Creato da francescalc.mi il 04/01/2008

la via al benessere

counseling - supporto psicologico

 

 

Post N° 48

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QUESTO BLOG E' STATO PENSATO COME UNO SPAZIO IN CUI PROPORRE TEMI DI PSICOLOGIA DI INTERESSE COMUNE. PER QUESTO SARA' GRADITO OGNI COMMENTO, QUESITO, APPROFONDIMENTO, ESPERIENZA DA PARTE DI TE LETTORE

NEL BLOG

IPOCONDRIA - QUANDO DIVENTA DISTURBO INVALIDANTE? (Introduzione de Il malato immaginario, commedia carica di simbolismo)

CAMBIAMENTO - QUANDO PARALIZZA? COME AFFORNTARLO? (Introduzione di una favolotta istruttiva sul tema)

OBESITA' - QUANDO LA DIETA PUO' DIRSI EFFICACE?

AMARSI PER SAPER AMARE

PERCHE' SOGNIAMO?

DAP - L'ATTACCO DI PANICO (Come afforntarlo?)

COUNSELING - DI CHE SI TRATTA? (Terapia di supporto psicologico)

BAMBINI E SCUOLA - LA SINDROME ADHD

 
 
 

IPOCONDRIA

Post n°44 pubblicato il 04 Febbraio 2011 da francescalc.mi
 
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IL MALATO IMMAGINARIO

lib. tratta dalla commedia di J.P. Molière “Le Malade imaginaire” (1673)

(segue) PAURA DI AMMALARSI

L'IPOCONDRIA - QUANDO DIVENTA DISTURBO INVALIDANTE ____________________________________________________________________________ C’era una volta, un uomo molto molto ricco di nome Argante. Egli conduceva una vita fastosa e poteva dirsi alquanto fortunato. La sua esistenza avrebbe potuto trascorrere serena… Avrebbe… perché, di fatto, il facoltoso signore era perennemente preoccupato, per non dire disperato, a causa della sua salute. Non che fosse malato, sia chiaro, era sano come un pesce! Piuttosto era convinto di esserlo. Ascoltava ogni giorno il suo corpo, lo ispezionava con scrupolo e al minimo dolorino, gonfiore, ponfetto sulla pelle, preso dal terrore, consultava il medico di fiducia. Di frequente gli faceva visita il signor Fiorante, noto farmacista, per prestargli cure di cui Argante in realtà non aveva alcun bisogno. Di certo però, queste visite a domicilio tranquillizzavano il signorotto e soprattutto fruttavano molti danari al farmacista! Ogni giorno la solita storia si ripeteva: un banale dolore intercostale, un giramento di testa, un braccio intorpidito, tutto era segnale di morte imminente. Già, perché l’uomo era fermamente convinto che gli restasse ben poco tempo da vivere e niente poteva fargli credere il contrario. Argante aveva una bellissima figlia di nome Angelica in età da marito. Nella convinzione di essere in punto di morte (i suoi sintomi presunti negli ultimi tempi erano notevolmente aumentati), aveva pensato di offrirla in moglie al dott. Tommaso Diafoirus, figlio, a sua volta, di un noto medico della zona. Come dire? Prendere due piccioni con una fava? Proprio così! Nei pensieri contorti del ricco signore, il genero acquisito avrebbe potuto collaborare al suo caso col padre o sostituirlo in caso di malattia… occuparsi di lui, insomma, compito al momento riservato esclusivamente al dott. Purgone. I piano di Argante avrebbero funzionato, se non che la figliola era già perdutamente innamorata del giovane Cleante che la ricambiava con immenso ardore. Ma nemmeno l’amore poteva fermare Argante! Un giorno prese a quattrocchi Angelica, intimandole di rispettare il suo volere o sarebbe stata spedita in convento! I suoi progetti non potevano certo andare in fumo per i capricci di una giovinetta! Neanche l’intervento della fida governante poté dissuaderlo. La donna cercò di convincere in tutti i modi il padre della fanciulla, gli fece notare che è sempre sbagliato costringere qualcuno con la forza a sposare una persona che non ama. Invano. Argante era irremovibile. Sua figlia avrebbe presto sposato il medico. Che dire della moglie di Argante? Bhè, poteva essere di ben poco aiuto alla ragazza. Si trattava infatti di una donna avida di denaro (specie quelli del coniuge!) e per nulla sensibile ai sentimenti. Anzi! Inoltre Angelica era solo la sua figliastra, la donna aveva sposato Argante in seconde nozze, che importava a lei della giovinetta? Pur rendendosi conto che i sintomi descritti dal marito non corrispondono a malattia reale, Belinda, questo il suo nome, aveva trascorso un’intera esistenza ad assecondarlo … in realtà con l’unico scopo di impossessarsi delle sue ricchezze. Ed aveva buone ragioni per farlo! Argante, malato immaginario, aveva da poco deciso di stendere un testamento sotto la guida di un notaio, il signor Buonafede. Ovviamente Belinda sperava di essere nominata unica erede e per questo mise in atto il più falso degli atteggiamenti di compatimento verso la presunta malattia del marito. La donna sapeva bene di dover far un gran buon lavoro: se Argante non fosse stato convinto,avrebbe lasciato in sorte ogni bene ad Angelica! Nel mentre ben altri pensieri occupavano la mente della giovane! Insieme alla amica Tonietta, stava cercando di risolvere il problema del pretendente impostole dal padre. Un giorno, mentre Argante giaceva nel letto, vittima di chissà quali dolori immaginari, la governante annunciò l’arrivo del supplente del maestro di musica della figlia, interpretato da Cleante che aveva escogitato il piano per incontrare l’amata. Al suo arrivo, Angelica rimase impietrita… presa dall’amore, ma anche dallo stupore generato dalla scena. La lezione era appena agli inizi quando giunsero a far visita ad Argante anche il dott. Tommaso Diafoirus, futuro sposo di Angelica e suo padre, il noto medico. Motivo della visita: conoscere la fanciulla. Tommaso Diafoirus si rivelò essere da subito un allocco immaturo. Infatti non riuscì a spiccicar parola, se non stimolato dal padre. Argante nemmeno si curò di notare la stupidità del giovane, ma sfruttò invece l’occasione per presentare le doti canore della figliola a futuro genero e consuocero. E fu così che la scena divenne ancora più grottesca. Accompagnata dal finto maestro Cleante, Angelica cominciò a cantare per allietare gli ospiti. L’operetta a due voci che i giovani interpretarono, raccontava però di una storia d’amore del tutto simile alla loro. Fu per questo che Argante se ne accorse e adirato decise di scacciare Cleante dalla sua sontuosa dimora! Se il padre era uomo di temperamento, cocciuto quanto ipocondriaco, la figlia era altrettanto determinata e mossa da nobili motivazioni. Nessuno l'avrebbe mai convinta a sposare l’uomo che non amava.Belinda, la sua perfida matrigna, provò e riprovò, con l'unico scopo di ottenere i favori del marito, che, però, nel mentre, era intento a ben altro: si stava infatti già sottoponendo ad una visita accurata del futuro genero coadiuvato dal consuocero. Alla fine i due gli diagnosticarono falsamente una nuova – l’ennesima - malattia immaginaria, ben consapevole che i disturbi di Argante fruttavano denaro. Per sua fortuna Argante aveva un fratello intelligente ed onesto. Un giorno, facendo visita al malato immaginario, chiese di parlare in privato con lui. Provò così a spiegargli che i suoi malesseri erano solo di origine psicologica, che godeva di ottima salute e che sia il farmacista che lo stuolo di medici lo assecondavano solo per truffarlo. Non si trattò di un discorso breve. Anzi… fu molto lungo, Belardo tentò in ogni modo di dimostrare la verità delle sue argomentazioni. Alla fine, data la cocciutaggine di Argante, preso dalla disperazione, decise di essere più duro e meno comprensivo. Estremi mali, estremi rimedi: scelse, per il suo bene, di vietare ad Argante la visita medica quotidiana, con grande disappunto del medico Purgone e del farmacista che non poterono riscuotere più alcun quattrino. La nuova strategia coercitiva non ottenne però grandi risultati. L’ossessione di Argante non sembrava migliorare e Belardo, affranto, non sapeva più che fare… Era ormai rassegnato… quando… come spesso accade… all’improvviso gli venne un’idea: con l’aiuto della governante, decise di inscenare la finta morte di Argante. Solo così, pensavano i due, il vecchio testardo avrebbe potuto verificare chi teneva veramente a lui e alla sua salute e chi lo stava gabbando per ricavarci eredità e parcelle. La messinscena funzionò perfettamente. Argante sembrò destarsi da un profondo sonno. Si rese conto che solo la figlia, la governante ed il fratello lo amavano sinceramente e così permise alla giovane, finalmente, di coronare il suo sogno d’amore. Belardo, a questo punto, non si fermò e ne inventò un’altra davvero buona. Propose al fratello di divenire lui stesso medico! Avrebbe potuto curare da sé i suoi acciacchi senza sperperare inutilmente denaro. Fu così che Argante si laureò in men che non si dica addirittura in medicina! Sicuro la sua ipocondria non guarì, di certo, però, smise di essere gabbato dai tanti truffatori in circolazione!

 
 
 

IL MALATO IMMAGINARIO: PERCORSO ATTRAVERSO LA SIMBOLOGIA

Post n°43 pubblicato il 04 Febbraio 2011 da francescalc.mi
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PAURA DI AMMALARSI

L'IPOCONDRIA - QUANDO DIVENTA DISTURBO INVALIDANTE

 

