò una crisi tale da provocarel’abbandono dei piccoli paesi, favorendone il degrado economico e fisico, degrado che assieme allaposizione stessa dei centri agevolò la distruzione portata dalle violente scosse del 1976. Subito dopo lo sciame sismico, si interruppero tutti i servizi, acqua, energia elettrica, gas ecomunicazioni telefoniche, rendendo difficile il salvataggio di persone ancora intrappolate sotto lemacerie e della cura dei feriti, non potendo né comunicare né raggiungere materialmente i territoricolpiti.Ventidue ore dopo, si insediò il Commissario Straordinario di Governo, Zamberletti, i cui compitierano fissati dalla legge n.996 dell’ 8 dicembre 1970. La prima operazione fu dividere il territorioin nove comparti, i Centri Operativi di Settore, alfine di migliorarne il controllo. Gli sfollati furonoalloggiati in tendopoli allestite nei pressi dei centri colpiti, sia per non favorire l’emigrazione,fenomeno già in atto prima del 6 maggio, nelle zone montane e pedemontane, sia perché si speravadi mettere mano immediatamente alla riparazione degli edifici e contemporaneamente allacostruzione di alloggi prefabbricati. Fin nei primi giorni successivi al sisma, la Regione Friuli siadoperò alacremente per la ricerca e l’erogazione di fondi per la riparazione degli edifici e stanziò iprimi 10 miliardi di lire. Il 13 maggio 1976 fu emanato il decreto, il n.227, a favore del recupero deibeni culturali, poi convertito in legge il 29 maggio. Con tale decreto, a disposizione dellaSoprintendenza, furono stanziati i primi 3 miliardi di lire ed istituiti il “Centro di recupero dei beniculturali” e la “Segreteria operativa”, dipendenti dall’Assessorato dei Beni Culturali. Questi miseroa disposizione dei comuni consulenti tecnici per avviare il processo di recupero nel momento piùdelicato, quello delle demolizioni a tappeto, avvenute, come poi sarà per anche per l’Irpinia, subitodopo il sisma per il recupero di cadaveri e per la liberazione delle strade.La prima legge per la ricostruzione fu la n.17, del 7 giugno 1976, emanata ad un mese esatto dalterremoto. In prima scrittura la legge non forniva alcun suggerimento per il recupero dell’ediliziaesistente o dei centri storici in particolare. Era, più che altro, una legge di “emergenza”, destinata asopperire alle “straordinarie impellenti esigenze abitative delle popolazioni colpite dagli eventitellurici”. Già in quella sede però, il Centro di recupero dei beni culturali e la Segreteria avanzaronoproposte circa l’inserimento di un capitolo a favore di edifici non solo strettamente di valore“artistico”, ma più ampiamente “storico”324. Il tema del recupero del patrimonio storico costituitodai centri minori friulani caratterizzò da subito il dibattito post terremoto: l’intellighenzia friulana enazionale fu chiamata a dibattere approfonditamente sul tema. Fu in Friuli che si tenne, infatti, ilCongresso dell’ICOMOS325, fortemente voluto da Piero Gazzola nelle zone del terremoto. Lo stessoassessore regionale Alfeo Mizzau, durante il Convegno, tenutosi il 21 novembre del 1976 aCividale, ricorda come già da due anni fosse costituito un gruppo di lavoro per l’indagine sui centristorici e l’architettura rurale spontanea326. E’ evidente, quindi, come la riflessione, non solo sulrecupero dei beni culturali già considerati tali, ma sull’importanza dell’architettura minore e degliaggregati storici, anche in Friuli, avesse preso piede prima del terremoto e come, con il sisma, sifosse acuita la preoccupazione della perdita di queste importanti testimonianze. Era chiara ladifficoltà non solo di operare una netta distinzione tra ricostruzione e riparazione, come le leggiindicavano fino ad allora, senza prima considerare l’operazione inquadrata in un generale problemaurbanistico; né, in caso di ricostruzione, era più agevole la scelta tra ricostruzione in loco oppure inlocalità diversa. Certamente, le