Gjitonia: luogo fisico e sociale nella comunità arbëreshe.(di Francesco Marchianò) “Kush ë pa shpi, ë pa gjitoni” (“Chi è senza casa, non ha vicinato”) recita un breve ma significativo proverbio arbëresh che vuole sottolineare l’importanza di possedere un luogo fisico dove ritrovarsi per svolgere le funzioni quotidiane domestiche (shpia = la casa) e, soprattutto, dove operare le funzioni di scambio sociale (gjitonia=il vicinato).Attenendomi alla gjitonia come luogo fisico, con riferimento alla comunità di S. Cosmo Albanese-Strighàri, riporto qui di seguito due interessanti osservazioni avanzate molti anni fa (1988) dall’architetto Piera Oranges: «L’elemento minimo del tessuto urbanistico è la “gjitonia”, spazio che viene compreso tra tre o quattro case abitate da famiglie tra le quali si instaurano rapporti e vincoli di grande interesse antropologico[…]». Con questa affermazione la Oranges vuole significare i primordi della gjitonia quando gli albanesi, vivendo in miserrime condizioni economiche, non esitavano ad aiutarsi l’un l’altro. Ma con l’evoluzione socio-economica dei paesi arbëreshë, fine sec. XVII ed inizi del XVIII, la gjitonìa si trasforma in un nucleo produttivo precapitalistico: « […] Nel momento in cui gli albanesi si organizzarono all’interno del territorio loro assegnato e cominciarono ad usufruire del territorio da loro coltivato, ecco che emergono uomini che sicuramente si sono messi a capo dei vari gruppi di profughi (rappresentati da coloro che provenivano da un rango sociale più elevato).Costoro e per intelligenza e per dominio e per astuzia diventano ben presto i benestanti ed i proprietari di quasi tutte le terre.Di questo fenomeno l’insediamento di S. Cosmo Albanese è la più chiara dimostrazione; esso è denunciato con estrema chiarezza, a livello urbanistico ed architettonico. Nella seconda fase di sviluppo dell’insediamento, evidenziato dallo studio metodologico sul lungocrinale (attualmente Via A. Gramsci) si determina un tessuto seriale formato da un lato da una serie di palazzotti signorili e dall’altro da edilizia di base con duplice funzione (in particolare serviva da abitazione per coloro che erano al diretto servizio del signorotto, e in parte a deposito e lavorazione dei prodotti della terra).Urbanisticamente, ecco, che risalta lo stesso fenomeno verificatosi all’interno del primo nucleo: la “gjitonia”, questo spazio compreso tra tre o quatto case ora appartiene ad un solo proprietario.Quindi una gjitonia caratterizzata non più da motivazioni solidaristiche, ma da interessi economici, sotto il controllo del proprietario.»Lasciando da parte le fredde considerazioni tecniche accetto la prima definizione e mi piace entrare nel merito della gjitonìa come elemento sociale costitutivo del paese katundi. Consultando un vocabolario risulta che il lemma gjitonia derivi dalla lingua greca che, come l’albanese, pur essendo indoeuropea non appartiene a nessun ceppo linguistico. Nella lingua greca gjitonìa < ή γειτονία cioè “vicinato” e ό γειτων “il vicino”. Ma il greco non riesce a spiegare questo etimo!E se noi, invece, facessimo provenire gjitonìa dall’albanese? Se lo facessimo provenire da “gjithë ton” cioè “tutto nostro”? Sarà forse una forzatura ma spiega un concetto fondamentale insito nella gjitonìa che è appunto la comunanza, la condivisione.Mettendo da parte queste criticabilissime considerazioni linguistiche, la gjitonìa per la mia generazione, che è cresciuta agli inizi del boom economico italiano rimane uno dei momenti formativi dell’esistenza. La generazione vissuta nei paesi arbëreshë tra il 1950 –’70, ha visto gli ultimi bagliori di un mondo agro-pastorale che si avviava ad una lenta ed inesorabile trasformazione economica e sociale.Vivere nel ricordo significa che non si vive bene nel presente, purtroppo questa falsa modernità spinta all’eccesso sta cancellando le differenze culturali, linguistiche e sociali omologando tutto e tutti cancellando secoli di storia e di civiltà di antiche comunità e di singoli individui.Ritornando alla gjitonìa essa era il luogo fisico della condivisione, era tenere la porta di casa aperta perché nessuno estraneo vi entrava perché controllato dai vicini, era scambiarsi il lievito naturale per fare il pane, insomma offrirsi piccoli beni senza chiedere nulla in cambio, la gjitonìa era tutto.I ricordi personali sul mio vicinato sono vari, alcuni ricordano momenti belli ed altri brutti, ma che vedevano sempre la presenza dei vicini. Qui