E’ capitato a tutti di preoccuparsi per disturbi fisici immaginari. Quando tale paura irrazionale diviene invalidante, si parla di ipocondria. La malattia origina da sensazioni corporee reali che vengono interpretate in modo distorto dal soggetto e lette come sintomi patologici. Alla base di tale vissuto vi sono distorsioni cognitive attraverso cui il paziente decodifica le proprie percezioni fisiche, catalogabili, queste, in tre categorie: funzionamento dell’organismo (coinvolgendo gli apparati cardio-vascolare, respiratorio, gastro-intestinale...) ferite di poca importanza (una leggera influenza o un taglietto possono scatenare reazioni allarmate) sensazioni meno definite (stanchezza, cuore affaticato, battito irregolare…) L’ipocondriaco è incline ad interpretare ognuno di questi segnali corporei come sospetto, preoccupante, spia della presenza di una patologia in corso o imminente. L’ipocondria va distinta dal disturbo ossessivo compulsivo (OCD) in cui la fobia è correlata al timore irrazionale di venir contagiato o contagiare altri ed è associato alla presenza di rituali volti a scongiurare tali rischi (pulizia, lavaggio, evitamento di luoghi..). Si è accennato alle distorsioni cognitive. Con tale definizione si intende descrivere l’utilizzo di meccanismi di pensiero solo all’apparenza logici, in realtà irrazionali, viziati da conflitti inconsci e basati su dati incerti. Il disturbo diviene particolarmente invalidante quando associato ad ansia generalizzata, attacchi di panico, depressione e quando il timore di ammalarsi lascia spazio alla convinzione di aver contratto una patologia grave. Caratteristica primaria del disagio, la persistenza di pensieri angoscianti e disfunzionali nonostante le rassicurazioni mediche e gli esami diagnostici, proprio come nel caso del povero Argante! Di più. L’insoddisfazione rispetto alla diagnosi clinica ottenuta (c’è stato un errore? gli esami saranno stati accuratamente eseguiti? qualcosa è sfuggito?) innesca un circolo vizioso di accertamenti che alimenta i pensieri ossessivi. Il soggetto si documenta da sé, trova convalida ai suoi dubbi nelle conversazioni che intrattiene, conferma il suo timore ad ogni dolorino sospetto. Inoltre l’ipocondriaco focalizzandosi sui pensieri ossessivi si aspetta considerazione per la propria condizione da parte di familiari ed amici, mettendo spesso a dura prova le proprie relazioni affettive, amicali e professionali quando il disagio interferisce con l’efficienza lavorativa. Il malato esaspera chi gli vive accanto, incurante ed inconsapevole del disagio che gli crea. Lo vediamo bene in Argante. Il suo estremo egocentrismo è in parte causato dal disturbo e sottende un bisogno infinito di attenzione. Tutta la sua vita ruota attorno al presunto malessere ed anche i familiari debbono adeguarsi. Così è necessario che la giovane Angelica vada in sposa al figlio del medico che non ama, ma che può essere di ausilio alla presunta malattia del padre. Anche la ricchezza di Argante è sospetta. Egli sembra essere una persona che ha ammassato denaro a compensazione di un profondo vuoto affettivo. In questo senso, l'ipocondria diventa strategia inconscia, grido disperato a ricevere cura ed affetto. Sul piano psicodinamico, il disturbo scaturisce da un conflitto inconscio causato da rabbia retroflessa. I sentimenti non vengono cioè diretti verso le persone o le situazioni che li hanno causati, bensì trattenuti e rimossi generando sensi di colpa. Possiamo ipotizzare che Argante abbia maturato una collera profonda verso chi non gli ha fornito accudimento e nutrimento affettivo, vale a dire le sue figure di riferimento infantili. Un'ipotesi alternativa. Il vecchio ha sviluppato la patologia in seguito al lutto dovuto alla perdita dell'adorata moglie. Argante prova rabbia e senso di abbandono (“perché mi hai lasciato? Tu eri la mia vita e te ne sei andata. Ti odio per questo!”) In entrambi i casi immaginati, il protagonista ha imparato a reprimere difensivamente il dolore e la rabbia per non perdere i suoi riferimento affettivi sia sul piano reale che psicologico. Ma le emozioni non possono essere negate. Se non espresse, macerano l'anima. E' presumibile infatti che siano proprio le sue pulsioni inconsce la causa del senso di colpa che esprime attraverso il viversi costantemente aggredito dalla malattia. Già... aggredito. Il meccanismo è il seguente: l'aggressività propria viene spostata dall'oggetto d'amore (genitori o moglie nel nostro esempio) a cui è originariamente diretta, proiettata all'esterno (la malattia) e retroflessa (“io sono oggetto della malattia che mi aggredisce perché sono il colpevole da punire). Tale modalità disfunzionale origina dal modo in cui il soggetto ha imparato, nel corso dello sviluppo, a gestire le proprie emozioni. Per questo l'intervento efficace implica che il soggetto acquisti consapevolezza circa il suo modo di reprimere gli impulsi di rabbia ed impari ad esprimerli in maniera adeguata. Affinché ciò accada, è necessario agire fortificando il suo debole Sé ed in particolare la sua parte adulta, liberandola dall’ingerenza di ingiunzioni, divieti e regole assimilati nel corso della propria crescita (“devi essere forte e trattenere). Qualora il disturbo si accompagni a depressione o attacchi di panico, il supporto terapeutico può essere coadiuvato da un intervento farmacologico che da solo risulterebbe invece efficace limitatamente al periodo del trattamento. Accade che eventi traumatici o stressanti facciano peggiorare la malattia. Anche in questo caso l’acutizzarsi del disturbo può essere dovuto dall’incapacità ad elaborare ed esprimere i propri vissuti emozionali che rimangono intrappolati, “indigeriti”, non metabolizzati, nella psiche trovando nell’ipocondria una valvola di sfogo. Si è detto, i sintomi somatici nascondono l’inconscio desiderio di essere accettati ed accolti, di ricevere attenzione ed accudimento. Forse Argante non vorrebbe comunque il matrimonio tra la figliola ed il suo amato anche se il figlio del medico non fosse disponibile. Egli si sentirebbe perso e solo senza il conforto della giovane. Ciò avviene quando vissuti antichi di carattere abbandonico permangono e sedimentano nell’adulto, laddove non sia avvenuta né l’elaborazione delle emozioni dolorose, né, dunque, la riparazione. Il soggetto, affamato d’amore, sperimenta una sorta di credito ancora aperto che la malattia pare tamponare (ma mai estinguere) ottenendo le cure nel presente. In concomitanza questa stessa dinamica può generare attacchi di panico che vanno letti come spie di un sistema che non funziona in modo equilibrato e necessita di un cammino introspettivo in grado di sviluppare modalità più adattive di entrare in contatto con sé ed il mondo. In ultimo, è necessario accennare al fatto che l’ipocondriaco, proprio perché convinto della veridicità delle sue sensazioni, difficilmente intraprende spontaneamente un percorso terapeutico. Spesso accade che vi ricorra per risolvere problematiche diverse (attacchi d’ansia, depressione…) e che solo così apra la via ad un intervento in grado di sanare anche il disagio in analisi. Vista la difficoltà a che un soggetto ipocondriaco richieda una terapia, spesso risulta vincente la cooperazione sinergica di ambiti clinici differenti. Laddove per esempio il medico generico o lo psichiatra intravedano la necessità di un sostegno psicoterapeutico o di counseling ed effettuino un invio. In tal caso il disagio può essere curato e guarito. Che dire delle strategie del fratello di Argante? Comprensibili, vista l'esasperazione dei familiari, ma del tutto inefficaci. Praticamente impossibile convincere il malato immaginario della propria sanità attraverso esempi logici ed evidenze. Purtroppo, lo si ribadisce, le sue convinzioni nascono da una modalità disfunzionale di pensiero che va corretta con un idoneo trattamento terapeutico. Fargli studiare medicina? Valida soluzione, ma solo dal punto di vista economico, povero Argante! L'ipocondriaco è spesso una persona già molto informata circa la composizione dei farmaci, i loro effetti e le controindicazioni. E' il suo modo per controllare il disturbo. La laurea in medicina implica che egli trascorra il suo tempo focalizzato su ciò che reputa la fonte dei suoi problemi, il che non fa che acutizzare la sua sensibilità, anziché indirizzarla verso al guarigione.

 
 
 

1. TOPOLINI, FORMAGGIO E CAMBIAMENTO

Post n°42 pubblicato il 04 Febbraio 2011 da francescalc.mi
 
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CHI HA SPOSTATO IL MIO FORMAGGIO?

di Spencer Johnson (2004)

segue articolo correlato: QUANDO IL CAMBIAMENTO PARALIZZA ________________________________________________________________________________ C’erano una volta* due topolini Sniff e Scurry e due personcine, dell’altezza di un pollice, Hem e Haw, che vivevano insieme in un enorme labirinto. L'intrico di corridoi era molto complesso, pieno di vicoli ciechi ed angoli bui, ma ognuno dei quattro sapeva che, alla Stazione F, di formaggio se ne trovava in abbondanza. I due topini, però, forti del loro istinto, stavano sempre all’erta: la riserva di formaggio, avevano notato, andava diminuendo e se la scorta fosse un giorno terminata, erano pronti a muoversi altrove. Sniff confidava nel suo fiuto e Scurry nella sua abilità di correre velocemente. Per questo ogni giorno vestivano tute da jogging e scarpe da ginnastica e cominciavano la ricerca giornaliera del loro cibo preferito. Hem e Haw, al contrario, non si ponevano nemmeno il problema. Pensavano che la riserva di formaggio fosse costante e perenne, che, seppur diminuiti i pezzi di formaggio, di nuovi se ne sarebbero in qualche modo accatastati per loro. Convinti di ciò, conducevano così una vita prospera e spensierata. Successe un giorno che alla Stazione F il formaggio venne a mancare davvero. Non se ne trovava che in piccoli pezzetti, la scorta pareva proprio esaurita. I due topolini presero atto della realtà e senza grandi drammi. Infondo avevano sempre saputo che prima o poi la scorta sarebbe finita. Erano preparati all’inevitabile e sapevano istintivamente cosa fare: Sniff cominciò a fiutare nei corridoi del labirinto, muovendosi per tentativi; Scurry si allacciò bene le scarpe da ginnastica e iniziò la sua corsa. Per Hem e Haw al contrario fu una vera tragedia, perché non erano preparati all’evento. Essendo due piccoletti intellettualmente molto dotati, cominciarono a guardarsi intorno e ad ispezionare la Stazione F da cima a fondo: cercavano spiegazioni, sviluppavano teorie, si perdevano in elaborati ragionamenti, in special modo Hem che però, dopo molte riflessioni, sentì salire un’ansia potente e preso dalla rabbia gridò “NON E’ GIUSTO!!!”. Hem si sentiva tradito. La sua razione di formaggio era per lui un diritto e non poteva capire per quale ragione ne venisse privato. Continuava a rielaborare mentalmente l'accaduto, ancora ed ancora, ma non ne veniva a capo. Fino a che la sua mente, ormai satura di analisi, ipotesi e tesi, andò in corto circuito! Haw non voleva nemmeno ascoltare le lamentele di Hem. Era rimasto completamente allibito, paralizzato. Non riusciva a riflettere, né ad accettare ciò che pareva una vera catastrofe. Dopo un po’ di tempo Haw si ritrovò a dire: “Ma che fine avranno fatto Sniff e Scurry?!” Hem ribattè un po’ seccato “Ma che c’entra? Sono solo topi, reagiscono agli eventi istintivamente, non fanno ragionamenti come noi!” Ed Haw perplesso “…so che siamo intelligenti… ma al momento non sembra molto intelligente la nostra reazione, la situazione è cambiata e noi stiamo qui immobili, forse dovremmo cambiare anche noi ed agire in modo differente…” Hem allora si arrabbiò davvero “Ah bene, dovremmo cambiare NOI…!! Noi siamo speciali, esseri pen-san-ti” scandì con orgoglio “ queste cose non dovrebbero accadere a noi! O, dovendo accadere, dovremmo averne in cambio qualche beneficio!” Haw era ancora più perplesso “… e per quale motivo?” “Perché siamo qualificati alla nostra razione di formaggio!” ed Haw ormai interdetto “… e per quale ragione?!” “Perché non abbiamo causato noi il problema, qualcun altro lo ha fatto!” Haw timidamente concluse “forse dovremmo smetterla con queste elucubrazioni ed andare alla ricerca di nuovo formaggio…” La risposta di Hem fu definitiva “Proprio non se ne parla, andrò a fondo della faccenda!” Nel mentre che Haw ed Hem tenevano questa conversazione, fermi alla Stazione F, Sniff e Scurry si stavano muovendo da tempo nel labirinto. Non pensavano a nulla, se non a trovare nuovo formaggio. Girarono a lungo invano, in una direzione poi in un’altra, fino a che si ritrovarono in un luogo dove in precedenza non erano mai stati: la Stazione N. E non poterono credere ai loro occhi quando scoprirono che era colma di formaggio fresco!!! Nel frattempo Hem ed Haw cominciavano a risentire seriamente della mancanza di cibo. Haw aveva qualche idea circa la possibilità di muovesi, ma Hem ogni volta rispondeva categorico “No, Mi piace stare qui. E’ comodo e sicuro. Questo è tutto ciò che so. Là fuori invece è pericoloso!” Ogni volta che Hem la metteva su questo piano, in Haw si risvegliava la paura di fallire, di perdersi e l’idea di andar alla ricerca di formaggio svaniva. Intanto la situazione si faceva più dura… di notte le due personcine faticavano a prender sonno, di giorno sentivano le energie venir meno ed erano sempre più irritabili e depressi. Una mattina, presi dalla disperazione, scavarono un grande buco nel muro, nella speranza che, oltre la parete, vi fosse una riserva di cibo. Non fu così, tutto vuoto. Haw stava cominciando a realizzare la differenza tra essere attivi e produttivi… Ormai i due erano sempre più deboli a causa della fame e dello stress. Alla fine Haw sbuffò “Insomma, rimaniamo qui bloccati e ci chiediamo come mai non otteniamo nessun risultato!” Cominciava a rendersi conto di quanto quell’impasse fosse prodotto dalla sua paura. Col passare dei giorni Haw si ritrovò ad immaginare sempre più spesso di uscire dalla Stazione F, di andare e trovare il formaggio e gustarlo!… una visione! E più chiaramente vedeva l’immagine di se stesso che trovava e gustava il nuovo formaggio, più si vedeva lasciare la Stazione F” Purtroppo però le paure che Hem gli istillava “E che accade se… e poi se…” tornavano immancabilmente a far capolino nella sua testa e si ritrovava bloccato dov’era. Un bel giorno però Haw decise di farsi forza, lo motivò l’idea di quello che avrebbe potuto guadagnare uscendo dalla Stazione F. Senza più pensarci sopra, cercò le scarpe da ginnastica e lasciò Hem che ancora si lamentava. Partì presto, non senza aver prima lasciato all’amico un motto sul muro nella speranza di stimolare anche lui all’azione. Scrisse: “se non cambi, ti spegni” e se n’andò. Non fu facile per Haw addentrarsi nei profondi corridoi del labirinto. E’ vero, alcuni li aveva già visitati, almeno quelli intorno alla Stazione F, ma era passato molto tempo da allora e ciò che lo aspettava gli era completamente ignoto e ridestava in lui mille paure. Durante il cammino trovò briciole di formaggio sparse qua e là, ma troppo poche per soddisfare la sua fame. Decise comunque di continuare. Mentre percorreva i meandri del labirinto fece alcune riflessioni: nel corso degli ultimi tempi aveva notato che i pezzettini di formaggio alla Stazione F erano diminuiti gradualmente, che la muffa aveva cominciato a far capolino qua e là… realizzò che se solo avesse osservato ciò che accadeva, non sarebbe stato colto di sorpresa ed avrebbe potuto anticipare il cambiamento. Decise che d’ora in avanti sarebbe stato più vigile. Non avrebbe atteso il verificarsi del cambiamento, avrebbe invece confidato nel suo intuito e si sarebbe predisposto ad adattarsi. Fu così che pensò di fissare sul muro del corridoio la sua nuova massima: “annusa il formaggio spesso, così saprai quando sta andando a male.” Cammina cammina, giunse infine ad una Stazione. Sconosciuta. Vi entrò, ma era completamente vuota. Fu preso da sconforto e da paura… voleva rinunciare, tornare alla Stazione F e godere almeno della compagnia di Hem… Era confuso nel labirinto e non si sentiva per niente sicuro, inoltre sembrava fare un passo avanti e due indietro… cominciava anche a chiedersi se fosse realistico pensare di trovare del nuovo formaggio… Riuscì a proseguire grazie ad una frase che continuava a ronzargli in testa “Che cosa faresti se non avessi paura?” Si rese conto che i suoi timori erano dettati dai pensieri catastrofici che si portava dietro e questo lo aiutò a disfarsene e continuare il cammino (del resto era l’unica possibilità di trovare – eventualmente – del nuovo formaggio. Ritornare avrebbe escluso anche questa remota opzione). “Basta!” disse a se stesso “non voglio sentirmi indebolito dalle previsioni infauste che crea la mia mente! Mi limiterò a guardare dove metto i piedi…” e con questa spinta riprese il tragitto. Si focalizzò di nuovo sull’immagine di se stesso che trovava nuovo e gustoso formaggio, sulla contentezza e soddisfazione conseguenti e scrisse ancora sul muro: “Immaginarti mentre ti godi il nuovo formaggio ti conduce nel luogo dove trovarlo”. Il cammino fu lungo, vero è che sulla strada trovò pezzi di formaggio sparsi di ottima qualità, che molto gli piacquero e che gli permisero di riacquistare la forza necessaria per proseguire. Un giorno arrivò ad un’altra stazione sconosciuta. Si chiamava Stazione del Formaggio. Sulla soglia si intravvedevano briciole sparse. Entrò entusiasta e fu molto deluso quando si accorse che qualcuno era giunto prima di lui ed aveva esaurito la scorta. Haw era davvero esausto e demotivato. Stava accadendo ancora! Nonostante fosse sempre in cammino, niente formaggio... I suoi sforzi non venivano premiati… Fu solo una nuova riflessione a spronarlo a proseguire: dall’inizio del viaggio aveva trovato vari tipi di formaggio, seppur in minuscoli pezzettini. Se fosse rimasto alla Stazione F, questo non avrebbe potuto accadere. Ormai gli era dunque sempre più chiaro che il cambiamento è qualcosa di naturale ed inevitabile, sia che lo si desideri o no. Il vero rischio lo si corre quando ci si lascia cogliere di sorpresa. Così decise di scrivere sulla parete del corridoio: “ I vecchi convincimenti non ti conducono al nuovo formaggio”. Carico di ottimismo, aggiunse un secondo motto più avanti: “notare i piccoli cambiamenti al più presto aiuta ad adattarsi ai grandi che stanno per sopraggiungere”. Gradualmente Haw si sentiva sempre più tranquillo, non aveva più tanta paura della strada da percorrere e quando si sentiva giù, si focalizzava sull’immagine invitante di se stesso spaparanzato a gustarsi il nuovo formaggio, così si ricaricava. Un giorno scrisse sul muro: “prima lasci andare il vecchio formaggio, prima ne troverai di nuovo” Proprio in virtù del suo rinnovato stato d’animo, ad un certo punto del viaggio decise di tornare alla Stazione F da Hem . Gli offrì dei pezzetti di formaggio raccolti lungo la via. Si trattava di una qualità di formaggio diversa da quella a cui erano stati abituati e sperava che Hem lo gradisse. L’amico però, dopo averlo ringraziato del gesto, commentò “Non penso di volere del nuovo formaggio. Non è quello a cui sono abituato. Io voglio IL MIO formaggio, lo rivoglio indietro e non ho intenzione di cambiare fino a che non l’otterrò” Passò altro tempo. Haw riprese il cammino ed arrivò al punto più lontano a cui era giunto in precedenza. Un giorno, appena svoltato un angolo buio, si trovò all’ingresso di una nuova stazione. Si chiamava Stazione N. All’interno vi trovò una quantità industriale di nuovo fresco formaggio!! Era incantato, estasiato alla vista delle forme di ogni qualità disposte in alte pile! Per questo ci mise del tempo a riconoscere in un angolo gli amici Sniff e Scurry intenti a divorare formaggio con gusto! Le loro panciotte testimoniavano che i due dovevano essere lì da lungo tempo. Li salutò, calorosamente ricambiato. Tolse le scarpe da ginnastica, le legò al collo e si tuffò letteralmente nel nuovo formaggio anche lui! I due topolini risero e annuirono condividendo il suo nuovo atteggiamento. Fece un ultimo pensiero: esiste una paura sana, che aiuta a reagire al pericolo. Ne esiste però un’altra irrazionale, in grado solo di paralizzare l’azione. In quei giorni Haw rimase a lungo presso la Stazione N a rifocillarsi, di tanto in tanto, però, usciva in esplorazione del labirinto, per evitare di isolarsi di nuovo in una zona erroneamente ritenuta confortevole. Fu durante una piacevole sosta nella stazione che Haw notò dei passi provenire da un corridoio, sperò ardentemente che Hem avesse cambiato idea e, supportato dai messaggi lasciati lungo le pareti, stesse giungendo anch’egli alla stazione N. (segue articolo correlato) * - le parti in corsivo sono tratte dal testo originale

