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Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe,
i capelli diventano bianchi,
i giorni si trasformano in anni.
Però ciò che è importante non cambia;
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di arrivo c'è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c'è un'altra delusione.
Fino a quando sei viva, sentiti viva.
Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite ...
insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arruginisca il ferro che c'è in te.
Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni
non potrai correre, cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce, cammina.
Quando non potrai camminare, usa il bastone.
Però non trattenerti mai!
(MADRE TERESA DI CALCUTTA)
 

 

Il grande Boh - 4 Febbraio 1998

Post n°7 pubblicato il 28 Ottobre 2008 da selly.81

Come un capodanno seguire alla TV il conto alla rovescia che porta alla mezzanotte e a mezzanotte in punto in un carcere del Texas avviene l'esecuzione di una donna per mezzo di un'iniezione di veleno. In diretta alla televisione la voce di una giornalista al telefono, quando arriva mezzanotte e sul quadrante dell'orologio cambia la data, ci dice che l'iniezione c'è stata e smbra di vederlo quell'ago che entra nel braccio con la chirurgica pulizia di una flebo d'ospedale ... tutto pulito ... tutto silenzioso .... come voler dare un'aria di civiltà alla più barbara delle azioni.
No, molto meglio il machete allora, molto meglio la sassaiola, molto meglio tagliare la testa con un'accetta ed il capo mozzato che rotola nella cesta tra le grida di una piazza inferocita piuttosto che questa precisione silenziosa, molto meglio tagliare quel corpo a pezzetti e poi darli da mangiare ai cani, a quelli che applaudono la pena di morte, o a loro stessi, anzi, a loro stessi.
Mentre attraverso l'ago il veleno si mischiava al sangue di quella donna, io meditavo sull'orrore ... l'orrore di cui parla Kurtz alla fine di Apocalypse Now, l'orrore che traccia la sua linea continua lungo tutta la storia dell'umanità e che rivela il suo volto più terribile quando si accompagna alle leggi, ai discorsi dei potenti, alle campagne elettorali, agli abiti blu e alle camice bianche, alle scrivanie incorniciate da bandiere stirate che non hanno mai visto il vento.
Una cosa è certa ... La PENA DI MORTE è ciò chye rende l'uomo la presenza più indegna del creato. Io mi vergogno di essere un uomo quando si applica questa legge in qualunque parte del mondo e, in particolare, quando si applica negli Stati Uniti io provo un grande dolore e provo odio nei confronti del rock, di Fonzie, della coca-cola, di Robert De Niro, di Topolino, di Indiana Jones, di Guerre Stellari e di tutto ciò che di americano ho nelle vene.
Ebbene nelle vene ho anche un po' del veleno che stanotte è entrato nelle vene di quella donna uccisa.
Mi viene da vomitare, mi fa schifo l'America con le sue praterie del kazzo e i suoi cow-boys pedofili, i suoi presidenti ipocriti e i suoi grattacieli vuoti, i suoi film maledetti e i suoi dollari insanguinati, le sue donne bambolone e il suo erotismo privo di sensualità.
Molti paesi applicano la pena di morte, ma solo negli Stati Uniti ciò avviene con tanta crudeltà, con tanto compiacimento, con un ago sterilizzato che entra nel corpo. E poi gli Stati Uniti ci fanno più effetto perchè volenti o nolenti si cresce pensando che quello sia un modello di organizzazione da imitare, con la loro bella e commovente dichiarazione d'indipendenza. Lì la pena di morte si applica in maniera scientifica, con il minimo dolore possibile. E' quella pulizia, quell'assenza di microbi che mostra l'orrore assoluto di ciò che avviene, come se cancellasse il contesto, come se isolasse la morte e ne rendesse visibile il volto. E' la morte che arriva con la sua falce, ma è una falce sterilizzata che non lascia segni e non cade una goccia di sangue, è una morte senza rumore, senza ira, senza grida, una morte che si accompagna a una firma su un foglio ... E' la morte letta a rappresentare una nazione, una nazione intera che diventa nazione omicida, che crede di essere Dio e invece mette in scena l'orrore e scredita l'intero genere umano di fronte all'universo.