di seguito offro dei flashs.Momento bello era d’inverno quando si ammazzava il maiale. Più che un’uccisione, purtroppo violenta di un animale domestico, era un rito cui partecipavano i membri della famiglia e le persone più intime del vicinato. Dopo aver inviato un assaggio di pietanza a tutto il vicinato, la sera a casa si faceva una grande tavolata per la gioia di tutti gli invitati che mangiavano le carni del maiale cucinate in vari e gustosi modi.E quando si avvicinava la festa di S. Giuseppe alla cui vigilia si accendeva il falò, circa un mese prima tutti i bambini, i giovani e donne della gjitonìa si recavano negli uliveti a raccogliere le frasche della potatura per ammassarle nello spiazzo della gjitonìa di appartenenza. Poi durante il falò si andava a vedere qual’era quello più grande (“Simbjet fanoin më i madhë e i bukur e bën te gjitonia e Sqinit!”).Poi Pasqua con i dolci cotti nel forno del vicinato, la preparazione dell’altare per il Corpus Domini e cercarlo di farlo più bello degli altri. Mi ricordo. Inoltre, che alla vigilia della festa di S. Giovanni mia madre andava a raccogliere nei campi germogli ancora acerbi di cardo che abbrustoliva ed offriva alle ragazze del vicinato. Dalla loro fioritura, dopo questo trattamento, si traeva l’auspicio se quelle giovinette si sposassero o no.E quando poi chiuse le scuole a frotte ci si costituiva in bande per fare la guerra con i bambini degli altri vicinati o si organizzavano vari giochi negli spiazzi davanti alle case o nella vicina campagna.A settembre, dopo la raccolta ed immagazzinamento del frumento, le donne si sedevano davanti ad una spianatoia (qastìeri) per pulire il grano dai semi di erbe infestanti e si ingannava il tempo e la noia dell’operazione facendo raccontare alle donne più anziane fatti avvenuti nel passato o favole.Poi arrivava ottobre, la preparazione ed il lavaggio delle botti preludevano la vendemmia che veniva pure anticipata dall’invio ai vicini di un paniere pieno di uve pregiate e quando il mosto era maturo nelle botti non mancava anche di inviare ai vicini la bottiglia di vino novello.La gjitonìa era stare di sera davanti alla porta di casa per sfuggire alla calura dell’interno, tanto allora non passavano auto, e parlare di tanti fatti del passato o permettersi qualche pettegolezzo se passava qualcuno/a che aveva commesso qualche atto del tipoo: “Ndrì, e sheh ktë ç’shkoi nani? Dhëndrri e ngapoi me njeter e nani e lëreu!” oppure muovere critiche sull’abbiligamento o sul modo di incedere: ” Ku vate i gjet kta tirqë ki ktu?” o “Kjo ecën sikur ësht’e çanë ve!” .Altro momento forte erano le nozze di qualche ragazza: tutte le vicine accorrevano ad aiutarla nella vestizione, a distribuire dolci e confetti, ad esporre la coperta più bella del corredo come lo si fa ancora oggi nelle processioni dei santi. E così via tanti e tanti momenti….Poi non mancavano, purtroppo, anche quelli brutti come, per es., la scomparsa di qualcuno. Già durante l’agonia i vicini si alternavano a vegliare il moribondo ed aiutavano i parenti in alcune incombenze. A decesso avvenuto c’era sempre la donna più esperta del vicinato che aiutava a vestire il defunto, a far rispettare i riti, ad avvisare il sacerdote. La presenza alla veglia funebre era di obbligo e poi, a fine esequie, a turno e per più giorni i vicini preparavano da mangiare alla famiglia colpita dal lutto.Concludendo la gjitonìa era un piccolo mondo, con aspetti negativi e positivi, era un’atmosfera particolare, irripetibile e magica. Io penso che la gjitonìa, come entità umana, sia morta o, meglio, l’abbiamo fatta morire andando ad abitare in claustrofobici appartamenti di anonimi palazzoni sbandierati come il raggiungimento di uno status symbol (“Ndrì, ime bilë u martua e vat’e mbet te nj’apartemend! Ma apartamend!”) oppure in enormi ville circondate da recinti per far capire a tutti che non si ha bisogno di nessuno perché stiamo bene (soprattutto economicamente).Proprio ieri leggevo in un sito internet che si intende tutelare con una legge apposita, come per la lingua, anche la gjitonìa, ed ho amaramente concluso che nessuna legge potrà mai farlo se le viuzze non risuonano più degli schiamazzi di torme di monelli, se i nostri paesi si stanno svuotando dei fermenti vitali che sono i giovani, se le antiche case delle gjitonie sono vuote e cadono ormai a pezzi, se ai legislatori ed amministratori di vario ordine non gliene frega proprio niente di noi!