 
 
 

2. TOPOLINI, FORMAGGIO E CAMBIAMENTO

Post n°41 pubblicato il 04 Febbraio 2011 da francescalc.mi
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PERCORSO ATTRAVERSO LA SIMBOLOGIA NELLA FIABA CHI HA SPOSTATO IL MIO FORMAGGIO

La splendida fiaba di Spencer Johnson è una metafora dei vari atteggiamenti che gli individui assumono rispetto al cambiamento. C’è chi, guidato dall’istinto come Sniff, si avvia verso nuove soluzioni, chi come Scurry si attiva immediatamente all’azione, chi come Hem rifiuta il nuovo e chi come Haw, dopo un breve periodo di elaborazione, si muove verso ciò di cui sente necessità. Il formaggio rappresenta infatti il bisogno soggettivo di ciascuno e può riguardare qualsiasi sfera della vita di una persona: professionale, affettiva, sociale. In realtà, come ben sottolinea l’autore, i quattro personaggi possono anche descrivere, nel loro insieme, la complessità della personalità individuale e quindi, in questo senso, le modalità diverse che uno stesso soggetto mette in atto in ambiti differenti della sua vita o in tempi diversi della sua esistenza. Per quale ragione ai due ometti vengono affiancati dei topolini? Perché i roditori sono animali e quindi esseri guidati dalla proopria natura istintuale, viscerale, la quale, se non deve mai sostiture la cognizione razionale, di certo è auspicabile che sia in armonia con essa. Testa, cuore, pancia. La capacità di percepire le informazioni, raccolte in ogni distretto del nostro organismo, è sempre guida preziosa e veritiera nel percorso della nostra vita, specie nei momenti di dubbio o conflitto. In questi casi la ricerca spasmodica di un risolvimento, conforme alla sola ragione, può creare ulteriore confusione. Meglio fermarsi, guardarsi dentro. Ascoltare. Sarà più facile trovare una soluzione fedele a ciò di cui autenticamente abbiamo bisogno. La vita, nella fiaba è metaforcamente descritta come un labirinto, vale a dire una struttura architettonica estremamente complessa, composta da un'intricata sequenza di ambienti in cui risulta particalmente ostico orientarsi. Si tratta di una visione logocentrica dell'esistenza, in cui il ragionamento, la ratio, rappresentano le linee guida per districarsi nei menadri della vita. Nessuna sorpresa. Si tratta di una concezione antichissima, che affonda le sue radici nella cultura egizia, poi greca (si pensi al viaggio iniziatico di Teseo a Cnosso) e confluita infine nella spiritualità cristiana, in cui la redenzione è premio alla volontà umana di uscrire da una labirintica stroria di peccato senza direzione, né centro alcuno. Agli inizi del secolo scorso, qualcosa cambia. Il relativismo riaffiora in ogni ambito del sapere, scientifico (Einstein), letterario (Pirandello), artistico (surrealismo, astrattismo) si fa strada la convinzione che non esistano verità assolute a cui poter giungere attraverso un valido sforzo del pensiero. Wiettgenstein è tra i primi a sostenere che ogni nostra consapevolezza del mondo è frutto delle nostre percezioni e dunque soggiacente alla soggettività umana. Il labirinto assueme allora una connotazione diversa. Diviene zona ombra della coscienza (Freud), accessibile e sondabile solo parzialmente e non necessariamente con l'unico ausilio della ragione (es. sogni). Il labirinto di Johnson è un'esasperazione del concetto secondo cui l'esistenza va affrontata di petto. La vita ma morsa e , non a caso, lla capitale del mondo occidentale, è ancora per qualche tempo almeno, è la Grande Mela. Movimento e Celeberrimo il viaggio di Teseo nel labirinto di Cnosso è percorso iniziatico volto a sconfiggere il Minotauro, la Bestia famelica a cui venivano sacrificate le giovinette, producendo la rinascita di Creta.

QUANDO IL CAMBIAMENTO PARALIZZA… QUANTE COSE RIUSCIREMMO A FARA SE A DOMINARCI NON FOSSE LA PAURA Ci sono cambiamenti che auspichiamo e cambiamenti che volentieri eviteremmo, ma che le circostanze ci costringono ad attuare. In entrambi i casi, quando subentra la paura rimaniamo bloccati, veniamo sommersi da pensieri catastrofici e, qualche volta, da crisi psicosomatiche (dagli attacchi d’ansia, alle reazioni allergiche, il nostro organismo è molto creativo…). Che fare dunque?? Come muoversi?? Proviamo a trovare delle risposte… Il cambiamento fa parte della vita. Nulla rimane invariato, il che, per alcuni aspetti, è rassicurante. Quando le cose vanno tragicamente male, possiamo consolarci, sapendo che niente è immutabile… Certo è, che quando siamo sereni o semplicemente quando cambiare ci incute timore, vorremmo che questo dato di fatto non fosse così vero. La cosa migliore che possiamo fare quando paura ed impasse (… sì perché la paura blocca l’azione) hanno il sopravvento, è – in primis – fermarci a riflettere sui motivi della nostra ansia.

LE RAGIONI DELLA NOSTRA PAURA 1 INUTILE NEGARLA Spesso i manuali o gli articoli che si occupano dell’argomento tendono a motivare la persona a guardar oltre, a non farsi prendere dal timore, anche la favola di Johnson sembra in alcuni tratti sottendere questo concetto. Crediamo invece che alla paura - così come ad ogni altra emozione che l’organismo manifesta – sia fondamentale dare ascolto. Per chiarire: come è possibile intraprendere un viaggio importante senza prima controllare che ogni componente dell’auto con cui lo affrontiamo sia nelle condizioni ottimali per condurci alla meta? Le emozioni negative sono segnali che l’organismo invia e che pertanto meritano attenzione. Più conosciamo della nostra “macchina”, più possibilità avremo di muoverci in tranquillità. E se poi ascoltandoci scopriamo che a dominarci è la paura? Che cosa la determina? Esistono più risposte al quesito 1. Alla base del timore a fare ci può essere un’ insufficiente autoefficacia. Con questa definizione si fa riferimento alla scarsa convinzione circa la nostra capacità di saper metter in atto i comportamenti adeguati in una situazione data. In altre parole riguarda la persuasione di non saper gestire in modo opportuno le eventuali difficoltà che si potrebbero palesare. Quando fin da piccoli in famiglia si respira una sorta di timore rispetto all’ambiente circostante o quando le figure significative dell’infanzia si sostituiscono regolarmente al bambino nella certezza che non è in grado di farcela da solo, egli sviluppa idee disfunzionali riguardo alle sue potenzialità, convincimenti del tipo: “da solo, non sono capace”. Inoltre, non mettendo mai in atto le sue risorse, non si permette di accrescerle, di affinarle e ciò – come in un circolo vizioso – alimenta il senso di impotenza. 2. La paura di agire può altresì essere causata da eventi traumatici che hanno segnato l’esistenza e che hanno “bloccato” la persona rendendola insicura. 3. Anche il conflitto psicologico causa resistenza al cambiamento. Come se, nel profondo alcuni individui alimentassero una contrapposizione tra la tendenza spontanea al fare ed una altrettanto forte a rimanere nell’immobilismo. Tale dinamica origina dal copione di vita, in particolare dalle decisioni inconsce che il soggetto ha preso fin da piccoli circa quale debba essere il suo destino (rimanere solo, non abbandonare qualcuno, evitare di crescere, di avere successo, di entrare in intimità..) Se la nostra difficoltà rispetto al cambiamento ci procura un disagio paralizzante ed in grado di compromettere seriamente la vita quotidiana e la salute, un breve percorso terapeutico di crescita personale può adeguatamente risolvere il problema. Attraverso il lavoro con il terapeuta è possibile infatti far emergere i motivi effettivi del blocco e procedere alla costruzioni di nuovi schemi cognitivo- affettivo più adattivi. Quando invece il nostro timore rispetto al cambiamento è meno debilitante, è importante che da noi stessi acquisiamo consapevolezza ed impariamo a rispettare e a prestare ascolto alla nostra paura. Conoscerne natura e confini ci consente di capire da dove partire per affrontare il nuovo con successo.

