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BALENARE DI STELLE - Capitolo 11


Dopo quaranta giorni nello spazio non avevamo ancora mai visto il nostro capitano. Se ne stava chiuso nella sua cabina. Ma, a volte, nel cuore della notte, sentivo il sibilo del pozzo dell’ascensore, come un lungo, strascicato sospiro, e capivo che stava passando, risaliva dagli alloggiamenti interni e dai livelli operativi fino al ponte più esterno della sua grandiosa nave, vietato a tutti tranne che al nostro comandante fantasma.Quella notte la voce di un orologio ripeteva, molto dolcemente: «Tick tock, two o’ clock… Tick tock, two o’ clock…»Quando l’ascensore venne azionato, all’interno della camerata, ci mettemmo tutti in ascolto, tutti sentimmo.Qualcuno sussurrò: «Cosa fa lassù? L’ho sentito mettersi la tuta, uscire da solo, legato a un cavo soltanto.»Qualcun’altro rispose nel buio: «È pazzo, gioca con le meteore, si allunga come per prenderle, anche se non riesce neppure a vederle arrivare.»Small aggiunse: «Sembra non fidarsi affatto dei nostri schermi radar. È cieco, ma crede di vedere meglio e più lontano di quanto non riesca l’occhio umano.»«Vedere cosa?», chiesi. «Small, tu puoi leggergli nel pensiero. Cosa?»Small restò in silenzio per qualche istante, poi disse: «La mia mente può sentire, ma la bocca del capitano deve parlare. Non tocca a me dirlo. Quando troverà quello che sta cercando, ce lo farà sapere. Lui…»Tutt’a un tratto Small si portò le mani al volto deforme, e in lontananza sentimmo il capitano gridare nell’interfono.«No, no!», urlò Small, cadendo sulle ginocchia. Crollò di fronte a noi e, con gli occhi serrati, contrasse in un pugno una delle due mani. Poi lo agitò contro le stelle invisibili, e gridò, come posseduto: «Basta, basta!»E, improvvisamente, ovunque piombò il silenzio. Nessun suono dall’interfono, solo il respiro forte e irregolare di Small, steso a terra. Mi avvicinai a lui, lo aiutai a rialzarsi, indebolito e scosso da quella strana cosa che era capitata.«Small», dissi. «Dimmi cosa è appena successo. Non eri tu quello, vero? Era il capitano. Sei entrato nella mente del capitano e ti sei comportato come se fossi lui, non è vero?»«No», disse Small, a bassa voce.«Sì», insistetti. «Tu non hai nessuna ragione di sfidare le stelle. È stato lui che ha levato il pugno contro l’universo.»Ma lui si rifiutò di rispondere, e volse lo sguardo verso l’alto.Dal diario di bordo del primo ufficiale John Redleigh:“Cinquanta giorni di viaggio. Correzione: milleduecento ore di distanza dalla Terra. Studenti, fate i vostri conti. Informatizzate, elettropsicoanalizzatemi l’anima. Ficca il dito nella presa di un computer, primo ufficiale Redleigh. Cosa troverai? John Redleigh, nato nel 2150, a Reedwater, Winsconsin. Padre: produttore di motori fuoribordo. Madre: una sfornabambini, una dozzina in tutto, dei quali il vecchio John Redleigh è la più semplice di tutte le pagnotte alla buona. Vecchio quando avevo dieci anni, in senilità avanzata a tredici. Sposato con una donna buona ma bruttina a ventidue, ha riempito le culle a venticinque. Legge libri sporadicamente, pensa pensieri sporadici. Ah, Dio, Redleigh, non hai nient’altro da mettere in questa dannata macchina? Sei così spossato, scarico, in scalfibile, imperturbabile, privo di cicatrici, indifferente? Non hai incubi, omicidi segreti, droghe o alcol nell’anima? Hai perduto il cuore, il battito è assente? L’hai fatto smettere di pulsare quando avevi trent’anni, o sei mai stato qualcosa di più di un biscotto secco, di una brioche senza burro, di un bicchiere di vino insignificante? Piacevolmente sensuale, ma mai passionale. Un bravo marito, un amico leale, un esploratore di terre lontane, senza preoccupazioni, che va avanti e indietro tanto silenziosamente che nemmeno Dio si accorge della sua presenza. E quando morirai, Redleigh, qualcuno suonerà un corno? Ci sarà almeno una mano che trema, un’anima che piange, un lacrima che scende, una porta che sbatte? Qual è il totale della somma? Finiamo di farlo. Eccolo, eccolo qui: zero. È stato il mio io segreto a metter giù quelle cifre? Dai zero, ottieni zero? Così io, John Redleigh, riassumo me stesso.”