Saul Ferrara è nato a Reggio Calabria nel 1971. Dal 1991 collabora con varie testate giornalistiche e riviste specializzate come recensore di libri.
Attualmente è Direttore Editoriale del bimestrale “Helios Magazine” (www.heliosmag.it)
Ha pubblicato cinque raccolte di poesie “Haiku” (Edizioni Club Ausonia, 1996)
“D’incompiute emozioni” ( Edizioni Libroitaliano, 1998)
“Austere Nudità” ( Edizioni Nuove Grafiche Anselmi, 2000)
“Karezze” raccolta di haiku e tanka (Edizioni ProgettoCultura, 2011)
“Guerre Fiorite e poesie scelte” (Edizioni Centro Studi Tindari-Patti, 2012)
e tre raccolte di racconti
“Le istantanee di un minimalista” (Edizioni Montedit, 1999)
“Sul morbido guanciale della follia” (Edizioni Menna, 2003)
“L’ultima influenza e altri malanni – racconti semiseri” ( Edizioni Digitali Babylon cafè, 2013)
e la raccolta di articoli Incursioni – opinioni di un lettore accanito- ( Edizioni Simple, 2009)
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INCURSIONI
Opinioni di un lettore accanito
Al mio amatissimo nipote Francesco, con la speranza di riuscire a trasmettergli la passione per i libri.
Prefazione
In questa nostra epoca dove l’immagine priva di contenuto dilaga e chiunque può acquistare al mercatino delle pulci televisivo il titolo di “opinionista” o “ tuttologo”, dove cantanti ignoranti vestono i panni del predicatore all’alba di chissà quale apocalisse e l’ultimo idiota protagonista di un reality show riceve una retribuzione che nessun poeta al mondo ha mai immaginato di ricevere, per chi come me, dedica la propria vita alla letteratura, vivere in questa epoca a volte è davvero avvilente. Scrivo da più di quindici anni e se costretto ho sempre usato definirmi un semplice “recensore”, riconoscendo di non meritare altro titolo e lasciando che siano gli altri ad attribuirsi quello altisonante, ed ormai inflazionato, di “critico letterario”. Per questo ho deciso di intitolare questa raccolta di recensioni “Incursioni”, considerandole delle rapide e brevi invasioni di un lettore nel campo della scrittura. La prima volta che ne ho varcato i confini pubblicando un appassionato articolo su Mishima provai una sensazione indescrivibile che ancora oggi, a distanza di molto tempo, continuo a rivivere tutte le volte che pubblicano un mio scritto. Un sentito ringraziamento va a voi che vi accingete a leggere questa rassegna ed a tutti quelli che hanno letto le mie altre produzioni d’inchiostro, perché è merito vostro se io posso “scavalcare” il recinto e per qualche minuto smettere di essere solo un accanito lettore.
“La verità della fede e la fede nella verità” (articolo pubblicato sul bimestrale Helios Magazine n° 6/06)
Non si sono ancora placate le polemiche scatenata dal romanzo “Il Codice Da Vinci” che la pubblicazione di un altro libro viene a turbare nuovamente l’autorità della Chiesa e le coscienze dei cattolici. Se con il best seller di Dan Brown era stato sufficiente affermare che si trattava solo di un prodotto di fantasia privo di basi storiche per “bollarlo” come una “trovata pubblicitaria”, con il libro “Inchiesta su Gesù” di Corrado Augias non può essere ripetuta la stessa “tattica” e sperare di ottenere il medesimo risultato. L’impossibilità di una semplicistica e sommaria critica del libro in questione è determinata dal fatto che il giornalista Augias non si limita ad esprimere le proprie opinioni e perplessità sulla figura storica di Gesù, ma utilizza le stesse come base da cui far partire una serie di domande rivolte ad uno dei massimi conoscitori del cristianesimo, lo storico e biblista Mauro Pesce. Il libro è pertanto fondamentalmente un esauriente saggio storico, anche se in forma di intervista, sull’uomo chiamato Gesù e come