TOPOLINI, FORMAGGIO E CAMBIAMENTO IL PUNTO DI PARTENZA Uno dei racconti più geniali riguardo a questo tema è il bestseller dal titolo “Who moved my cheese?” da cui è stata tratta e rielaborata la fiaba di questo libro. Secondo l’autore i topolini, guidati dal puro istinto, trovano la soluzione. Le personcine al contrario rimangono bloccate da pensieri ed emozioni. A tale proposito Johnson scrive “the two littlepeaple (…) used their complex brain, filled with beliefs and emotions, to search for a very different kind of cheese (…) beliefs and emotions took over and clouded the way they look at things. (Le due personcine (…) usavano il loro sofisticato cervello, pieno di molte convinzioni ed emozioni, per cercare un diverso tipo di formaggio (…) convinzioni ed emozioni assumevano il controllo ed offuscano il modo a cui guardavano alle cose). Certo, i pensieri disfunzionali - vale a dire quelle convinzioni non oggettive, ma basate su stereotipie mentali, su razionalizzazioni erronee e paure che non trovano affatto riscontro nella realtà – inficiano la nostra capacità di giudicare le situazioni e condizionano di conseguenza il comportamento in modo negativo. Tuttavia siamo in disaccordo con Johnson nell’associare tali convincimenti alle emozioni. Sensazioni, emozioni e sentimenti non appartengono alla sfera razionale della nostra psiche, bensì all’intuizione, vera “intelligenza dell’organismo” (F. Perls). Lo si ribadisce. Il fatto stesso di percepire un’emozione seppur spiacevole, qualsiasi essa sia (rabbia, paura, tristezza, vergogna, impotenza...), ha valore perché, per suo tramite, l’organismo ci sta manifestando un disagio. Passare oltre, non soffermacisi, non dare ascolto a ciò che accade dentro di noi, non è affatto una modalità funzionale al cambiamento. Viceversa, essere in contatto col proprio organismo ci permette di distinguere cosa ci procura tale emozione, quale significato essa abbia e l’assunzione piena di questa consapevolezza fornirà ottime indicazioni su COME muoverci verso il nostro obiettivo. Per evitare di rimanere in ambito puramente teorico, si immagini il caso di una persona che teme il volo. E’ probabile che svilupperà convinzioni disfunzionali nell’imminenza della partenza “se non riesce il decollo? se l’aereo precipita? Se mi viene un attacco d’ansia per via della claustrofobia? Se ci sono turbolenze forti?...” Questi sono pensieri disadattivi, infatti non tengono conto del dato di realtà (le possibilità di catastrofe sono irrisorie - e pari a quelle a terra! - alla mia ansia posso imparare a far fronte...) e inibiscono l’azione. Tali convincimenti disadattivi sono correlati ad emozioni (ipotizziamo di acuto timore, di impotenza...) e sensazioni fisiche (sintomi neurologici e neurovegetativi quali dispnea, tachicardia, insonnia…) che, se non ascoltate, se rimosse, è probabile che si attiveranno una volta in aereo, producendo conseguenze quali il classico (e spiacevolissimo!) attacco di panico. Se siamo noi quel passeggero, è presumibile che in futuro non ripeteremo l’esperienza tanto facilmente, convincendoci una volta di più di quanto terrificante sia volare. Il che significa alimentare ulteriormente le nostre convinzioni disfunzionali. Che fare? DAR SENSO AL PROPRIO VISSUTO Cosa mi sta succedendo? Cosa sto provando? E soprattutto: come posso farvi fronte? Dare risposta a queste domande rappresenta il primo passo per affrontare il cambiamento in modo adeguato.

ULISSE, IL SERF ED I PASSI VERSO L’AZIONE Johnson ritiene che la capacità di adattamento al continuo mutamento dell’esistenza sia un requisito indispensabile per sopravvivere. In quest’ottica i due topolini, che cominciano ad annusare e correre nel labirinto, non appena scoperta la sparizione del formaggio, adottano la strategia migliore. C’è del vero. Saper stare nel qui e ora di quanto ci accade, tener ben saldo il volante della nostra metaforica vettura per indirizzarci nella direzione migliore è un validissimo punto di vista. Per cui, traduciamo volentieri il consiglio di Johnson in regola: 2 STARE CENTRATI SU QUANTO ACCADE NEL PRESENTE (DEL PASSATO NON SI PUO’ DISPORRE E SUL FUTURO NON E’ DATO INTERVENIRE) Ma che c’entra Ulisse con tutto ciò? Secondo F. Julien, l’astuzia e l'abilità dell’uomo Ulisse consistevano nel saper individuare i lati favorevoli della situazione per poi trarne frutto. Il che significa rimaner vigili ed attenti rispetto a quanto ci accade dentro ed intorno. 3 ASCOLTARE E DAR SIGNIFICATO ALLE NOSTRE SENSAZIONI/EMOZIONI Se siamo distratti dalle nostre ipotetiche strategie mentali o siamo assorbiti in congetture circa il passato o il futuro, rischiamo di perderci i vantaggi, sfruttabili, del presente. Ancora. Gli antichi greci avevano identificato in Metis la dea del fiuto. Zeus l'aveva fatta sua sposa e poi divorata per impossessarsi della sua dote... ed in effetti trattasi di qualità divina! Saper fiutare attorno, saper surfare (Julien) la vita, saper cogliere ciò che di positivo avviene per trarne beneficio e ciò che vi è di negativo per poterlo rimuovere ove possibile, è il modo migliore per avviare saggiamente il cambiamento. E saper riconoscere ciò che per noi è nutriente o velenoso implica, al contempo, il sapersi ascoltare. Questo concetto non pare corrispondere alla flessibilità così come la descrive Johnson, secondo cui essere adattabili al cambiamento sembra significare sapersi gettare di corsa nel fare, essere assolutamente plasmabili, duttili e pronti ad ogni modificazione ambientale e… the sooner the better, il prima possibile (così fanno i due topini Sniff e Scurry). Il concetto espresso da Julien è, a nostro avviso, più sottile: Immaginiamo di aver individuato l’esigenza di intraprendere un cambiamento. Immaginiamo poi di aver ascoltato quali emozioni proviamo rispetto a tale novità. Immaginiamo ancora che esse siano di timore. Immaginiamo di avergli dato autenticamente ascolto e di aver scoperto che alla base vi sia la nostra convinzione di non saper dominare ciò che accadrà. Infine immaginiamo… di non saper come gestire le emozioni di paura emerse e quanto abbiamo capito di esse!!: A volte rimanere nella confusione è più saggio che intraprendere immediatamente un’azione “Se riesci a diventare consapevole di ogni volta che entri in uno stato di confusione, è proprio questo il fattore terapeutico. E anche in questo caso, è la natura a prender in mano la situazione. Se capisci questo e resti con la tua confusione, la confusione si dissolve da sola. Se invece cerchi di dissolverla, pensi come potresti farlo, se mi chiedi una ricetta per farlo, non fai che aggiungere confusione alla confusione.” (Perls). S'intenda, non intendiamo certo fare un elogio dell’immobilismo, riteniamo però che agire con troppa rapidità possa, in talune circostanze, essere controproducente. Pensiamo però che muoversi secondo il proprio ritmo personale sia invece la mossa più appropriata. Kenneth Blanchard nella prefazione di “Who moved my cheese?” scrive: “While in the past we may have wanted loyal employees, today we need flexible people who are not possessive about the way things are done around here” And yet, you know, (…) the changes occurring all the time at work or in life can be stressful, unless people have a way of looking at change that helps them understand it.” (Se in passato venivano richiesti dipendenti fedeli, attualmente ciò che cerchiamo è la flessibilità nelle persone, gente non possessiva circa la propria posizione. E ancora, si sa, (…) il cambiamento che capita in ogni momento della vita professionale e privata può essere stressante se gli individui non guardano ad esso in modo da capirlo. Il quadro descritto da Blanchard è davvero puntuale e realistico. Purtroppo, aggiungiamo noi. La società attuale plaude all’abilità di adattarsi all’incertezza (professionale, affettiva, pubblica), ma questo non significa che ciò sia necessariamente un progresso. Tale vorticoso dinamismo sociale, che è di fatto realtà, non avvantaggia l’uomo e la qualità della sua esistenza. Se è pur vero che vivendo in questo contesto è importante saperci “navigare”, è altrettanto doveroso riportare al centro la persona, rispettandone le dinamiche organismiche e tener dunque in debito conto: il bisogno della natura umana, teso ad un minimo di stabilità i tempi fisiologici necessari all'organismo per effettuare il cambiamento. HAW ED HEM – COME MUOVERCI VERSO IL CAMBIAMENTO Riassumendo: per effettuare un cambiamento efficace e duraturo, è utile “ascoltarsi” al fine di individuare quali siano gli eventuali blocchi emotivi che ci impediscono di procedere in direzione dell’obiettivo e provvedere a smuoverli poter assumere consapevolezza dei nostri schemi cognitivi disadattivi per innescarne di nuovi più funzionali rimanere vigili nel qui e ora, centrati sul presente, per poter cogliere quanto di positivo ed allontanare, nelle nostre possibilità, quanto di negativo notiamo attorno a noi rispetto al cambiamento che vogliamo intraprendere Con questo bagaglio di consapevolezze siamo pronti a muoverci…come? 4 SEGURE IL FLUSSO Riteniamo che non vi sia una strategia valida per tutti. Di più. Riteniamo che pianificare una strategia non sia la scelta più saggia: Immaginiamo di pensare in astratto ai passi da compiere in vista dell’obiettivo. Di farlo con cura e scrupolosità (esistono fior di manuali ed articoli anche su questo tema). E poi di iniziare ad attuare tale strategia nella pratica. La realtà in cui ci troveremo ad agire non potrà mai corrispondere a quella ipotizzata. Gli imprevisti, gli inconvenienti ci costringeranno a modificare, adattare, rallentare o accelerare il nostro progetto iniziale. Se siamo fortunati, la nostra astrazione sarà attuabile. Ma esiste la non remota possibilità di andar incontri a delusioni e frustrazione qualora non lo sia. Quante volte abbiamo infatti sentito ripetere la frase “che sfortuna, non doveva andare così”. E’ probabile che la fortuna c’entri relativamente: siamo abituati a mettere a punto strategie a priori, vale a dire a formulare un’esatta immagine della situazione in cui andremo ad attuare il piano, basandoci sull’implicita presunzione di poter esercitare il controllo su ciò che avverrà senza renderci conto che il fallimento non è dato dalla sfortuna, bensì dall’essere partiti da questa prospettiva fuorviante: forse è meglio realizzare che, sugli eventi della vita, il controllo che possiamo esercitare è assai ridotto... Esistono modalità alternative di gran lunga più efficaci. Un esempio. Se ci limitassimo a rimanere centrati su noi stessi e sull’ambiente circostante; se prestassimo attenzione e prendessimo coscienza dei nostri timori per poter dar loro risposta adeguata, potremmo disporre di una serie di risorse estremamente valide e bastanti ad intraprendere il viaggio verso il cambiamento, sperato o necessario. Allora, qualsiasi cosa accadrà, la centratura su ciò che avviene in noi ed attorno a noi, ci farà essere accorti e capaci di muoverci seguendo il flusso in modo adeguato. Qualsiasi ostacolo o pericolo, reale o immaginario incontreremo, la consapevolezza circa le nostre paure e le nostre potenzialità ci favorirà nel superarli. Seguire il flusso dunque... facile a dirsi… ma anche a farsi! Riflettiamoci con l’aiuto di un esempio: alla guida dell’auto è perfettamente inutile che ci si concentri sulle curve che si dovranno affrontare a 200km dalla tangenziale in cui ci si trova al momento. Rimanere nel presente, vigili e pronti rispetto a ciò che sta accadendo ora in tangenziale (magari prestando attenzione al traffico attorno a noi!), questo solo ci permetterà di arrivare sani e salvi alle curve fatidiche. Se siamo altrove rispetto a quanto accade, se siamo “avanti” rispetto a ciò che stiamo vivendo ( o anche proiettati indietro!), possiamo distrarci rispetto a quello che nel qui e ora sta succedendo, e QUESTO può essere fatale. Stare nel flusso significa evitare che ciò accada. 5 FIDARSI DI SE STESSI Fidarsi di se stessi, delle proprie risorse, ma anche conoscere i propri limiti è una maniera ottimale per affrontare il cambiamento. Torniamo all’esempio della guida. Se impariamo a conoscere la nostra auto, a riconoscerne punti di forza e debolezza, ciò renderà certo più sicuro il nostro viaggio. Essere consapevoli circa quel problemino ai freni della nostra vettura può salvarci la vita! Non conta che la vettura sia vecchia o nuova, potente o meno, conta che, qualunque auto sia, il conducente ne conosca ogni segreto. Questo lo porterà tranquillamente a destinazione. Lo stesso vale per il nostro organismo. 6 MUOVERSI A MODO PROPRIO La bella favola di Johnson è costruita sulle diverse modalità con cui i due topini e le due personcine affrontano il cambiamento quando viene sottratto loro il formaggio. L'autore ha proprio ragione. Che ci piaccia o no, non ci è dato di rimanere comodi ad impigrirci nella buona sorte… prima o poi il formaggio, come qualsiasi cosa ci stia a cuore, può venir meno, il che ci costringerà a dover cambiare e ricercare altrove ciò di cui necessitiamo. Se Scurry, il primo topolino, indossa pronto le scarpette da ginnastica e comincia a correre nel labirinto, se Sniff inizia a percorrere i corridoi sconosciuti annusando in giro per orientarsi verso il suo obiettivo, le due personcine, in modo particolare Hem, hanno reazioni che Johnson in parte o totalmente non sembra reputare congeniali al raggiungimento della meta. Prima osservazione. Entrambi si sono fatti trovare impreparati: nessuno dei due aveva notato che il formaggio da giorni scarseggiava. Rimanere vigili significa aver occhi per guardare. Capita sovente che non si utilizzi questa risorsa di cui tutti disponiamo. Eppure, se ce ne servissimo, potremmo evitare il panico di dover effettuare il cambiamento all’improvviso, il che può essere destabilizzante. L’autore descrive efficacemente le reazioni dei due. Hem non si muoverà mai dalla sua postazione, convinto che il formaggio gli debba essere restituito e spaventato dal dover vagare in un territorio a lui ignoto come il labirinto. Haw, dopo aver analizzato la situazione a lungo… “finally one day began laughing at himself. “Haw, Haw, look at us. We keep doing the same things over and over again and wonder why things don’t get better” (…) He asked Hem “where did we put our running shoes?” (finalmente un giorno Haw cominciò a ridere di se stesso. “Haw guarda come siamo messi. Continuiamo a fare le stesse cose sempre allo stesso modo e ci meravigliamo che la situazione non migliori” (…) Haw chiese a Hem “dove abbiamo messo le nostre scarpette da corsa?”). Da quel momento in poi, prima con riluttanza e paura e poi sempre più confidente, egli andrà alla ricerca del formaggio fino a che lo troverà.

