VILLAGGI.

Post N° 54


Il tutto si può riassumere in un bisogno terribile di casa Eccomi di nuovo scaraventata in mezzo a Termini Town, ma stavolta è diverso. Stavolta sono un antropologa e non una passante. Stavolta devo restare. Stavolta devo cercare. Stavolta devo incontrare. Gettata in mezzo alla terra e in mezzo al fango. In caduta libera verso il mondo dei cancellati vivi. Di nuovo il maledetto buco di Alice. E quel biglietto giallo che conservo ancora per ricordami la domanda: “Perché io?” alla quale si abbina inesorabilmente la risposta: “Perché tu sei tu”. E stavolta non posso dire “no, grazie”. Perché ho cercato, ho voluto e ho ricercato un posto che fosse un viaggio. E l’ho trovato alla stazione. E in questa corsa folle verso qualcosa, in questa smania di andare e di soffrire per vedere, in questa inquietudine incomprensibile che come Malinowsky fugge dalla civiltà mentre si lamenta degli indigeni… Voglia di cantare. Perché adesso a chiamarsi casa è il rumore che ha fatto il vento quando abbiamo iniziato a cantare, nel bosco. E’ il vino rovesciato la sera di Pasqua, ubriachi, ballando. Casa sono i girasoli in cui amo passare attraverso. Casa è un panino con i pomodori secchi che ho mangiato con te davanti alle giostre, al mare. E tutto il resto mi suona come una terra straniera. And the radio plays: "E nell'alba un vecchio treno/ mi sparisce la tua mano/ ed un figlio un quinto piano/ ogni sera invecchio tremo/ e nell'alba un vecchio treno/mi riporta la tua mano/ed un figlio un quinto piano/ogni sera un vecchio treno".