 
 
 

Post n°6 pubblicato il 19 Marzo 2008 da selly.81
La chiesa è piena di gente... Certo che doveva averne di amici!
Sembra impossibile che lì, in quel sontuoso cassone di legno lucidato e intarsiato, sia steso Jacopo Valini. "Quel" Jacopo Valini, il giovane chirurgo entusiasta, il medico preciso e corretto, il mio collega, il mio, e forse qui esagero, amico.
Ci parlavamo... scambiavamo opinioni e giudizi e, forse, la nostra dialettica era intrisa di rispetto o di complicità. Ma tutto finiva lì. Ci si vedeva spesso in ospedale, a volte quasi ci si cercava, ma quando eravamo fuori ognuno aveva la sua vita. Un po' poco come amicizia, no?
Eppure adesso, in questa atmosfera di pietà e di dolore, in questa apoteosi di lacrime e sermoni che sono i funerali... mi sale un groppo in gola.
Proprio di fronte al prete che sta officiando si trovano i famigliari di Jacopo e i parenti più stretti. Non ne conoscevo nessuno. Sembrano attoniti e annientati dal dolore. Hanno negli occhi gli sguardi della morte improvvisa. Quella che c'è e ci guata nell'ombra, ma a cui nessuno pensa.
"Perchè proprio a me?" pensiamo tutti quando giocherelliamo con il nostro esistere quotidiano, spensierati e concentrati sul nostro daffare. "Cazzo, è successo proprio a me!" ci si stampa sullo sguardo vitreo e incredulo, quando veniamo colpiti dalla malasorte e la falce della morte ci strappa chi credevamo eterno compagno di viaggio. Quante volte ho visto quegli occhi. Quante volte ho sentito le urla represse dentro stomaci contorti, i denti che stridono disperazioni inesprimibili, quando ho dovuto comunicare che il paziente, in questo caso congiunto dell'incredulo e, suo malgrado, san Tommaso della morte improvvisa, era giunto cadavere in Pronto Soccorso o che, benchè ce l'avessimo messa tutta, era deceduto lo stesso.
La morte improvvisa spiazza. E non è una questione di dolore.
Ci sono morti annunciate, morti dopo estenuanti malattie, morti per consunzione, morti come epilogo di esistenze sofferte e trascinate, che portano con se qunatità di dolore incommensurabili. La morte come liberazione, laddove questa interrompa un rapporto d'amore, probabilmente non esiste. L'interruzione di un rapporto d'amore non può che essere dolore. Dolore e basta. Ma la morte improvvisa ha qualcosa di particolare. La morte improvvisa porta con sé l'incredulità. E l'incredulità offende.
La morte improvvisa, o forse è meglio definirla inattesa, ci offende nei nostri progetti, nelle nostre aspettative, nelle nostre certezze. Nel nostro rimanere in vita. Noi siamo, mentre qualcosa di nostro, inaspettatamente, incredibilmente, ingiustamente, non è più.
La chiesa è molto affollata. Dietro ai famigliari e ai parenti stretti ci sono le autorità: voglio dire i primari e le persone che contano del nostro ospedale. C'è Fulgenzi con il fedele Parsi. C'è Villa, ci sono alcuni primari di altre divisioni, c'è il direttore sanitario e c'è anche il direttore generale. Fulgenzi e Parsi sono compunti, sembrano quasi addolorati... Jacopo era la parte migliore di loro e adesso sono sbilanciati, forse se ne rendono conto. Almeno mi fa piacere poterlo credere.
