Parole...

sailing


... sailing … “ … Hey tu! … ! " Secco, perentorio, subdolo il richiamo risuonò, quasi telepatico nella mente. Mi guardai intorno cercando di capire chi mi avesse apostrofato in quel modo tanto sgarbato quanto deciso. Il bar era in penombra, seduto nell’angolo più isolato mi agitai sulla poltroncina di pelle mentre un bruciore acuto risaliva lungo il petto; guardai il quarto, forse quinto, short di Irish wiskey un po’ stralunato e con la bocca impastata. Era stata una giornata stanca; solita di problemi e di traversie quotidiane che, normali in periodi normali, erano diventate angoscianti e dure da risolvere dati i tempi neri di una crisi infinita. Nessuno badava a me; pensai di aver sognato; “ … forse ho bevuto troppo … “ mi dissi e, mentre quel bruciore si faceva più intenso, “ … vado a casa …” conclusi tra me e me. Lasciai un biglietto da venti sotto il bicchiere ed uscii nel pomeriggio inoltrato da sera imminente. La strada correva parallela alla ferrovia e le frecce alla mia destra si incrociavano a ripetizione portando a spasso vite diverse a diverse destinazioni e scopi impegnate. Alla mia sinistra il mare lontano, oltre la macchia boscosa lanciava riflessi del sole al tramonto con giochi di rossi infuocati a rendere quasi giallo un azzurro di cielo atteso al blu della notte a seguire. “ … hey tu! …” eccolo di nuovo; telepatico e prepotente il richiamo staccò il legame dei miei pensieri rendendoli sparsi ed inconcludenti mentre la macchina scartava, quasi di vita autonoma verso l’altra corsia, verso l’auto che veniva in senso opposto. Forte il bruciore in petto per un attimo mi tolse il respiro; con un colpo di sterzo, ancor più verso sinistra, evitando l’impatto con il veicolo in senso contrario virai bruscamente verso gli alberi a corrermi incontro. Un nero improvviso si accomunò al bruciore, ora lancinante, in mezzo al petto, alla base della gola e sino alle tempie a martellarmi forte senza tregua. “ Gran figlio di puttana “ gridai verso quel pazzo che per tanto così non mi aveva mandato fuori strada. “ Per la miseria “ ripetevo tra me “ mi sembra di esser passato attraverso l’albero ”; tremando di tensione, scesi dalla macchina appena dopo l’albero; le dune in lontananza una cinquantina di metri mi separavano dalla spiaggia e da quell’eco di marosi che me la suggerivano vicina. In viaggio da un paio d’ore, ero diretto … da nessuna parte; volevo soltanto allontanarmi dai miei pensieri e dal mio quotidiano e come faccio di quando sono un po’ così, mi ero diretto verso il mare: ho una predilezione per il mare, quella gran massa d’acqua, sempre viva, sempre in movimento mi dà la sensazione di essere alla presenza di un essere superiore e, anche per me, che sono nato praticamente a mare, ogni volta, il mare riesce ad essere un ‘esperia nuova e trascendente. Il mare ... Il sole all’orizzonte cominciava a percorrere il suo ultimo quarto: ad est il blu crescente di sua sorella la sera lo seguiva indifferente all’esplosione di rossi ed arancioni che al contrario incendiavano l’ovest. Mi arrampicavo, le scarpe piene di rena, su quelle dune sabbiose stando un po’ in piedi, un po’ carponi quando non proprio a quattro zampe, qualche striscia di un azzurro rosa quasi lilla si allungava dalla linea di confine tra mare e cielo fin sulla mia testa e questo, fonte di distrazione, bastava ogni tanto a farmi scivolare. Ero quasi in cima alla duna quando l’ennesimo scarto di sabbia mi tirò giù disteso a faccia sulla sabbia; sacramentando ogni parola del vocabolario ne rialzai il viso, sputacchiando granelli a destra ed a manca, prono com’ero poi, a forza di braccia, mi spinsi oltre la sommità, in fondo contento di sentirmi inzaccherato, ma libero mentre il vento profumato dallo iodio scivolava via sugli ultimi granelli dal mio viso. Lei era lì, qualche metro alla mia sinistra ed alla base della duna, coperta nient’altro che da un ridottissimo tanga e dalla sua pelle, se ne stava poggiata stancamente su di un gomito, osservando i tentativi del sole a resistere al proprio quotidiano destino. Scura d’abbronzatura, proiettava dietro le spalle un’ombra via via più lunga, mentre il suo esporsi al sole ne dava, illuminato come sotto uno spot, tutto il personale: gambe robuste ed affusolate, ben stese davanti a sé, terminavano ad innestarsi in un bacino con ogni particolare al posto giusto; dal tanga spuntava un serico ciuffetto che. al riverbero del sole, sembrava di un rosso acceso così come i capelli abbandonati sulle sue spalle; la linea alba dall’addome saliva fino a congiunger i due seni i cui capezzoli, tesi e puntuti verso l’orizzonte quasi a sfidare l’astro calante a tornare sui propri passi, si proiettavano sfacciatamente in mostra di sé. La riguardai e la squadrai lentamente, ritornando di continuo verso il suo ventre, non riuscivo a distogliere gli occhi da quel batuffolo rossastro … “ Ehi, oggi il mare mi ha fatto un regalo … “ pensai premendo il corpo sulla sabbia della duna. Eppure non era immagine erotica quella che si evocava nella mia mente; piuttosto quella ragazza sembrava una sirena