COME EFFETTUARE IL “DECOLLO”? Chi dei quattro personaggi ha attuato la scelta migliore? Chi è stato più saggio? Scurry, che è passato subito all’azione cominciando a correre nel labirinto senza pensare? Sniff, che ha seguito l’istinto fino al formaggio? Haw, che dopo lunghe analisi, pur spaventato, ha seguito gli altri? Hem, che è rimasto a protestare barricato nella postazione, aspettando che il formaggio in futuro ricompaia? Ciascuno di noi ha una sua risposta a tali quesiti. Ed ogni risposta è legittima. Ognuno ha diritto a muoversi secondo la propria indole: Johnson giustamente sottolinea che le elaborate analisi di Haw gli hanno fatto perdere solo tempo (la descrizione dei meccanismi mentali della personcina è mirabile!). Alla fine ha dovuto assumere consapevolezza circa le origini delle sue paure e, sulla base di tale consapevolezza, muoversi comunque nel labirinto. Ancora Johnson è nel giusto quando descrive Scurry e Sniff - che per primi arrivano a trovare una nuova scorta di formaggio – come i più sagaci tra i quattro protagonisti. Infine Johnson ha ragione quando suggerisce che il comportamento di Hem - tutto preso a lamentarsi ed imprecare perché “It’s not fair!” “Non è proprio giusto!” - non lo condurrà al nuovo cibo, può solo confidare che qualcosa, indipendentemente da lui, accada. Se è dunque vero che ognuno ha diritto a muoversi secondo i propri tempi e la propria indole, ciò deve accadere: 7 A PATTO CHE CI SI ASSUMA LA RESPONSABILITA’ DI CIO’ CHE SI SCEGLIE. Il termine inglese responsability come amava precisare Perls, deriva da response ability, capacità di risposta. E’ importante che ciascuno di noi, si muova verso il cambiamento nella maniera che ritiene più confacente alla sua attitudine, perché ciò che conta è la “capacità di essere quel che si è”, senza dover adottare una modalità comportamentale perché “è la più giusta (per altri)”, perché “sarebbe opportuno”, perché “da vincente”, perché “si deve” o ancora per essere accettato, per paura di essere respinto, per ricevere riconoscimento... sono tutte zavorre!! Se le portiamo con noi saremo già carichi all'inizio del viaggio. Bene. Eppure è altrettanto importante essere consapevoli che, qualsiasi sia la nostra personale scelta circa il come muoversi, essa è anche una NOSTRA PERSONALE RESPONSABILITA’. La fortuna, il destino, il fato non c’entrano nulla. E allora spazio al silenzio. Al vuoto fertile. All’ascolto di quanto accade dentro. Amorevolmente, disposti ad “accogliersi” e muoversi in modo naturale, seguendo il flusso di quanto accade dentro e fuori di noi 8 IO SONO QUELLO CHE SONO (Perls) E decido di evolvere al mutamento a modo mio o persino di rimanere immobile assumendomene la responsabilità ed accettando le conseguenze. Questo il primo grande “cambiamento” , un cambiamento di prospettiva. Forse alla fine del viaggio avremo trovato ciò di cui abbiamo necessità… forse altro, che non avevamo contemplato, ma che si può rivelare altrettanto nutriente per noi… di certo ogni viaggio porta a qualcosa di nuovo. A tale proposito, in chiusura, la bella introduzione della favola, scritta da A.J. Cronin

Life is not and easy corridor along Which we travel free and unhampered, But a maze of passages, Through which we must seek our way, Lost and confused, now and again Checked in a blind alley. But always, if we have faith, A door will open for us, Not perhaps one that we ourselves Would ever have though of, But one that will ultimately Prove good for us.”*

*La vita non è un corridoio dritto e semplice da percorrere liberamente e senza ostacoli, ma un labirinto di passaggi, attraverso cui dobbiamo cercare la nostra strada, persi e confusi, in continuazione, verificando anche i vicoli ciechi. Ma sempre, se abbiamo fiducia, una porta prima o poi si apre per noi, non forse quella che speravamo, ma una che, alla fine, si rivela essere buona per noi.”

 
 
 

DISMORFOFOBIA

Post n°35 pubblicato il 05 Aprile 2008 da francescalc.mi
 
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QUANDO LA RICERCA DELLA PERFEZIONE CORPOREA

SOTTENDE MOLTO DI PIU’

LA DISMORFOFOBIA

 


Ciò che caratterizza la malattia è la preoccupazione esasperata per un proprio difetto fisico reale o la convinzione immaginaria di essere affetto da una qualche anomalia corporea(DSM IV). Il disagio provocato da questo pensiero disfunzionale è tale da inficiare la vita affettiva, sociale e professionale del soggetto. Egli infatti, pur rendendosi conto di quanto sia sproporzionata la sua  preoccupazione, non riesce a gestirla.Il problema può essere focalizzato sui tratti del volto (rughe, cicatrici, rossore, acne, eccessiva peluria, naso), della testa (stempiatura, diradamento..), coinvolgere tutto il corpo (seno, fianchi, gambe..)o il peso. Il decorso della malattia è per lo più continuativo ed il disagio può divenire sempre più persistente, salvo momenti in cui sembra attenuarsi.

Insorge in genere nel periodo adolescenziale, a causa dei cambiamenti fisiologici connessi al periodo evolutivo e può associarsi ai disturbi dell’umore e del comportamento alimentare.

Chi si sottopone ad interventi di chirurgia estetica, specie se ripetutamente (rifacimento labbra, seno, zigomi, trapianto di capelli) può essere affetto da dimorfismo. Il sintomo, in questi casi, permane dopo l’operazione o si sposta su altre aree bersaglio del corpo.Anche in coloro che si dedicano ad attività fisiche legate allo sviluppo muscolare, alla tonicità e al modellamento del corpo in modo esasperato, possono essere affetti da dimorfismo ed il rischio è che ricorrano a farmaci per potenziare rapidamente la “trasformazione” del corpo. Poiché la preoccupazione circa la propria condizione fisica è esasperata e dolorosa, la persona tende a non parlarne, a vergognarsene al punto di evitare il contatto sociale per nascondere la propria presunta deformità. Va detto infatti che il peso culturale dell’avvenenza fisica nella società attuale (nonché nel cotesto ambientale in cui il soggetto vive) non fanno che promuovere ed aggravare il problema.L’ansia generata dalla persistenza del pensiero disadattivo spinge inoltre il soggetto a controllarsi e curarsi eccessivamente mediante interventi ritualizzati di pulizia, cosmesi, applicazione di prodotti.

Le cause

Il sintomo rappresenta una modalità di scaricare l’ansia repressa causata da pensieri ed emozioni disfunzionali (vale a dire meccanismi cognitivi solo all’apparenza logici, in realtà viziati da conflitti inconsci e privi di ogni fondamento). Per questo l’intervento terapeutico più semplice è volto a scardinare il loop mentale che condiziona e crea enorme disagio al paziente.

Le cause profonde

Presupposto:

Che cos’è il Se’?

E’ il processo attraverso cui il nostro organismo entra in contatto con l’ambiente per soddisfare i propri bisogni, fisici e psichici, per poi elaborare ed integrare l’esperienza.Quando il processo è sano, esso avviene sulla base di due funzioni specifiche:

§         l’assimilazione di ciò che l’organismo “sente” nutriente, buono per sé e che pertanto può essere accolto

§         l’alienazione, il rifiuto di ciò che è nocivo, diverso da sé, velenoso e va allontanato


L’interazione col mondo avviene a tutti i  livelli di esperienza, vale a dire sul piano corporeo, emotivo, cognitivo, sociale. Il benessere è dato quindi dalla piena disponibilità della funzione di contatto.Quando parte della funzionalità organismica viene persa, insorge il disagio.

Consideriamo ora specificatamente la funzionalità corporea, vale a dire il contatto dell’Io corporeo con l’ambiente. Essa implica la capacità di “sentire” e coinvolge l’esperienza sensoriale ed emotiva. I sentimenti di tristezza comportano ad esempio sensazioni di pesantezza e calore, tensione del diaframma, lacrime agli occhi.. I sentimenti di eccitazione determinano l’espansione del torace, tremore all’addome, e qualcosa che fluisce negli arti.

Quando il meccanismo si inceppa…

Quando c’è conflitto tra l’Io e l’ambiente, si può giungere a dissociare se stessi dalle sensazioni corporee nel tentativo di non vivere emozioni ritenute dolorose.Il rinnegamento varia da un leggero allontanamento da specifiche sensazioni corporee ad una vera e propria desensibilizzazione, fino ad arrivare alla depersonalizzazione.Il grado di ripudio dell’esperienza corporea è correlato alla gravità della patologia.Nella depersonalizzazione esiste una grave distorsione della percezione del proprio corpo.Qualora del corpo si faccia esperienza, esso non viene vissuto come pienamente “Io” ma come una macchina da viziare, modificare, esercitare, sfiancandolo e considerandolo un oggetto fuori da sé.La persona è tanto focalizzata sulla propria realtà fisica oggettivizzata da ignorare altri aspetti del proprio essere: cognitivo, immaginativo, spirituale...Un esempio pratico, l’esigenza di alienare tali  parti del sé implica che si viva il proprio organismo come una casa di cui non si vogliono vedere alcune stanze. Poiché non è possibile demolirle, esse vengono sigillate e dimenticate.Allo stesso modo, poiché risulta impossibile liberarsi da alcuni aspetti di sé, essi vengono disconosciuti, rinnegati.. ma non potendo scomparire riaffiorano sotto forma di sintomi producendo il disagio psichico.Ciò è quanto accade al soggetto affetto da dismorfismo. La percezione somatica è distorta. Il corpo è vissuto in modo disfunzionale, vale a dire come un’entità separata dai propri vissuti interiori che rimangono sconosciuti, sepolti e non connessi all’esperienza corporea se non attraverso il sintomo.

Quale intervento?

L’intervento implica la graduale risensibilizzazione. In un ambiente accogliente e rispettoso delle difese personali, è necessario con gradualità recuperare le parti del sé disconosciute. Sostenendo il soggetto ad approcciare l’esperienza di contatto con il sé e la realtà esterna in modo adattivo.Tornando all’esempio della casa, riaprire le stanze abbandonate ed inondate da buio e polvere significa restituire spazio, luce, aria pura e poter usufruire al cento per cento delle risorse della casa stessa.

Recuperare le parti rinnegate del sé, vuol dire aiutare la persona a tornare a vivere le proprie potenzialità, tornare ad esperire un contatto pieno in primo luogo con il proprio mondo interiore e con il proprio Io corporeo; in seconda istanza con il mondo, un contatto fatto di sensazioni, pensieri, emozioni e comportamenti adeguati al contesto, affinché il soggetto riacquisti benessere e voglia di vivere.

Il counseling Integrato

Nel conseling integrato l’utilizzo dell’approccio gestaltico ed l’EFT (Emotinally focused therapy) risultano particolarmente indicati al trattamento.

L’intervento parte dall’esperienza somatica nel qui e ora per accedere attraverso il sintomo e l’uso del corpo a blocchi e conflitti inconsci. Ciò permette infatti di  giungere all’espressione consapevole e all’elaborazione del materiale emerso. Quando ciò avviene e solo allora, diventa infatti possibile ristrutturare il sé mediante l’assimilazione di modalità adattive nuove così che il soggetto può tornare a viversi e vivere il contatto con l’ambiente in modo sano ed equilibrato, in altri termini a sperimentare un intenso ed autentico  benessere.




































































































 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Post N° 33

Post n°33 pubblicato il 27 Marzo 2008 da francescalc.mi
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QUANDO LA PAURA DI AMMALARSI DIVIENE DISTURBO INVALIDANTE..

L’IPOCONDRIA - STRATEGIE DI INTERVENTO

E’ capitato a tutti di preoccuparsi per disturbi fisici immaginari. Quando tale paura irrazionale diviene invalidante, si parla di ipocondria.

La malattia origina da sensazioni corporee “reali” che vengono interpretate in modo distorto dal soggetto e lette come sintomi patologici.

Alla base di tale vissuto vi sono distorsioni cognitive attraverso cui il paziente decodifica le proprie percezioni fisiche, catalogabili, queste, in tre categorie:

ü       funzionamento dell’organismo (coinvolgendo gli apparati cardio-vascolare, gastro-intestinale...)

ü       ferite di poca importanza (una leggera influenza o un taglietto possono scatenare reazioni allarmate)

ü       sensazioni meno definite (stanchezza, cuore affaticato, battito irregolare…)

L’ipocondriaco è incline ad interpretare ognuno di questi segnali corporei come sospetto, preoccupante,  spia della presenza di una patologia in corso o imminente.

Si è accennato alle distorsioni cognitive. Con tale definizione si intende  descrivere l’utilizzo di meccanismi di pensiero solo all’apparenza logici, in realtà irrazionali, viziati da conflitti inconsci e basati su dati incerti.

Il disturbo diviene particolarmente invalidante quando associato ad ansia generalizzata, attacchi di panico, depressione e quando il timore di ammalarsi lascia spazio alla convinzione di aver contratto una patologia grave .

Caratteristica primaria del disagio, la persistenza di pensieri angoscianti e disfunzionali nonostante le rassicurazioni mediche e gli esami diagnostici.

Di più. L’insoddisfazione rispetto alla diagnosi clinica ottenuta (c’è stato un errore?  saranno stati accuratamente eseguiti? qualcosa è sfuggito?) innesca un circolo vizioso di accertamenti che alimenta i pensieri ossessivi. Il soggetto si documenta da sé, trova convalida ai suoi dubbi nelle conversazioni che intrattiene, conferma il suo timore ad ogni dolorino sospetto.