tale va considerato. Teologi e intellettuali di formazione cattolica hanno comunque alzato un coro di proteste perchè secondo loro indagare sulla vita di Gesù, come se fosse un qualsiasi personaggio storico, significa offendere la fede di chi crede nel “figlio di Dio”, dimenticando che generazioni di teologi hanno trovato nell’esistenza storicamente accertata di Gesù un’arma contro gli attacchi di un certo ateismo qualunquista. Dopo venti secoli la Chiesa non vuole cambiare atteggiamento e, sempre più lontana dalle masse di credenti e non credenti, cerca di imporre la sua visione di una “Verità” unica e incontestabile, la verità della fede. Verità che paradossalmente non può essere né provata né negata in quanto “intima certezza”, ma proprio in nome di questa “Verità”, secondo la Chiesa, si dovrebbe fermare la ricerca della verità storica. Lo scontro è tra i più antichi: credere senza conoscere (la verità della fede) o conoscere per credere (la fede nella verità). Scontro che nasce per un principio errato: l’unicità della verità. Quando Pilato chiese a Gesù “Cos’è la verità?”, come risposta ottenne un lungo silenzio, silenzio che io non interpreto come l’impossibilità di comunicare cosa sia la verità ma come l’affermazione che è il silenzio stesso la risposta, perché in quella pausa convivevano tutte le più diverse e possibili risposte. Per sintetizzare al massimo l’analisi sviluppata nel libro “Inchiesta su Gesù”, riporto una piccolissima ma significativa parte della postfazione di Mauro Pesce: “Gesù era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. Non era un cristiano.” Il Gesù storico che ci viene presentato da Mauro Pesce è molto distante dal Gesù della fede o per meglio dire da quello riconosciuto dalle chiese cristiane, ma dalla sua analisi ad essere messa in discussione è la “fede” o l’origine storica del cristianesimo? Sono molte le riflessioni che nascono dalla lettura di questo libro: nella nostra società , ad esempio, ormai divenuta multietnica, quanti tra quelli che si definiscono cristiani conoscono il vero significato delle festività religiose che con tanto ardore sono disposti a difendere dall’ipotetica “invasione culturale” islamica? Forse tra la verità della fede e quella della conoscenza c’è un’altra verità, quella dell’intuizione. Un poeta “pensante” scrisse “quando gli dei erano più umani gli uomini erano più divini” : pertanto nel ricercare i lati umani di Gesù non si commette nulla di offensivo nei confronti della fede, anzi è proprio riconoscendo a Gesù delle debolezze umane che si può attribuire al suo sacrificio un valore eccezionale. Personalmente al Gesù figlio di Dio ho sempre preferito il Gesù figlio dell’Uomo e se il compito della religione è quello di mettere in “relazione” gli uomini con Dio, essa non può ignorare che nell’animo umano abitano sia l’esigenza di credere che l’ansia di conoscere.
“Il caso Welby: quando vivere diventa una violenza” (pubblicato sul bimestrale Helios Magazine n° 1/07)
Il venti dicembre scorso, alle 23 e 40 è morto Piergiorgio Welby, dopo che un anestesista, accogliendo la sua richiesta di “morte opportuna” gli ha somministrato un sedativo e ha staccato la spina del respiratore polmonare che da dieci anni gli permetteva di respirare. La notizia della sua morte, nonostante fosse da tempo una morte annunciata, ha avuto un forte impatto empatico, suscitando reazioni contrastanti. Welby, incapace perfino di compiere da solo la cosa più banale come respirare, con lucida determinazione ha deciso di lasciarsi morire, scavalcando così le leggi dell’uomo e di Dio. Per molti è uno scandalo, come se un uomo per la seconda volta nella storia avesse contravvenuto ad un divieto divino cogliendo