Due o tre banchi dietro Fulgenzi & Co. c'è la Silvana...Il fatto che la Silvana non sia nei banchi di famiglia mi fa pensare che il rapporto tra Jacopo e la nostra caposala non fosse noto ai famigliari di Jacopo. E nulla mi vieta di congetturare che tra le giovani donne che si trovano nei banchi di famiglia vi sia qualche fidanzata ufficiale di cui non sospettavo l'esistenza. Perchè no, in fondo? Una piccola trasgressione mi fa apparire Jacopo più umano. Un peccatuccio, un piccolo cornino, in fondo, non è una gran cosa. Una piccola macchia in quest'uomo idealista, amato, sensibile, disponibile all'inverosimile, la si può accettare... Pensando questo forse sto solo cercando di ridurre Jacopo più simile a me.
Ma Jacopo non era come me, e adesso tutti i miei tentativi di trascinarlo verso un comune modo di essere, verso la condivisione di una condizione umana che me lo faccia sentire mio pari, non sono altro che pietosi tentativi di riabilitazione di me stesso.
Jacopo era amato, ecco la differenza. Le lacrime della Silvana, il dolore dei famigliari, questa folla silenziosa, il cordoglio vero, unanime, che si respira tra questi aromi d'incenso dimostrano quanto Jacopo fosse amato. O, per meglio dire, quanto si meritasse d'essere amato. Già, perchè è facile dire: "Lui è amato, mica come me". Troppo semplice. "Lui è amato, facile la vita!" Come se noi si fosse dei disastrati dal destino, dei pargoli stuprati da parenti pedofili, degli schiavi venduti al mercato, degli immigrati martirizzati dal racket dello sfruttamento a tempo pieno.
Jacopo era amato perchè meritava l'amore che riceveva. E ci s'impegnava, perchè ci credeva. Ecco la differenza. Anch'io, come tanti, sono stato amato. Ma cosa ho fatto di quest'amore? Come ho coltivato questo giardino? L'ho lasciato avizzire, ho permesso ai germogli di morire. Perchè, soprattutto, non ho voluto crederci. Ho preferito ripiegarmi sulla mia stanchezza, sul mio disincanto, sulla mia incredulità. E mi ritrovo solo: senza una moglie, senza figli, senza nemmeno una Silvana che versa lacrime senza pudore per una felicità forse effimera ma irrimediabilmente perduta.
Però sono vivo... Questo lo dicono di solito quelli che restano vivi. I morti non hanno niente da dire. I morti parlano attraverso di noi e noi ne filtriamo le idee, le intenzioni, i sogni e le speranze. Noi interpretiamo e questo, per chi muore, è l'ennesima fregatura.
Comunque sono vivo, questo è un fatto. Jacopo invece non c'è più. Ma come fa ad esserci una logica in tutto questo? Eppure dovrei essere un esperto. Voglio dire che, dopo il beccamorto, chi lavora in rianimazione ha una certa competenza in fatto di morte. Dovrebbe essere, non dico abituato, perchè il dirlo è troppo banale, ma almeno avezzo a quello che è l'ineluttabile destino dell'uomo. Dovrebbe averci riflettuto, dovrebbe aver sviscerato, dovrebbe, insomma, almeno averci fatto i conti. Dovrebbe aver trovato, non dico una giustificazione, ma almeno una logica, o, al contrario, un'assoluta e spaventosa illogicità e, quindi, aver assunto una condotta di vita consona alle conclusioni cui è pervenuto.