Inoltre l’ipocondriaco, focalizzatosi sui pensieri ossessivi, si aspetta considerazione per la propria condizione da parte di familiari ed amici, mettendo spesso a dura prova le proprie relazioni affettive, amicali, professionali (quando il disagio interferisce con l’efficienza lavorativa).

L’ipocondria va distinta dal disturbo ossessivo compulsivo (OCD) in cui la fobia è correlata al timore irrazionale di venir contagiato o contagiare altri ed è associato alla presenza di rituali volti a scongiurare il rischio (pulizia, lavaggio, evitamento di luoghi..).

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Sul piano psicodinamico, l’ipocondria scaturisce da un conflitto inconscio causato da rabbia retroflessa. I sentimenti non vengono cioè diretti verso le persone o le situazioni che li hanno causati, bensì trattenuti e rimossi generando sensi di colpa.

Tale modalità disfunzionale origina dal modo in cui il soggetto ha imparato, nel corso dello sviluppo, a gestire le proprie emozioni. E’ possibile pertanto intervenire facendo sì che acquisti consapevolezza circa il suo modo di reprimere gli impulsi di rabbia ed impari ad esprimere in maniera adeguata i propri vissuti.

Affinché ciò sia possibile può essere necessario agire fortificando il Sé fragile del soggetto ed in particolare la sua parte adulta, liberandola dall’ ingerenze di ingiunzioni, divieti e regole assimilati nel corso della propria crescita.

Qualora il disturbo si accompagni a depressione o attacchi di panico, il supporto terapeutico può essere coadiuvato da un intervento farmacologico che,da solo, risulterebbe invece efficace limitatamente al periodo del trattamento.

Accade che eventi traumatici o stressanti, quali la perdita di una persona cara, facciano peggiorare la malattia. Anche in questo caso l’acutizzarsi  del disturbo può essere dovuto dall’incapacità ad elaborare ed esprimere i propri vissuti emozionali che rimangono intrappolati, “indigeriti”, non metabolizzati trovando nell’ipocondria una valvola di sfogo.

La stessa dinamica può generare in concomitanza attacchi di panico, che vanno letti di conseguenza come spie di un sistema che non funziona in modo equilibrato e necessita di un intervento terapeutico in grado di sviluppare modalità più adattive di entrare in contatto con il mondo.

In ultimo, è necessario accennare al fatto che l’ipocondriaco, proprio perché convinto della veridicità delle sue sensazioni, difficilmente intraprende spontaneamente un percorso terapeutico.

Spesso accade che vi ricorra per risolvere problematiche diverse (attacchi d’ansia, depressione…) e che solo così apra la via ad un intervento che sani anche il disagio legato all’ipocondria.

Vista la difficoltà a che un soggetto ipocondriaco richieda una terapia, spesso risulta vincente la cooperazione sinergica di ambiti clinici differenti. Laddove uno psichiatra intraveda la necessità di un sostegno di counseling o di psicoterapia ed effettui un invio, il disagio, per quanto ostico può essere curato.

 
 
 

Post N° 31

Post n°31 pubblicato il 23 Marzo 2008 da francescalc.mi
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OBESITA’

LE PREMESSE AFFINCHE’ UNA DIETA POSSA DIRSI DAVVERO EFFICACE

L’obesità o eccessivo soprappeso è una condizione estremamente limitante la vita della persona sia sul piano fisico che psicologico.

Per questo un intervento limitato all’ambito corporeo può non essere efficace quanto un sostegno olistico alla persona che tenga conto cioè dell’inscindibile connessione tra mente e corpo.

Quante persone, pur perdendo peso mantengono un forte disagio causato da una persistente insoddisfazione corporea? Quanti trascorrono un’intera esistenza alternando diete rigide a periodi fuori controllo in cui recuperano il  peso iniziale, la cosiddetta “sindrome della fisarmonica”?

Quando ciò accade?

Quando si interviene tenendo conto unicamente del dato fisico – il peso corporeo -  e non si verifica prioritariamente se il disagio è connesso al corpo o alla mente.

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Sul piano psichico la percezione che abbiamo del nostro corpo non è mai obiettiva ma mediata dal nostro sistema cognitivo ed emotivo e legata alla sensazione soggettiva di noi stessi, dello spazio in cui ci esprimiamo, della modalità mediante cui entriamo in contatto con gli altri ed andiamo nel mondo.

A questi aspetti vanno aggiunte le influenze di tipo culturale, perchè gli stimoli ambientali influenzano inevitabilmente la nostra percezione corporea ed il livello di soddisfazione conseguente.

Partendo da questi presupposti cercheremo ora di delineare l’origine psicologica del disturbo, al fine

ž          di rendere evidente come la nostra storia personale condizioni l’immagine corporea che abbiamo di noi stessi

ž          di mostrare una prospettiva efficace da cui procedere per effettuare un intervento davvero utile.

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L’impostazione psicoanalitica della crescita evolutiva prevede fasi di sviluppo il cui successo porta al superamento delle stesse e coincide con la formazione della personalità adulta. Viceversa, problematiche inerenti a ciascuno stadio sono causa di fissazioni o regressioni i cui effetti permangono nell’adulto, divenendo costituenti di personalità.

Nei primi anni di vita la modalità di relazionarsi all’ambiente è connessa alla bocca, veicolo di nutrimento e piacere. La madre “nutrice”, costante, affettiva, capace di contenimento gratifica il bisogno del bambino permettendo il superamento della fase evolutiva orale. Uno sviluppo adeguato di tale stadio permetterà all’adulto di saper dare  e ricevere, di entrare in contatto con l’altro in modo sano ed equilibrato.

Una relazione ambivalente, incostante, anaffettiva con la madre potrà essere invece causa di comportamenti regressivi e di forte dipendenza dalle figure di attaccamento nella vita adulta. La psicoanalisi interpreta queste dinamiche come riedizioni dell’ antica relazione conflittuale con la madre. Allo stesso modo ricorrere al cibo diviene una strategia compensativa in situazioni emotivamente frustranti o di vuoto esistenziale e l’atto di “ingerire” assume il valore di un “atto liberatorio”.

Daagli anni ’50 in poi, le ricerche di J. Bowlby e collaboratori (Ainsworth 1977) sullo sviluppo dell’attaccamento nella prima infanzia confermano l’importanza delle figure genitoriali nella formazione della personalità. In particolare un attaccamento “ansioso – ambivalente” caratterizzato dall’incostanza della figura materna, da un suo contenimento discontinuo, dall’esercizio di un controllo anaffettivo o iperprotettivo  genera una personalità compiacente (per ricevere accoglienza), bisognosa di accudimento (quello stesso mai completamente ottenuto nell’infanzia) dipendente ed insicura. La fame d’amore è insaziabile per questo adulto, che, appena pacificato, né ha bisogno di nuovo a verifica del proprio valore. Il cibo, in tale contesto, può rappresentare dunque un sostitutivo di bisogni affettivi insoddisfatti.

Da tali ricerche emerge il ruolo fondamentale dei primi attaccamenti nello sviluppo della personalità. La qualità delle relazioni  e l’espressione emotiva all’interno del nucleo familiare  vincolano in modo massiccio lo sviluppo dei figli. Condizioni di solitudine interiore, vuoto affettivo o la trasmissione di messaggi contraddittori possono essere alla base dell’obesità, laddove la ricerca di cibo diviene modalità compensativa ad un vuoto emotivo.

Sulla stessa linea, la scuola gestaltica che riconosce diversi schemi di personalità che originano dalle modalità utilizzate per entrare in contatto con l’ambiente. Così con il termine introiezione definisce una strategia relazionale organismo/ambiente  improntata ad “ingoiare”  in maniera bulimica  indistintamente quanto proviene dall’esterno.

 Assimilare in modo sano l’esperienza ed il cibo, prevede invece la capacità di discriminare ciò che è nutriente da ciò che è velenoso, per poi “digerirlo”, vale a dire elaborarlo e farlo parte di sé.

Tale modalità è pertanto disfunzionale e di frequente correlata a disturbi alimentari.

Inoltre la  teoria gestaltica definisce confluenza un ulteriore modalità relazionale individuo/ambiente. La personalità confluente non è in contatto con l’altro, bensì ambisce a divenire tutt’uno con ciò che è alieno da sé, aspirando ad una fusione ideale con  ciò che è altro. Tale attitudine porta la persona a non percepire alcun confine tra sé  e l’ambiente, a “risucchiare” gli altri, ad essere intrusiva, come anche a subire intrusioni (non percependo i propri confini) nel timore di essere lasciato solo, abbandonato.

Ciò può, comprensibilmente, rendere disagevole e frustranti  i rapporti affettivi, professionali e sociali ed il cibo può in tal caso divenire  modalità compensativa a cui aggrapparsi generando problemi di dipendenza.

In ultimo il pensiero berniano offre ulteriore conferma alle teorie sopra citate. Partendo dal presupposto che i modelli familiari sono alla base della visione del mondo che sviluppa nell’infanzia (copione di vita), eventuali modalità cognitive, comportamentali ed emozionali disfunzionali presenti nell’ambiente familiare  offrono precisi modelli interpretativi e di interazione rispetto alla realtà (es. abitudini alimentari, bisogno di piacere agli altri, anaffettività, rigidità o freddezza emotiva…) possono in taluni casi perpetuare o generare schemi disadattivi.

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Questi brevi cenni alle varie scuole di pensiero permettono di confermare l’importanza di un adeguato approfondimento psicologico che orienti - qualora necessario - l’intervento terapeutico di supporto alla cura dietologica.

Sappiamo infatti quanto le memorie inconsce influenzino il modello interiore di noi stessi, inclusa la percezione corporea (si pensi al caso in cui anche dopo una dieta rigida, la persona continua a percepirsi grassa). Lo schema interiore è infatti più costante e persistente di quello esteriore.

Ed i vantaggi del mantenersi in soprappeso spesso dipendono da antichi bisogni insoddisfatti assolutamente inconsapevoli: bisogni affettivi, bisogno di protezione, di essere accettati e accolti. Lo strato adiposo che ricopre il corpo può inoltre rappresentare una difesa, una barriera rispetto ad un ambiente vissuto come ostile od ostico da affrontare. L’essere robusti può assumere infine una valenza di potere e forza o può servire ad “esserci”, ad occupare lo spazio circostante.

Intervenire sugli elementi che hanno costituito la patogenesi dell’obesità significa offrire al cliente la possibilità di

ü        elaborare i propri vissuti giungendo ad una consapevolezza profonda di sé e delle dinamiche che inconsapevolmente mette in atto

ü       utilizzare in alternativa modalità più adattive e funzionali di soddisfare i suoi bisogni

ü       rinforzare il fragile Sé affinché ogni altro intervento sul piano nutrizionale sia davvero efficace.

Sul piano terapeutico, un approccio di counseling integrato, che cioè utilizzi i modelli teorici sopra esposti in modo sinergico, può rivelarsi particolarmente incisivo, permettendo di orientare l’intervento alle specifiche esigenze e caratteristiche di personalità del cliente.

 

 
 
 

AMARE SE STESSI PER SAPER AMARE L’ALTRO:LA COSTRUZIONE DI LEGAMI AFFETTIVI SANI

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AMARE SE STESSI


Implica il possedere due doti che ogni persona “per diritto” dovrebbe aver acquisito:
l’ autostima vale a dire la considerazione del nostro valore prescindendo dalle nostre imperfezioni (sfera dell’essere);
la fiducia in sé o auto-efficacia cioè la convinzione che nelle situazioni di crisi ce la possiamo fare, che possiamo attivare comportamenti adeguarti al contesto. Questa consapevolezza si manifesta con l’attitudine all’azione ed attiene quindi alla sfera del fare.

Qualora manchino tali qualità del Se’, il nostro sguardo su noi stessi sarà inevitabilmente svalutante e ci indurrà a maturare convinzioni disfunzionali circa il nostro valore. E tali pensieri disadattivi coinvolgeranno la sfera fisica (trascuratezza), emotiva (“non merito rispetto”) ed intellettuale (disconoscimento potenzialità, senso di impotenza) della nostra persona.
A causa della paura del rifiuto, della critica, della delusione, del timore ad entrare in contatto con l’altro, la persona carente di stima rimane chiusa disperatamente nel suo disagio, incapace di costruire relazioni, celando dietro alla sua apatia una grande fragilità e un intenso bisogno inespresso di amore.

LE ORIGINI: LA BASE SICURA

J. Bowlby, illustre psicoanalista inglese, verso la metà del secolo scorso definì l’attaccamento affettivo come risultato di un sistema di schemi comportamentali introiettati nell’infanzia e determinato in larga parte dalle modalità con cui il bimbo viene trattato dalle figure genitoriali ed educative di riferimento.

… il modo in cui siamo stati o non siamo stai accolti, riconosciuti, nutriti genera la nostra organizzazione del mondo ed il nostro modo di stare nel mondo…

L’importante contributo di Bowlby e collaboratori alla psicologia evolutiva riguarda l’aver formulato teorie innovative partendo dall’osservazione del comportamento di esplorazione ed attaccamento in bambini di 12 mesi.
Per la prima volta vennero realizzati sistematicamente filmati che - tra l’altro - crearono non poco scompiglio all’interno della Società Psicoanalitica, documentando con evidenza incontrovertibile ipotesi rivoluzionarie rispetto alla tradizione e non sempre in linea con l’ortodossia, rappresentata allora da M. Klein ed A. Freud.