il frutto proibito: quello del bene (la vita) e del male (la morte). La vita è un valore che si deve difendere a tutti costi e su questo siamo tutti d’accordo, ma qual’è il confine che separa il miracolo della vita dalla dannazione di viverla? Papa Ratzinger ha condannato la scelta di Welby in nome del sacro valore della vita che va rispettato fino al suo “tramonto naturale”, giustificando così la vergognosa decisione vaticana di non concedergli i funerali religiosi. Ma a questo punto c’è da chiedersi se il vivere alimentati artificialmente, perennemente attaccati ad un respiratore, rappresenti la “normale” prosecuzione della vita. Se fossimo degli antichi orientali la parola morte non ci farebbe tanto orrore, perché per loro questo termine non rappresentava l’opposto di vita ma bensì di nascita, ma in quanto occidentali siamo condizionati da quel masochistico culto del dolore che pone come “male sommo” la morte, riconoscendo ad ogni altra forma di sofferenza un alto valore morale. Piergiorgio Welby pochi mesi prima del decesso ha dato alla stampa “Lasciatemi Morire” (Ed. Rizzoli), un piccolo libro, conta poco più che un centinaio di pagine, dove la poesia e l’ironia si fondono con la profonda amarezza che si prova nel non essere ascoltati. Il libro si apre con la lettera che Welby ha inviato al presidente della Repubblica, seguita da alcuni articoli di Calibano, pseudonimo col quale firmava i suoi editoriali, alternati da liriche toccanti e geniali, chiudendosi poi, con l’appendice, che riporta i programmi di quelle che sono state le sue battaglie: un progetto di legge che riconosca il diritto all’eutanasia e l’approvazione del testamento biologico. Negli scritti di Welby non troviamo un nichilistico rifiuto della vita né tanto meno l’esaltazione di una cultura della morte, ma la disincantata descrizione della differenza che corre tra il vivere e il non-vivere. Chi sostiene “passivamente” la “cultura” della sacralità della vita non può accettare che si parli di eutanasia, discussione facile da evitare quando si è soltanto dei fortunati “spettatori” del dolore. Per loro qualunque condizione di vita e da preferirsi al morire, e per tanto l’eutanasia è il “male” da sconfiggere, e per contrastarlo impediscono che se ne discuta seriamente nelle sedi opportune. Ma se l’eutanasia non è la soluzione alla malattia l’accanimento terapeutico non è altro che “volontà d’impotenza”, perché dinanzi all’impossibilità di guarire un paziente, piuttosto che ridurgli la sofferenza, si preferisce ritardarne la morte a tutti costi, spingendosi oltre il rispetto della dignità umana e trasformando la “cura” in “violenza”, riducendo cosi la vita ad un essere costretti a vivere. Se il secco e indiscutibile no all’eutanasia pronunciato dai “cattolici” non sorprende, a destare sospetto e delusione è invece il silenzio di quei politici che in campagna elettorale si sono presentati come sostenitori del pensiero laico. Welby con acuta ironia ha criticato l’assenza nel nostro paese di una libera dialettica su temi come l’eutanasia scrivendo: “Com’è difficile vivere e morire in un Paese dove il Governo fa i miracoli e la Conferenza episcopale “fa” le leggi.” ( da Lasciatemi Morire pag. 97). L’eutanasia è sicuramente un argomento complesso che va affrontato con molta attenzione ma proprio per questo, anche alla luce dei numerosi casi di “dolce morte” clandestini, una discussione che abbia come finalità la promulgazione di una legge che la regolamenti non può essere più rimandata. Dinanzi alla sofferenza inutile le risposte non possono essere solo la santificazione del dolore o l’eroica rassegnazione, all’uomo va concessa anche la possibilità di morire cosi come ha vissuto: da uomo.