Niente affatto, non è così. La morte continua ad essere quella degli altri. La morte o, meglio, le morti. Già, perchè di morti ce ne sono due: quella che ci vede partecipi come addetti ai lavori e quella che invece viene a toglierci di dosso brandelli della nostra stessa esistenza.
La prima non è nemmeno una vera e propria morte. La morte di un paziente ha poco a che fare con la morte in assoluto. E' un possibile avvenimento, sciagurato, spiacevole o ovvio, a seconda delle situazioni in cui si esprime, che fa parte della dinamica che coinvolge il malato e quello che lo cura. E' una tappa, ovviamente conclusiva, di un processo di lavoro. Niente di più. Niente a che vedere con l'esistenza. Le esistenze dei pazienti e quelle degli operatori sanitari viaggiano su binari separati. Binari che per caso s'incontrano, ma che non appartengono alla stessa linea.
La vita e la morte di un paziente non sono molto differenti dalla vita e dalla morte del personaggio di un film. Anzi, a volte quest'ultima, se il film è ben fatto, ha un maggiore impatto sulla nostra esistenza. Ma questo, ovviamente, nessuno ha il coraggio di ammetterlo.
La seconda, invece, è un terribile morso. Un morso che ci colpisce come colpisce chiunque altro. Un morso senza senso e che, quindi, cerchiamo di dimenticare o di non riconoscere, fin tanto che ci lascia in pace. Non pensarci, fare finta che non esista, sperare di sentire i suoi denti il più tardi possibile. Questo esorcismo è quello più diffuso. Poi, quando ci tocca, è il momento delle lacrime... La conclusione è che anche noi, gli "esperti", siamo assolutamente impreparati.
La messa è finita. Quattro compunti addetti ai lavori si caricano in spalla la bara e si avviano lungo la navata centrale della chiesa per uscire e infilarsi nel furgone mortuario che li attende ai piedi della scalinata. Una volta dentro, Jacopo verrà portato via: il prosieguo della cerimonia è riservato ai più intimi. La tumulazione nella tomba di famiglia e poi, anche per loro, sarà il momento dell'ultimo addio. Per tutti, poi, non rimarranno altro che i ricordi, gli aneddoti, gli spazi vuoti.
In ospedale sarà tutto come prima. La maggiore tristezza che la morte porta con se è proprio questa. Cioè che tutto, malgrado l'assenza, malgrado il dolore, malgrado il radicale cambiamento, tutto continua con la sua solita cadenza. Certo, nel cuore di qualcuno ci sarà qualcosa di diverso, ma, almeno per la maggioranza di coloro che sono qui, non abbastanza per non ricominciare a lavorare, per non mangiare, per non fare i propri bisogni, per non divertirsi, per non ubriacarsi, per non proseguire con il proprio tran tran. Domani ci sarà il solito programma operatorio, con il nome di Jacopo sostituito da quello di qualcun altro; ci sarà il solito giro in reparto, ma non sarà Jacopo a farlo; il solito rito del caffè davanti alla macchinetta, ma sarà come se Jacopo fosse in ferie. Lo show deve andare avanti!
"Ma questa è la vita!": mi sembra di sentire nelle orecchie la risposta che Jacopo mi darebbe. Già, la sua amica vita, il senso della sua esistenza, la vera dea del suo giuramento di Ippocrate. Eccola lì la vita, che si allontana in un furgone nero per scomparire per sempre dalla mia esistenza.
 