Anni di analisi portarono alla definizione di quattro tipi di attaccamento oltre ad un gruppo intermedio tra questi:


ATTACCAMENTO SICURO – il bambino ha sviluppato fiducia nella presenza stabile della madre, da cui si sente contenuto, accolto e motivato all’esplorazione. E’ un bimbo sereno, che, rispecchiandosi in lei, ha maturato fiducia in sé e nelle proprie risorse.

ATTACCAMENTO ANSIOSO/AMBIVALENTE – il bambino è passivo, esplora poco, ha bisogno costantemente di essere accudito. E’ introverso, timido e compiacente per essere accolto. Si mostra costantemente angosciato a causa dell’incostanza della madre (disponibile in modo discontinuo o incoerente, offrendo ad esempio un accadimento anaffettivo), e si aggrappa a lei temendo l’abbandono.

ATTACCAMENTO EVITANTE - Alterna momenti di indipendenza a momenti in cui si affanna a cercare la madre. L’indifferenza ed il mancato contenimento di lei non permettono al bambino l’elaborazione degli affetti negativi nei suoi confronti (dolore, rabbia..) che, scissi da quelli postivi, vengono ben presto incanalati in ambito sociale (atteggiamento ribelle e contestativo) o rimossi.

In molte occasioni Bowlby tenne a sottolineare come la qualità del contenimento materno incidesse sullo sviluppo di condotte anti-sociali.
Partendo dal presupposto che lo stile di attaccamento non possa semplicisticamente rappresentare l’unica spiegazione al fenomeno, gli episodi di bullismo possono essere “anche” ragionevolmente letti come risultato di un fallimentare contenimento genitoriale. Il rifiuto, l’indifferenza o l’assenza affettiva delle figure di riferimento non permettono il contenimento del disagio del figlio, il quale, incapace di elaborare autonomamente i propri vissuti emozionali negativi e non avvertendo alcun contenimento da parte degli adulti, proietta tali sentimenti in agiti anti-sociali.

…a ben guardare, nella teoria è anche la chiave per un intervento efficace

volto al recupero di qualità e alla valorizzazione dei rapporti familiari in primis unitamente alla creazione o al consolidamento di network di sostegno sul territorio operanti in sinergia (scuole, associazioni sportive, ricreative, oratori, consultori..).

ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO – l’ultimo tipo di attaccamento descritto da Bowly origina da gravi mancanze della madre (violenza, maltrattamenti, abusi) che generano personalità borderline o psicotiche.


L’EREDITA’ DEL PASSATO

Gli studi longitudinali effettuati sui bambini una volta cresciuti, portarono alla realizzazione di un questionario l’ADULT ATTACHEMENT INTERVIEW mediante cui fu misurata la costanza, nel corso dello sviluppo fino all’età adulta, degli schemi di attaccamento infantile.

Risultati:
Dall’attaccamento sicuro sviluppa un tipo di personalità confidente in se stessa, capace di rapportarsi agli altri, di fidarsi ed affidarsi senza timore dell’abbandono (base sicura in se stessi introiettata) non spaventata dalla minaccia di poter subire intrusioni (confini chari)

Dall’attaccamento ambivalente origina una struttura di personalità insicura, bisognosa e possessiva. Spesso dipendente ed affamata d’amore; restia ad ogni confronto per paura di perdere l’altro e dunque poco assertiva. Costantemente alla ricerca di conferme esterne alla propria autostima e tendente alla confluenza affettiva.

Dall’attaccamento evitante genera un limitato bisogno di attaccamento unitamente ed una grande autonomia affettiva che può sfociare nella difficoltà ad entrare in contatto autentico o in intimità con l’altro.

LE FERITE DEL PASSATO – QUALI CONSEGUENZE?


La difficoltà ad amare, specie se il fallimento è la regola, è risultato di ostacoli psico-affettivi incontrati nel corso dell’infanzia.
Tutti i nostri rapporti sono condizionati dal nostro stile di attaccamento.. e dunque da come siamo stati amati.

Su di un ipotetico spettro potremmo individuare ai due estremi, due modalità relazionali tanto opposte quanto disfunzionali:

NARCISISMO – il vissuto primario di accudimento e protezione fu a suo tempo deluso. Per sentirsi sicuro e per timore che gli altri possano rifiutare (oggi come allora) i suoi tentativo di avvicinamento, il narcisista
 tende a sopprimere i propri bisogni affettivi (strategia evitante)
 oppure a vivere un’esistenza alla perenne ricerca dell’oggetto interno idealizzato, incapace di relazioni autentiche e durature
 o costruisce reattivamente un sé grandioso incapace di entrare in contatto pieno con l’altro.

DIPENDENTE AFFETTIVO (love addiction) – all’altro estremo del continuum, colui il quale avendo ricevuto un feedback affettivo insufficiente nel passato… da adulto, ha difficoltà a separarsi dalle proprie figure d’attaccamento (del passato o del presente): ritenendosi in credito d’amore, il suo bisogno non è mai completamente soddisfatto … ed è proprio questo vuoto antico a spingerlo ad amare con la voracità con cui il bulimico mangia, vivendo nella nostalgia di quel intenso corpo a corpo che lega il neonato alla madre e pretendendo la fusione totale col partner che finisce per sentirsi divorato.


COSTRUIRE IL PROPRIO SE’
In terapia, l’alleanza terapeutica viene a configurarsi come base sicura (holding), vale a dire nuovo modello interno operante laddove le figure genitoriali abbiano fallito o siano state in qualche misura carenti.
Il terapeuta fornisce dunque al paziente una base da cui egli si senta
 stimolato ad esplorare
 incoraggiato a stringere relazioni sane
 e soprattutto agevolato a prender consapevolezza di quanto i suoi antichi modelli d’attaccamento siano frutto di schemi disadattivi del passato.
Attraverso questo percorso di crescita e riparazione, al paziente viene dato di raggiungere quell’autonomia emotiva senza la quale risulta improbabile assaporare un autentico benessere.

Accanto all’holding il conteining (Winnicott): Se il contenimento materno ha lo scopo di aiutare il bambino a trasformare ed elaborare gli affetti negativi (collera, dolore, paura..), nel caso esso sia stato inefficace sarà quello terapeutico a permettere al paziente di vivere le proprie emozioni senza necessità di scindere gli affetti negativi e negarli (attaccamento evitante) o di costruire un falso se’ compiacente e remissivo (ansioso-ambivamente).

Emerge, da tali considerazioni, l’importanza della relazione terapeutica al fine di produrre un efficace lavoro di ristrutturazione del Sè.
Il benessere della persona scaturisce imprescindibilmente dall’aver vissuto relazioni sane e nutrienti.
E se qualcosa “non ha funzionato”, solo un legame affettivo solido, validante la persona ed accogliente può sostenere e dar senso alla metodologia terapeutica, a qualsiasi modello teorico essa appartenga. Pena il fallimento.

Laddove quel dono di cui si è accennato inizialmente venga “di diritto” restituito, il deserto – come sosteneva F.S. Perls – può ancora fiorire.

 

Bibliografia
J. Bowlby - UNA BASE SICURA - Raffaello Cortina Editore

M.D.S. Ainsworth – ATTACHEMENT RETROSPECT AND PROSPECT - In: Parkes, C.M. Stevenson, J. hinde – THE PLACE OF ATTACHEMENT IN HUMAN BEHAVIOUR - Basic Books Tacistock

P. Clarkson – LA RELAZIONE PSICOTERAPEUTICA INTEGRATA – Coll. Psicoterapia di Counseling Sovera

D. Winnicott – SVILUPPO AFFETTIVO ED AMBIENTE – Armando, Roma

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

I SOGNI...  ALLEATI PREZIOSI!

Post n°26 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da francescalc.mi
 
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CONOSCERE DI SE' MEDIANTE I PROPRI SOGNI 

 

    

 

 

 

...un modo per ottenere numeri da giocare al Lotto?..  un simbolo da

 

rintracciare nel libro dei sogni per individuarne il significato?.. niente di tutto questo.

 

Se ci liberiamo da superstizioni e creduloneria possiamo scoprire nel sogno un valido

 

alleato per la nostra crescita personale ed un accurato strumento terapeutico.

 

 

 

Fu grazie alla rivoluzione freudiana all'inizio del secolo scorso che venne definito il

 

senso del sonno paradossale, vale a dire quella fase del sonno in cui siamo

 

cerebralmente attivi (onde cerebrali simili alla veglia, rapidi movimenti oculari...) pur

 

rimanendo fisicamente atoni.

 

La funzione primaria del sogno è volta, secondo Freud, al compimento di un

 

desiderio.

 

Una funzione ulteriore è data dalla rielaborazione di contenuti inconsci e

 

repressi...

 

 

 

La moderna psicologia dinamica ed il lavoro di F.Perls in particolare, ampliarono il

 

significato funzionale del sogno con lo sviluppo di nuove teorie.

 

Perls ed i suoi collaboratori partirono dal presupposto che tutto l'organismo umano funzioni come

 

una cellula, che mediante la sua membrana porosa di rivestimento assimila ciò che è nutriente, espelle i

 

residui ed aliena ciò che sente velenoso.

 

 

 

Questo processo involontario, totalmente spontaneo (integrazione/espulsione) caratterizza anche

 

l’organismo umano e viene ad interrompersi , ad “incepparsi”

 

1.                quando l’individuo comincia ad esercitare un controllo razionale volto ad assimilare ciò che ritiene corrispondente al proprio ideale e a rinnegare gli aspetti del suo sé che non gli paiono conformi  allo stesso  (qualcosa del tipo: per essere “il miglior me” devo diventare e non devo assolutamente essere…)

 

2.                quando l’individuo smette di sentire e comincia a decidere cosa “lasciar entrare” e cosa no sforzandosi di adeguarsi a modelli esterni a sé (per essere amato, accolto devo diventare… non devo mostrarmi…)

 

 

 

quando ciò accade, alcune parti del Se' vengono rinnegate (perchè non

 

le vogliamo accettare, perchè ce ne vergogniamo, perchè le temiamo...) e di

 

conseguenza proiettate all'esterno.

 

Non accettandole come parti di noi, le disconosciamo…

 

E la nostra vita perde in qualità..

 

In che senso?

 

Proviamo a fare un esempio:

 

come sarebbe possibile poter dire di star davvero bene, di vivere appieno il nostro potenziale

 

negando l'esistenza (e quindi l’uso!)  di un nostro braccio?

 

Si potrebbe sopravvivere disconoscendo un nostro arto? Di certo sì.. ma con un certo disagio..

 

Disagio causato dal non usufruire di una nostra preziosa risorsa..

 

 

 

maggiori sono le parti di noi che rinneghiamo e non usiamo, maggiore sarà la sofferenza psicologica che

 

vivremo.

 

Quando la nostra spinta istintiva verso la curiosità, il bisogno d’amore, il diritto ad essere

 

fragili, le nostre emozioni di collera o dolore o impotenza vengono da noi negate.. siamo costretti a subire

 

il conflitto tra il nostro modello ideale di sopravvivenza e la salvaguardia del nostro autentico sé.

 

 

 

.. ma che ne è di queste proiezioni, parti di noi stessi rinnegate??

 

Poiché ci appartengono… non possono che tornare..

 

nei sogni, per esempio (come anche in molti psicosomatismi!) irriconoscibilmente

 

trasformate dal processo onirico.

 

 

 

Ed è proprio procedendo a ritroso, vale a dire svelando attraverso una precisa metodologia il

 

contenuto latente del sogno (quello manifesto è tutto ciò che ricordiamo),

 

diviene possibile recuperare le parti del sè rinnegate.

 

Perchè farlo?

 

Perchè solo giungendo all'integrazione di tutto quanto noi siamo, ci è possibile

 

raggiungere un benessere autentico.

 

Recuperare le parti di el Se' proiettate significa poter finalmente disporre di tutto

 

il nostro potenziale, di ogni nostra risorsa..

 

Che è poi l'obiettivo di ogni terapia di counseling.

 

La conferenza del 1 Marzo, riedizione di quella dello scorso autunno, permette ai

 

partecipanti di scoprire di più sul tema,

 

come anche, a chi lo desidera, di cimentarsi in un lavoro esperienziale attraverso cui,

 

con la guida della counselor, "verificare" quanto concreto e sorprendente possa

 

essere il lavoro con i sogni.

 

 

 

Sull’argomento:

 

F.S. Perls – LA TERAPIA GESTALTICA – Casa Editrice Astrolabio

 

J. I Kepner – BODY PROCESS Working with body in psychotherapy – Franco Angeli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

IL COUNSELING.. DI CHE SI TRATTA?

Post n°25 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da francescalc.mi
Foto di francescalc.mi

Molte sono le problematiche esistenziali che rendono difficoltoso il rapporto con sè e gli altri minando il benessere psicofisico.

La psicologia della Salute mira a potenziare e rinvigorire le risorse innate naturalmente insite nella persona, fornendo il necessario sostegno e restituendo capacità e forza di reagire

 

PECULIARITA’ DEL COUNSELING:

 

ENFASI SULLE RISORSE DEL CLIENTE, NON SUL DISAGIO:

la persona “è molto più che il suo problema”, ma nel momento di crisi tende a focalizzarsi sui motivi della sua sofferenza, non riconoscendo appieno le potenzialità che gli appartengono e che, una volta emerse, lo porteranno al superamento del suo disagio.

Il counselor ha il compito di agevolare e supportare il cliente in questo percorso.

 

IL CLIENTE E’ ATTORE NEL PROCESSO DI AIUTO:

E svolge dunque un ruolo attivo durante la terapia. Non è un paziente inconsapevole e silenzioso in attesa di cura, bensì parte di una preziosa sonata a quattro mani.