“Gandhi la forza, le idee e la forza delle idee” (Articolo pubblicato sul bimestrale Helios Magazine 1/08)
Mi sembra di vederlo, in quel funesto 30 gennaio del 1948, quando affrontava il suo peggior nemico per l’ultima volta, con la stessa serenità che lo aveva reso celebre nel mondo, rarissimo esempio di tolleranza in quell’oscuro scorcio di secolo nel quale venivano perpetrate le più atroci crudeltà nel nome della razza . Gandhi era minuto e fragile all’apparenza ma dal suo aspetto di debole “vecchietto” si irradiava una forza straordinaria, la forza che possiede soltanto chi ha la consapevolezza di avere una missione da compiere nella vita. Naturalmente non trovo alcuna difficoltà ad immaginare il suo abbigliamento, il solito, reso celebre dalle tante foto che lo ritraggono assieme ai grandi della storia : miseri sandali di legno ai piedi ed una sorta di tunica bianca che, aperta sul petto, lascia vedere le ossa di un corpo provato dai molti digiuni. E sicuramente non è scomparsa la gentilezza dai suoi occhi vivaci quando questi hanno incontrato quelli del suo assassino. Gandhi rimarrà, tra tutte le figure storiche contemporanee, quella dotata di maggiore carisma, un’icona del misticismo attivo, un guerriero della non violenza che ha combattuto per le sue idee, armandosi soltanto di esse. Quando i leaders delle potenti nazioni industrializzate davano prova di forza con i propri arsenali militari, Gandhi, seduto a terra con le gambe incrociate nel suo umile ashram, elaborava quelle strategie politiche che avrebbero portato, dopo tre secoli di tirannia inglese, all’indipendenza dell’India. Ideatore della disubbidienza civile, aveva insegnato ai suoi numerosissimi seguaci a non reagire alle aggressioni che subivano durante le dimostrazioni, e loro, come unico gesto di difesa, a volte si limitavano a coprirsi con le braccia la testa ed il volto,per difendersi dalle manganellate. Oggi purtroppo i moderni disubbidienti danno spettacoli tutt’altro che pacifici e civili, brandendo spranghe e lanciando estintori, a dimostrazione che la violenza, sterile manifestazione di forza, rimane il linguaggio dominante in un’epoca popolata da movimenti animati solo da anti-idee. Un episodio particolarmente significativo nella sua vita e che ci ha riguardato più da vicino è stata la visita che egli effettuò in Italia nel 1931. Gandhi, che predicava la povertà, praticandola severamente come un moderno San Francesco e naturalmente distante anni luce dal culto superomistico della forza, fu ricevuto dal Duce, mentre papa Pio XI, rappresentante spirituale, rifiutò d’incontrarlo: la storia, si sa bene, non è povera di questi curiosi paradossi, ma stranamente quella della Chiesa ne è sorprendentemente ricca. Il 15 agosto del 1947, il giorno dell’indipendenza dell’India, il giorno per il quale Gandhi aveva tanto lottato e sperato, sarà forse il peggiore della sua vita; infatti, deluso, non partecipò ai festeggiamenti, nonostante che da tutti venisse acclamato come Bapu (padre) della patria. Sembra che il mondo neghi ai suoi migliori “figli” la soddisfazione della vittoria, come se questi, più degli altri, debbano alla fine venire schiacciati dal giogo del destino. L’Inghilterra, distrutta dalla seconda guerra mondiale, non ha più né la forza né l’interesse per mantenere il proprio dominio in India e quindi dà corso alle trattative per l’indipendenza, trattative che si concluderanno con la divisione dell’India e con i conseguenti esodi e deportazioni di massa. Il suo sogno di un’ India libera si trasformerà in un incubo: Gandhi, che per tanti anni aveva combattuto per la libertà contro il nemico inglese con la non-violenza, deve assistere ora ai sanguinosi scontri fratricidi tra musulmani e induisti. Egli in tutta la sua esistenza non separerà mai il suo essere uomo religioso dall’impegno politico, fondendo questi due aspetti della sua grande personalità nella satyagraha (forza dello spirito), che rappresenterà sia il suo stile di vita che il metodo politico per giungere allo swaraj (completa indipendenza). Con il satyagraha, Gandhi ha piegato più volte alla sua volontà il potente impero inglese. Sono celebri i suoi digiuni e le sue azioni astute e coraggiose, come la “ marcia del sale”, nella quale percorse a piedi duecento miglia per estrarlo abusivamente dal mare, per protesta contro il monopolio che gli inglesi ne esercitavano sulla produzione . O i vari boicottaggi di prodotti inglesi, come ad esempio le stoffe, messo in pratica incoraggiando i suoi seguaci a prodursi da soli i propri abiti: lo stesso Gandhi si imponeva di filare duecento iarde di cotone al giorno utilizzando un antiquato arcolaio a mano. Il 30 gennaio del 1948, mentre si recava ad un incontro di preghiera, un fanatico bramino, quindi anche egli un indiano induista, gli sparava uccidendolo. Cosi moriva il “santo” della non violenza, a triste dimostrazione che l’impero dell’odio resta un nemico impossibile da sconfiggere.
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