Gjitonia: luogo fisico e sociale nella comunità arbëreshe.
Gjitonia: luogo fisico e sociale nella comunità arbëreshe.(di Francesco Marchianò) “Kush ë pa shpi, ë pa gjitoni” (“Chi è senza casa, non ha vicinato”) recita un breve ma significativo proverbio arbëresh che vuole sottolineare l’importanza di possedere un luogo fisico dove ritrovarsi per svolgere le funzioni quotidiane domestiche (shpia = la casa) e, soprattutto, dove operare le funzioni di scambio sociale (gjitonia=il vicinato).Attenendomi alla gjitonia come luogo fisico, con riferimento alla comunità di S. Cosmo Albanese-Strighàri, riporto qui di seguito due interessanti osservazioni avanzate molti anni fa (1988) dall’architetto Piera Oranges: «L’elemento minimo del tessuto urbanistico è la “gjitonia”, spazio che viene compreso tra tre o quattro case abitate da famiglie tra le quali si instaurano rapporti e vincoli di grande interesse antropologico[…]». Con questa affermazione la Oranges vuole significare i primordi della gjitonia quando gli albanesi, vivendo in miserrime condizioni economiche, non esitavano ad aiutarsi l’un l’altro. Ma con l’evoluzione socio-economica dei paesi arbëreshë, fine sec. XVII ed inizi del XVIII, la gjitonìa si trasforma in un nucleo produttivo precapitalistico: « […] Nel momento in cui gli albanesi si organizzarono all’interno del territorio loro assegnato e cominciarono ad usufruire del territorio da loro coltivato, ecco che emergono uomini che sicuramente si sono messi a capo dei vari gruppi di profughi (rappresentati da coloro che provenivano da un rango sociale più elevato).Costoro e per intelligenza e per dominio e per astuzia diventano ben presto i benestanti ed i proprietari di quasi tutte le terre.Di questo fenomeno l’insediamento di S. Cosmo Albanese è la più chiara dimostrazione; esso è denunciato con estrema chiarezza, a livello urbanistico ed architettonico. Nella seconda fase di sviluppo dell’insediamento, evidenziato dallo studio metodologico sul lungocrinale (attualmente Via A. Gramsci) si determina un tessuto seriale formato da un lato da una serie di palazzotti signorili e dall’altro da edilizia di base con duplice funzione (in particolare serviva da abitazione per coloro che erano al diretto servizio del signorotto, e in parte a deposito e lavorazione dei prodotti della terra).Urbanisticamente, ecco, che risalta lo stesso fenomeno verificatosi all’interno del primo nucleo: la “gjitonia”, questo spazio compreso tra tre o quatto case ora appartiene ad un solo proprietario.Quindi una gjitonia caratterizzata non più da motivazioni solidaristiche, ma da interessi economici, sotto il controllo del proprietario.»Lasciando da parte le fredde considerazioni tecniche accetto la prima definizione e mi piace entrare nel merito della gjitonìa come elemento sociale costitutivo del paese katundi. Consultando un vocabolario risulta che il lemma gjitonia derivi dalla lingua greca che, come l’albanese, pur essendo indoeuropea non appartiene a nessun ceppo linguistico. Nella lingua greca gjitonìa < ή γειτονία cioè “vicinato” e ό γειτων “il vicino”. Ma il greco non riesce a spiegare questo etimo!E se noi, invece, facessimo provenire gjitonìa dall’albanese? Se lo facessimo provenire da “gjithë ton” cioè “tutto nostro”? Sarà forse una forzatura ma spiega un concetto fondamentale insito nella gjitonìa che è appunto la comunanza, la condivisione.Mettendo da parte queste criticabilissime considerazioni linguistiche, la gjitonìa per la mia generazione, che è cresciuta agli inizi del boom economico italiano rimane uno dei momenti formativi dell’esistenza. La generazione vissuta nei paesi arbëreshë tra il 1950 –’70, ha visto gli ultimi bagliori di un mondo agro-pastorale che si avviava ad una lenta ed inesorabile trasformazione economica e sociale.Vivere nel ricordo significa che non si vive bene nel presente, purtroppo questa falsa modernità spinta all’eccesso sta cancellando le differenze culturali, linguistiche e sociali omologando tutto e tutti cancellando secoli di storia e di civiltà di antiche comunità e di singoli individui.Ritornando alla gjitonìa essa era il luogo fisico della condivisione, era tenere la porta di casa aperta perché nessuno estraneo vi entrava perché controllato dai vicini, era scambiarsi il lievito naturale per fare il pane, insomma offrirsi piccoli beni senza chiedere nulla in cambio, la gjitonìa era tutto.I ricordi personali sul mio vicinato sono vari, alcuni ricordano momenti belli ed altri brutti, ma che vedevano