 
 

da: "Cosa sognano i pesci rossi"

Post n°5 pubblicato il 10 Marzo 2008 da selly.81

Ma perchè, quella che sta facendo è vita? Noi veramente gli stiamo regalando una vita? Con i progressi della tecnica medica noi veramente siamo in grado di mantenere in vita organismi che alla medesima non hanno più diritto, ma a che pro?
Prendi il caso del vicino di Tunesi, il numero 6.
Quello era, o meglio è un ottantenne che in realtà non ha una malattia precisa.
Ha tutto che non va. Non saprei nemmeno esattamente come definirlo. Ha tutte le malattie degenerative dell'età: aterosclerosi, artrosi, bronchite cronica, cardiopatia ipertensiva. Insomma un ottantenne che, paragonato a certi vecchietti sprint di pari età, di anni sembra averne duemila.
Viveva solo in casa, trascinandosi dalla poltrona al letto, stanco, almeno credo, della vita. Sicuramente il suo organismo era esausto, della sua situazione psicologica non ne so abbastanza. A casa gli va su la pressione, si sente peggio del solito, chiama i figli. Questi chiamano la guardia medica che accorre a casa, gli misura la pressione che è alle stelle, vede anche che respira un po' a fatica, pensa che se lo lascia a casa magari quello muore la notte stessa e già immagina il titolo sul giornale: Guardia medica lascia morire un arzillo ottantenne nel suo appartamento, per cui ne stabilisce il trasferimento al Pronto Soccorso.
Qui il vecchietto viene sottoposto ad una serie di esami, i quali risultano tutti sballati ma non abbastanza per stabilire una patologia che identifichi una diagnosi precisa se non quella di "usura da esistenza". Ma quest'ultima patologia non trova posto in nessun criterio nosologico di accettazione o di dimissione ospedaliera. Per cui il nostro omino viene ricoverato in Medicina per accertamenti.
La seconda notte di degenza, mentre si sta cercando di mettere ordine tra le sue svariate funzioni alterate, improvvisamente il paziente peggiora.
Perde coscienza, non riesce a respirare, il cuore fa le bizze.
Il medico di guardia vede il paziente peggiorare, non sa bene perchè e non ha le competenze per affrontare una situazione di emergenza. Chiama l'anestesista.
Quest'ultimo capisce che il paziente sta morendo, chiede informazioni al medico di reparto che riesce a dirgli che il paziente è un'iperteso ricoverato per accertamenti: niente tumori nè patologie terminali che potrebbero suggerire in modo forte all'anestesista di astenersi da manovre eroiche. Il paziente non respira, il polso è debolissimo, il tempo per decidere è minimo. L'anestesista intuba il malato, gli fa una flebo con qualche porcheria per recuperare la pressione, gli dà un po' di ossigeno e quello riparte come un orologio.
Il paziente viene ricoverato in Terapia Intensiva: coma di medio grado da ictus cerebrale, assenza di adeguata protezione delle vie aeree per cui resta necessaria l'intubazione, necessità di modesta assistenza respiratoria - come si fa a lasciar morire qualcuno soffocato? -, minima assistenza idrica e alimentare e il paziente va che è una meraviglia. Per mettere fine alla sua vita bisognerebbe sparargli. Prognosi: chissà se il cervello riprenderà a funzionare?
Intanto il processo d'invecchiamento, quell'usura da esistenza che non trova classificazione, va avanti e il vecchietto si decompone lentamente, in un candido letto di Terapia Intensiva, con un respiratore, un monitor e un sondino per la nutrizione. Una piaga da decubito qua, una polmonitina là, un'infenzioncina da catetere, un mughetto al cavo orale eccetera. Un lento, inesorabile, inarrestabile disfarsi in attesa dell'unica conclusione possibile: la morte. Eppure questa morte noi non possiamo nè dargliela nè accelerarla. Ci siamo spinti troppo avanti e tornare indietro non è più possibile. Ma ha senso tutto questo?
... Nel caso di Tunesi la cosa è ben diversa.
Tunesi è cosciente... E' giovane, ed è in queste condizioni a seguito di un intervento terapeutico. Sono tutti fattori che possono cambiare l'ottica. Ma resta di fatto la prognosi pessima perchè lo stadio della neoplasia era troppo avanzato, l'intervento ha causato danni irreparabili e le condizioni generali si stanno progressivamente deteriorando. Oltre a ciò è evidente che ogni giorno in più che la tecnologia di avanguardia riesce a regalargli è una sofferenza in più, la possibilità di una complicanza in più; il tutto senza una logica certezza di sopravvivenza a lungo termine. Certo, ogni giorno in più è un po' di vita in più, ma, mi chiedo, che vita è?

 
 
 

Post N° 4

Post n°4 pubblicato il 21 Febbraio 2008 da selly.81

LENTAMENTE MUORE CHI DIVENTA SCHIAVO DELL'ABITUDINE ...
LENTAMENTE MUORE CHI EVITA UNA PASSIONE ...
LENTAMENTE MUORE CHI NON CAPOVOLGE IL TAVOLO ...
CHI NON RISCHIA LA CERTEZZA PER L'INCERTEZZA ...
CHI NON SI PERMETTE ALMENO UNA VOLTA DI FUGGIRE AI CONSIGLI SENSATI ...
LENTAMENTE MUORE CHI NON TROVA GRAZIA IN SE STESSO ...
CHI DISTRUGGE L'AMOR PROPRIO, CHI NON SI LASCIA AIUTARE ...
... EVITIAMO LA MORTE A PICCOLE DOSI,
RICORDANDO SEMPRE CHE ESSERE VIVO
RICHIEDE UNO SFORZO DI GRAN LUNGA MAGGIORE
DEL SEMPLICE FATTO DI RESPIRARE ...

 
 
 

Il tuo sorriso ...

Post n°3 pubblicato il 21 Febbraio 2008 da selly.81

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l'aria,
ma non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda d'argento
che ti nasce.
Dura è la mia lotta
e torno con gli occhi stanchi,
a volte, d'aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me
tutte le porte della vita.

 
 
 
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