sperduta in un mondo che non era di questo mondo: continuava a fissare l’orizzonte come se da questo, da un momento all’altro dovesse aprirsi il varco per ritornarvi; alle sue spalle, l’ombra, ormai lunghissima, mi diceva che il sole doveva esser sceso per salire in qualche altra parte del mondo, ma lei non si era mossa di un solo millimetro: statua di sale in attesa di sciogliersi, dimostrava di esser viva solo per l’ondeggiare dei suoi capelli alla leggera brezza marina a rinforzare man mano saliva la marea. Mi scossi dalla fissità contagiosa della ragazza e scivolando all’indietro cercai di mettermi in piedi per proseguire verso di lei con un fare un po’ più dignitoso e, sperai, disinvolto e fascinoso; superai, così, la duna ed in pochi passi e disinvoltamente scesi verso di lei. Il profumo della macchia mediterranea mixava lauro e ginepro, aghi di pino marino e sotto bosco fungino; la salsedine quasi si percepiva come solletico sulla pelle mentre il cielo scuriva lentamente alle spalle delle cime frondose a ricordare il passaggio di un vento stizzoso. Lontani, alti nel cielo, gabbiani vagabondi, lanciavano stridii improvvisi acuti ed ammalianti quasi sirene di Ulisse; mi sembrò volessero guidarmi al suo cospetto. “ E’ da molto che mi osservi ? “ mi disse lasciandomi attonito quando non fui distante che pochi centimetri “ ti ho notato sai …, è per questo che ti chiamavo … “. “ Io … veramente … “. Balbettai non sapendo cosa o come risponderle; mi lasciai cadere al suo fianco ed assieme continuammo a fissare il mare per qualche minuto, poi, come se fossimo amanti là ritrovatisi per un convegno di passione mi prese la mano e, girandosi verso me : “ non temere “ disse stringendomi le dita “ il più ormai è fatto …, oramai sei con me! “ . Un brivido di eccitazione e di piacere risalì lungo la mia schiena soffermandosi a dare ordini precisi nei vari distretti interessati, ma il suo tocco dapprima caldo e quasi lascivo, d’un tratto fu deciso e prepotente, assoluto e definitivo. Il viso, prima statuario ed immobile, parve fremere e vibrare di vita autonoma fino a sciogliersi dolcemente in uno sguardo rassicurante; eppure, qualcosa mi diceva di liberare la mia mano da quella stretta che diventava di secondo in secondo più forte, ma non riuscivo!; ed anzi più tentavo di liberarmi e più la sua stretta diveniva ferma; più strattonavo e più un macigno immaginario aumentava il proprio peso sul mio petto; più cercavo di allontanarmi e più sentivo mancarmi il respiro. Ancora una volta mi guardò; sorrideva con occhi profondi e carichi di intese non dette; era un sorriso così dolce e suadente che calmò improvvisamente la mia ansia respiratoria: oramai buio, il mare era diventato cosa fusa con il cielo e solo lo sciabordio dell’acqua sulla riva e la candida schiuma che ogni tanto ribolliva, mi dava il senso pieno della vita in divenire; tutto, al di fuori di quei pochi centimetri quadrati, era ovattato attorno a noi: mi sembrò non ci fossero più rumori: non c’erano luci, non c’era nulla che potessi toccare, soltanto quella mano stretta attorno alla mia e quel leggero profumo di biancospino in fiore che mi suonava però strano su di una spiaggia ed a pochi metri dal mare. … Il mare!? … Per quanto mi sforzassi di guardare, il mare non c’era più e non c’era più nemmeno la spiaggia, era come se fossimo seduti su … su niente; il nulla assoluto tutt’intorno con una luce soffusa che, da dove era tramontato il sole, sembrava sorgere verso di noi: quasi che il sole stesso, appena tramontato , avesse davvero deciso di fare ritorno. Troppo in wiskey bevuto; troppa la tensione accumulata; troppo lo stress di una vita sempre più angustiante ed indaffarata. “ Chi sei ? “ le chiesi tra il curioso ed un vago, quasi impercettibile timore “ … perché sei qui ? “. I suoi occhi di un azzurro così trasparente che ci si poteva affogare dentro guardavano in me, attraverso me, oltre me. Taceva; sembrava non volesse anticipare qualcosa di ineluttabilmente deciso, sembrava volesse godersi e che godessi di quegli istanti quasi fossero gli ultimi a mia disposizione; sembrava temesse la mia reazione ad una risposta inattesa, sgradita. Ritornò a vedermi nel guardarmi e: “So che vorresti, so che ti piacerebbe … , ma non voglio fare l’amore con te. “ sentenziò aggiustandosi il costume a coprire. Poi, “ Andiamo! … “ proseguì come responso definitivo ad ogni mia ulteriore curiosità “ … vieni, è l’ora !” Ci avviammo verso il bagnasciuga improvvisamente e di nuovo al suo posto. Il profumo del mare era adesso forte ed intenso; la salvia ed il ginepro e quello di uno strano biancospino erano quasi tangibili tanto erano intesi e carichi di un oblio crescente delle cose passate e future e, mentre ci inoltravamo, mano nella mano, in quel mare nero come la pece, mentre l’acqua ormai mi lambiva il mento, oltrepassava gli occhi e copriva i capelli una voce alle mie spalle, la stessa del richiamo, rassegnata sentenziò: “ … ora del decesso …, ma perché mai … berranno così tanto? … “. Capii d’un tratto perché non mi sembrasse strano camminare con lei sul fondo del mare ... . fb