sempre la presenza dei vicini. Qui di seguito offro dei flashs.Momento bello era d’inverno quando si ammazzava il maiale. Più che un’uccisione, purtroppo violenta di un animale domestico, era un rito cui partecipavano i membri della famiglia e le persone più intime del vicinato. Dopo aver inviato un assaggio di pietanza a tutto il vicinato, la sera a casa si faceva una grande tavolata per la gioia di tutti gli invitati che mangiavano le carni del maiale cucinate in vari e gustosi modi.E quando si avvicinava la festa di S. Giuseppe alla cui vigilia si accendeva il falò, circa un mese prima tutti i bambini, i giovani e donne della gjitonìa si recavano negli uliveti a raccogliere le frasche della potatura per ammassarle nello spiazzo della gjitonìa di appartenenza. Poi durante il falò si andava a vedere qual’era quello più grande (“Simbjet fanoin më i madhë e i bukur e bën te gjitonia e Sqinit!”).Poi Pasqua con i dolci cotti nel forno del vicinato, la preparazione dell’altare per il Corpus Domini e cercarlo di farlo più bello degli altri. Mi ricordo. Inoltre, che alla vigilia della festa di S. Giovanni mia madre andava a raccogliere nei campi germogli ancora acerbi di cardo che abbrustoliva ed offriva alle ragazze del vicinato. Dalla loro fioritura, dopo questo trattamento, si traeva l’auspicio se quelle giovinette si sposassero o no.E quando poi chiuse le scuole a frotte ci si costituiva in bande per fare la guerra con i bambini degli altri vicinati o si organizzavano vari giochi negli spiazzi davanti alle case o nella vicina campagna.A settembre, dopo la raccolta ed immagazzinamento del frumento, le donne si sedevano davanti ad una spianatoia (qastìeri) per pulire il grano dai semi di erbe infestanti e si ingannava il tempo e la noia dell’operazione facendo raccontare alle donne più anziane fatti avvenuti nel passato o favole.Poi arrivava ottobre, la preparazione ed il lavaggio delle botti preludevano la vendemmia che veniva pure anticipata dall’invio ai vicini di un paniere pieno di uve pregiate e quando il mosto era maturo nelle botti non mancava anche di inviare ai vicini la bottiglia di vino novello.La gjitonìa era stare di sera davanti alla porta di casa per sfuggire alla calura dell’interno, tanto allora non passavano auto, e parlare di tanti fatti del passato o permettersi qualche pettegolezzo se passava qualcuno/a che aveva commesso qualche atto del tipoo: “Ndrì, e sheh ktë ç’shkoi nani? Dhëndrri e ngapoi me njeter e nani e lëreu!” oppure muovere critiche sull’abbiligamento o sul modo di incedere: ” Ku vate i gjet kta tirqë ki ktu?” o “Kjo ecën sikur ësht’e çanë ve!” .Altro momento forte erano le nozze di qualche ragazza: tutte le vicine accorrevano ad aiutarla nella vestizione, a distribuire dolci e confetti, ad esporre la coperta più bella del corredo come lo si fa ancora oggi nelle processioni dei santi. E così via tanti e tanti momenti….Poi non mancavano, purtroppo, anche quelli brutti come, per es., la scomparsa di qualcuno. Già durante l’agonia i vicini si alternavano a vegliare il moribondo ed aiutavano i parenti in alcune incombenze. A decesso avvenuto c’era sempre la donna più esperta del vicinato che aiutava a vestire il defunto, a far rispettare i riti, ad avvisare il sacerdote. La presenza alla veglia funebre era di obbligo e poi, a fine esequie, a turno e per più giorni i vicini preparavano da mangiare alla famiglia colpita dal lutto.Concludendo la gjitonìa era un piccolo mondo, con aspetti negativi e positivi, era un’atmosfera particolare, irripetibile e magica. Io penso che la gjitonìa, come entità umana, sia morta o, meglio, l’abbiamo fatta morire andando ad abitare in claustrofobici appartamenti di anonimi palazzoni sbandierati come il raggiungimento di uno status symbol (“Ndrì, ime bilë u martua e vat’e mbet te nj’apartemend! Ma apartamend!”) oppure in enormi ville circondate da recinti per far capire a tutti che non si ha bisogno di nessuno perché stiamo bene (soprattutto economicamente).Proprio ieri leggevo in un sito internet che si intende tutelare con una legge apposita, come per la lingua, anche la gjitonìa, ed ho amaramente concluso che nessuna legge potrà mai farlo se le viuzze non risuonano più degli schiamazzi di torme di monelli, se i nostri paesi si stanno svuotando dei fermenti vitali che sono i giovani, se le antiche case delle gjitonie sono vuote e cadono ormai a pezzi, se ai legislatori ed amministratori di vario ordine non gliene frega proprio niente di noi!