esperienze precedenti riportavano a scelte compiute sottol’immediato effetto del trauma della calamità che avevano portato come conseguenza piuttostoemotiva, l’abbandono delle vecchie strutture e la costruzione di un nuovo impianto in zone diversedalle precedenti327.L’idea che si faceva strada era quella di legare il recupero dei centri storici ad una politica disviluppo territoriale328, quindi non già, o solo, un problema di difesa e valorizzazione, o di restaurodel patrimonio storico, ma il recupero come opportunità di una pianificazione che avesse comescopo lo sviluppo sociale ed economico del territorio intero, in cui centro storico periferico e cittàcapoluogo fossero legati, dove i piani particolareggiati di recupero fossero inseriti in unapianificazione generale e contemporaneamente collegati gli uni agli altri. Piani di recupero in cui latrasformazione territoriale potesse dialogare con la conservazione in modo che il centro storico nonrischiasse di essere “congelato”, come si imputava ai progetti proposti da Italia Nostra329, provandoa mantenere ciò che rende vivo il centro storico, ossia quella caratteristica di insieme di abitazione eservizi, mescolati in modo equilibrato tra loro.Siamo nel periodo dell’aperto dibattito sul tema e l’approccio al recupero dei centri friulani mette indiscussione le Carte del 1964 e del 1972, perché, come dopo la seconda guerra mondiale anchedopo il disastro di un terremoto, i principi riguardanti l’attenzione all’autenticità della materia di fronte alla perdita di interi centri urbani di importanza storico-culturale, pur non vacillando,appaiono insufficienti; il ricordo va, quindi, al monito di Giovannoni del ’45, che sottolineavacome, pur avendo risolto il problema dell’”aggiunta” attraverso la teoria delle forme e dellestrutture semplici, dopo una distruzione bellica, o catastrofe naturale, non si potessero condannare lecittà italiane ad una nudità costruttiva desolante. Il tema, nello specifico, era il tipo di metodo dautilizzare nella “ricostruzione” sia del patrimonio storico-artistico che del patrimonio di architetturaminore costituito dai centri storici. In questo dibattito si inserisce anche il convegno ristrettodell’ICOMOS, del dicembre del 1976, al quale parteciparono Roberto Pane, Piero Gazzolapromotore), De Angelis d’Ossat, e nel quale, però, rimasero generiche le posizioni rispetto aspecifiche modalità di intervento nel recupero dei centri storici330, peraltro ancora considerati nellediciture di “prospettiva, scorci”. Nonostante gli interessanti interventi di Gaetano Miarelli Mariani,Gianfranco Caniggia e Roberto Pane che, tenendo presenti gli esempi negativi di quanto realizzatoin Italia nel dopoguerra, esortarono a tenere in conto, a studiare ed approfondire il dato ambientale,dell’insieme urbanistico, dell’edilizia minore e del territorio in cui si inserisce, al fine di nonincorrere nel mero «salvataggio di qualche residuo monumentale e (nel) l’aggiunta di nuovi tracciatie agglomerati, del tutto indifferenti alla stratificazione locale; (realizzando) così una ennesimatestimonianza della impossibilità di conciliare il biotopo urbano con la concezionemeccanicistica»331, ci si limitò, infine, a far voto che «nella ricostruzione ci si attenga al rispetto deitracciati viarii e delle volumetrie e tipologie, in quanto costituiscono non solo testimonianze distoria, ma anche espressioni di una cultura friulana tuttora viva» e che «gli interventi restauratori,infine, corrispondano rigorosamente ai principi fondamentali della Carta di Venezia (1964),accogliendo tutti i contributi della moderna tecnica, idonei a garantire, tra l’altro, la sicurezza dairischi del sisma»332, ma non vi fu un riferimento preciso alla prassi dell’intervento, al contrario,anche, di ciò che fu espressamente chiesto dallo stesso Francesco Doglioni al termine del suointervento al Congresso333.