Se il counselor deve saper mettere a disposizione qualità procedurali ed umane allo scopo di accogliere ed accompagnare il suo paziente nel percorso terapeutico, il cliente può scegliere la via che ritiene più consona, gestire i tempi verbalizzando le proprie esigenze, esprimere le proprie emozioni e vissuti nel qui e ora, sentendosi parte di  un ambiente nutriente e giungendo con il counselor a decisioni comuni.

Solo così essi divengono – insieme -  protagonisti di un incontro autentico.

 

I CONFINI:

il counseling risulta essere una soluzione terapeutica efficace qualora venga utilizzato con persone globalmente integrate ed adattate. Qualora il paziente riveli un grave disturbo strutturale di personalità, sarà cura del professionista inviarlo da uno specialista (un buon counselor esercita spesso all’interno di una rete professionale di supporto) che dopo una diagnosi adeguata potrà valutare l’utilità eventuale di una terapia di counseling di sostegno.

 

AMBITI DI INTERVENTO:

 

AUTOSTIMA

sensazione di inadeguatezza, incapacità, senso di inferiorità...             

DISTURBI CORRELATI ALLA SFERA AFFETTIVA 

separazioni, perdite, gestione rapporto di coppia...

DISTURBI RELAZIONALI

fobia sociale, difficoltà di relazione/contatto con familiari, amici, colleghi, autorità…

ANSIA

generalizzata, disturbo ossessivo-compulsivo OCD, ansia legata all’ambito professionale... 

INSTABILITA’ DELL’UMORE 

depressione,, paura di solitudine, senso di vuoto...

FASI DEL CICLO DI VITA 

infanzia, adolescenza, maternità, menopausa,pensionamento…

DIFFICOLTA’ NELLO STUDIO (counseling scolastico)

concentrazione, ansia da esame, scarsa motivazione    

DISAGI IN AMBITO PROFESSIONALE  (business counseling)

perdita lavoro, trasferimenti, gestione del cambiamento…

TRAUMI

 

 
 
 

TEST: QUESTA RELAZIONE MI FA BENE?

Post n°22 pubblicato il 10 Gennaio 2008 da francescalc.mi
 
Foto di francescalc.mi

QUANDO PARLATE CON QUESTA PERSONA:

 

A - USATE PAROLE E ATTEGGIAMENTI CHE PIACCIONO A LEI

 

B - VI LASCIATE CONDIZIONARE DAL SUO UMORE

 

C - LO FATE CON GRANDE LIBERTA’

 

 

 

SE SIETE TRISTI O SCORAGGIATI, COME SI COMPORTA L’ALTRO CON VOI?

 

A - CERCA DI FARMI RIDERE

 

B – E’ PATERNO E DIRETTIVO

 

C – NE E’ INFASTIDITO

 

 

 

AVETE SBAGLIATO NEL COMPIERE UNA SCELTA. QUALE MESSAGGIO VI INVIA L’ALTRO?

 

A – “DI NUOVO?!”

 

B – “GLI ERRORI SONO I NOSTRI MAESTRI DI VITA”

 

C – “AH! SE MI AVESSI DATO RETTA…!”

 

 

 

 

 

ALL’ULTIMO MOMENTO AVETE BISOGNO DI SPOSTARE UN APPUNTAMENTO CON QUESTA PERSONA: CHE FATE?

 

A – PROVATE A CONSIGLIARVI CON LUI/LEI SUL DA FARSI

 

B – CERCATE UNA SCUSA

 

C – LO FATE, NELLA CERTEZZA DI ESSERE COMPRESI

 

 

 

 

 

 

 

AVETE SUBITO UN PICCOLO INTERVENTO CHIRURGICO. QUESTA PERSONA VI VIENE A TROVARE IN OSPEDALE. COSA VI PORTA?

 

A – UNA SCATOLA DI CIOCCOLATINI

 

B – UN LIBRO CHE L’HA AIUTATA NEI MOMENTI DIFFICILI

 

C – PORTA SE STESSO/A: E’ QUELLO CHE DESIDERATE

 

 

 

AVETE AMICI A PRANZO, FRA CUI QUESTA PERSONA. SFORTUNATAMENTE QUALCOSA VA STORTO E IL RISULTATO E’ UN DISASTRO: COSA PENSATE CHE LUI/LEI POTREBBE DIRVI?

 

A – “SEI STATO COMUNQUE UN OTTIMO PADRONE DI CASA, COMPLIMENTI”

 

B – “PERCHE’ NON MI HAI CHIESTO CONSIGLIO? TI AVREI EVITATO UNA BRUTTA FIGURA”

 

C – CE N’E’ ANCORA? LO PORTEREI AL MIO CANE”

 

 

 

 

 

DOVETE PARLARE IN PUBBLICO E SIETE NERVOSI. COSA VI CONSIGLIA QUESTA PERSONA?

 

A – “LASCIA PERDERE, NON SEI PORTATO PER QUESTE COSE”

 

B – “DEVI ESSERE MENO NERVOSO”

 

C – “STUDIA BENE E POI IMPROVVISA: ESPRIMERAI PREPARAZIONE E SENSIBILITA’”

 

 

 

QUESTA PERSONA SI DICHIARA IN NETTO CONTRASTO CON VOI RISPETTO AD UNA DECISIONE DDA PRENDERE: COME ESPRIMETE LA VOSTRA RABBIA PER QUESTA PRESA DI POSIZIONE INASPETTATA?

 

A – CERCO DI SPIEGARE E RISPIEGARE IL MIO PUNTO DI VISTA, SENZA MAI METTERE IN DISCUSSIONE IL NOSTRO RAPPORTO

 

B – TENGO IL BRONCIO, IN MODO CHE CAPISCA CHE MI STA OFFENDENDO

 

C – MI TENGO LA RABBIA DENTRO, PRIMA O POI ESPLODERO’

 

 

 

 

 

DECIDETE DI DAR VITA A D UN PROGETTO IN COMUNE: COME SI COMPORTERA’ LUI/LEI?

 

A – SI SPENDERA’ AL MASSIMO PER CREARE E DISCUTERE LE COSE INSIEME FARSI

 

B – PRENDENDOSI TUTTI I MERITI, SENZA PREOCCUPARSI DI ME

 

C – PRENDENDOSI LA PARTE PIU’ FATICOSA

 

 

 

LA VICINANZA FISICA CON QUESTA PERSONA COSA VI FA PROVARE?

 

A – SENSO DI PROTEZIONE

 

B – AGITAZIONE E A VOLTE UN PO’ DI DISAGIO

 

C – CORAGGIO E VOGLIA DI FARE

 

RISULTATI:

MENO DI 12 PUNTI: è una relazione che vi sottrae energia. Non vi permette di esprimere voi stessi al 100% e questo fa sì che tendiate a nascondervi dietro una maschera quando vi relazionate a questa persona.

DAI 13 ai 25 PUNTI: è una relazione migliorabile in alcuni aspetti, ma il rapporto è sano ed empatico. Quando ne avete necessità potete contare su questa persona, facendo attenzione a non sviluppare dipendenza, ma coltivando le vostre risorse per essere più attivi nel quotidiano e sviluppando ulteriormente la vostra autostima.

OLTRE 26 PUNTI: è una relazione da conservare perchè nutriente. Il vostro rapporto è solidale, empatico e stimolante oltre che rispettoso delle individualità di entrambi per cui è riservato spazio all'espressione e all'autonomia.

Approfondisci il significato ed il risutato personale del test durante l'incontro

liberamente tratto da Psychologies nov 07

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

scuola: ADHD COME INTERVENIRE?

Post n°15 pubblicato il 07 Gennaio 2008 da francescalc.mi
Foto di francescalc.mi

Il disturbo dell’attenzione è un disturbo evolutivo che coinvolge la sfera dell’autocontrollo per cui il bimbo è incapace di regolare i propri comportamenti in maniera funzionale ed efficace. Non è quindi determinato da erronee modalità educative, questo va specificato in quanto genitori, ed insegnanti possono sentirsi impotenti e sconfortati dinanzi a questo tipo di problematica (si pensi alle critiche che possono giungere dall’esterno “quel bambino non è stato bene educato” “siete troppo tolleranti” ecc..).

E’ quindi importante che genitori ed educatori siano consapevoli che si tratta di un disturbo e che è possibile quanto necessario intervenire:

§         Per prima cosa verificando se il bambino presenta realmente un ADHD (la diagnosi può essere effettuata solo da uno psichiatra o meglio ancora da un  neuropsichiatria infantile)

§         Successivamente è utile che raccolgano informazioni su come gestire il comportamento del bambino con una modalità di interazione adeguata (di seguito riportati dei siti di riferimento)

Qui elencati  alcuni comportamenti che possono essere indicativi della presenza del disturbo, e che richiederebbero l’intervento di uno specialista che effettui la diagnosi dopo una accurata anamnesi del paziente (situazione familiare, scolastica..) e dopo aver escluso che tali comportamenti non siano determinati da ansia,  depressione latente a altre cause:

ü       troppo vivace

ü       capacità attentiva particolarmente limitata

ü       agisce senza prima pensare

ü       particolarmente sbadato, disorganizzato

ü       tende a perdere sempre ogni cosa

ü       a scuola  non sa stare tranquillo e seduto al suo posto

ü       presta attenzione ai movimenti e al brusio della classe piuttosto che all’educatore

ü       si comporta in modo aggressivo

ü       viene alle mani a scuola

ü       si lascia sfuggire le risposte senza aspettare il suo turno

piu’ in dettaglio:

dal DSM  IV (Manuale diagnostico):

sei o più dei seguenti sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi con un’intensità che provoca disadattamento e che contrasta col livello di sviluppo:

Disattenzione

· spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro o in altre attività;

· spesso ha difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti sulle attività di gioco;

· spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente;

· spesso non segue le istruzioni e non porta a termine i compiti scolastici, le incombenze o i doveri sul posto di lavoro, (non a causa di comportamento oppositivo o di incapacità di capire le istruzioni);

· spesso ha difficoltà ad organizzarsi nei compiti e nelle attività;

· spesso evita, prova avversione, o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale protratto, (come compiti a scuola o a casa);

spesso perde gli oggetti necessari per i compiti o le attività, (per es. giocattoli, compiti di scuola, matite, libri, strumenti);

· spesso è facilmente distratto da stimoli estranei;

· spesso è sbadato nelle attività quotidiane.

2) sei, (o più), dei seguenti sintomi di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi con un’intensità che causa disadattamento e contrasta con il livello di sviluppo:

Iperattività

· spesso muove con irrequietezza mani o piedi o si dimena sulla sedia;

· spesso lascia il proprio posto a sedere in classe o in altre situazioni in cui ci si aspetta che resti seduto;

· spesso salta e scorrazza dovunque in modo eccessivo in situazioni in cui ciò è fuori luogo, (negli adolescenti o negli adulti, ciò può limitarsi a sentimenti soggettivi di irrequietezza);

· spesso ha difficoltà  a giocare o a dedicarsi a divertimenti in modo tranquillo;

· è spesso “sotto pressione” o agisce come se fosse “motorizzato”;

· spesso parla troppo.

Impulsività

a) spesso “spara” le risposte prima che le domande siano state completate;

b) spesso ha difficoltà ad attendere il proprio turno;

c) spesso interrompe gli altri o è invadente nei loro confronti, (per es., s’intromette nelle conversazioni o nei giochi).

B. Alcuni dei sintomi di iperattività-impulsività o di disattenzione che accusano compromissione erano presenti prima dei 7 anni d’età.

C. Una certa menomazione a seguito dei sintomi è presente in due o più contesti, (per es., a scuola, (o al lavoro), e a casa).

D. Deve esservi un’evidente compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.

E. I sintomi non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, di Schizofrenia, o di un altro Disturbo Psicotico, e non risultano attribuibili ad un altro disturbo mentale, (per es., Disturbo dell’Umore, Disturbo d’Ansia, Disturbo Dissociativo o Disturbo di Personalità).


Codificare
in base al tipo:

Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo Combinato: se entrambi i Criteri A1 e A2 sono risultati soddisfatti negli ultimi 6 mesi.

Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante: se il Criterio A1 è risultato soddisfatto negli ultimi 6 mesi, ma non il Criterio A2.

Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, Tipo con Iperattività-Impulsività Predominanti: se il Criterio A2 è risultato soddisfatto negli ultimi 6 mesi, ma non il Criterio A1.

A livello terapeutico 

credo sia opportuno un trattamento multimodale che coinvolga il medico (neuropsichiatria) per la prescrizione farmacologia adeguata in sinergia con una terapia di supporto psicologico quale anche il counseling.

L’obiettivo è infatti quello di:

ü       ridurre la gravità dei sintomi

ü       produrre un buon adattamento nel bambino a livello familiare, scolastico e sociale (l’ADHD incide sul rendimento scolastico (a causa  del defit attentivo e all’iperattività )come anche sulla relazione tra pari.

L’ideale è che si crei un buon coordinamento tra scuola, famiglia, medico, terapeuta.

 

Links utili

Associazioni Italiane

Psicopatologia dell'Apprendimento

www.aifa.it

Associazione Italiana Famiglie ADHD

www.iss.it/adhd
Gruppo di lavoro ADHD dell'Istituto Superiore di Sanità

www.educazione-emotiva.it
Procedure psico-educative


 www.helpforadd.com 

Raccolta di articoli online inerenti l'ADHD

www.myadhd.com 

Sito informativo per adulti ( genitori, educatori e psicologi )



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

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