Creato da Ferdinandobiferali44 il 13/03/2014

Silvio Antonini

Parole, suoni e altro dalla Tuscia

 

 

Daniele Camilli, Roberta De Vito, CONCENTRARE, STERMINARE, la recensione

Post n°8 pubblicato il 16 Luglio 2014 da Ferdinandobiferali44
Foto di Ferdinandobiferali44

 

Daniele Camilli, Roberta De Vito, Concentrare, sterminare, Essere è ricordare, Il Campo di concentramento di Vetralla, Orvieto, Intermedia, 2014, pp. 227, € 15,00.

di Silvio Antonini

Daniele Camilli e Roberta De Vito sono conosciuti soprattutto per le inchieste sul territorio inerenti, in particolar modo, le infiltrazioni criminali nel Viterbese, a loro volta correlate con il degrado e l’inquinamento ambientale, cui hanno fatto seguito fortunate pubblicazioni. E mentre i due erano impegnati in ricerche di questo tipo, si è verificata quella che in inglese si chiama Serendipity, termine da noi tradotto in serendipità: trovare, magari per caso, cose più interessanti rispetto a quelle che ci si era prefissati di cercare. Parafrasando Dante: trovare oro mentre si va cercando argento.

In questa circostanza, il fenomeno si è avuto nelle campagne di Vetralla (Vt), con la scoperta di un Campo di concentramento per prigionieri alleati della Seconda guerra mondiale.

La monografia che ne è sortita si divide in quattro parti: il Campo - per cui il lavoro va ad aggiungere un importante tassello per la Storia contemporanea dell’Alto Lazio -, le violenze nazifasciste nel Viterbese (1943-44), la persecuzione degli ebrei, e, in ultimo, un’appendice sul Ghetto di Roma. Diciamo che dalla lettura emerge un dato, se vogliamo, tecnico: la deformazione professionale degli autori. Pur contemplando la medesima deontologia, l’approccio alla storia (storiografia) non ha le stesse modalità di quello alla cronaca (giornalismo). Lo si nota nella bibliografia, ove, eccezion fatta per l’opuscolo sugli ebrei viterbesi di Giovanni Battista Sguario, non è citato alcun testo riguardante la Tuscia negli anni presi in considerazione. Certo, non si tratterebbe di una bibliografia sterminata ma ad ogni modo consistente e valida. Pensiamo, per menzionarne alcuni, ai lavori di Bruno Barbini e Attilio Carosi, Bruno Di Porto, Angelo La Bella e Giacomo Zolla, oppure, a livello audiovisivo, ai documentarti prodotti dal Comitato provinciale Anpi. Il rischio, certo involontario, è quello di pensare inedite determinate informazioni invece già riportate nel corso degli anni. Questa pubblicazione, beninteso egregiamente, poggia infatti nella quasi totalità sugli studi filosofici, psicologici, semantici, sociologici e urbanistici, che stanno benissimo nella storiografia, purché si vadano ad aggiungere alle informazioni, appunto, storiche, che debbono mantenere il fulcro. Va però riconosciuto che qui, in effetti, a tratti si trascrivono e riproducono documenti con nomi e cognomi dei responsabili, diretti e indiretti, della mattanza nazifascista, magari in passato omessi. Buona è pure l’idea stessa di riprodurre in toto alcune carte conservate all’Archivio di Stato di Viterbo e a quello Centrale.

E veniamo alla cifra del lavoro, vale a dire il Campo di concentramento sito in località Mazzocchio di Vetralla, dove, nel biennio 1942-43, furono internati oltre tremila prigionieri di guerra, soprattutto britannici. Del complesso concentrazionario oggi restano delle vestigia, materiali, come risulta dalle foto, e mentali, come emerge dalle interviste dei testimoni locali. Grazie all’impegno degli autori, nel 2009, il sito è stato riconosciuto come Luogo della memoria dal Ministero per i beni e le attività culturali.

Storicamente esatto l’inserimento del Campo nel complesso di sterminio del nazifascismo, giacché vi hanno transitato persone poi deportate a Carpi. Del tutto pertinente, infine, l’accostamento ai Centri, detti, d’identificazione ed espulsione, dove, nell’Europa del III Millennio, sono tornate ad essere scientemente internate migliaia di persone, non a seguito di reati commessi ma, di fatto, a causa dell’appartenenza etnica o dell’esclusione sociale.

 

 

 
 
 

Solange Cavalcante, COMPAGNI DI STADIO, la recensione

Post n°7 pubblicato il 28 Giugno 2014 da Ferdinandobiferali44
Foto di Ferdinandobiferali44

Solange Cavalcante, Compagni di stadio, Sócrates e la Democrazia corinthiana, Roma, Fandango, 2014, pp. 317, € 18,50.

di Silvio Antonini

Un’uscita libraria a ridosso del Campionato mondiale di Calcio del Brasile. Un campionato più che mai discusso: da una parte le manifestazioni popolari contro il dispendio di denaro pubblico sottratto a sanità ed istruzione, dall’altra la convinzione, comunque consolidata, che in quelle mobilitazioni si stia riproponendo il tentativo di destabilizzare un governo ad ogni modo inviso all’attuale ordine mondiale, attraverso manifestazioni e disordini che suscitino simpatia presso l’opinione pubblica occidentale. Una campagna che si avvale anche di bufale e falsi. Per molti si tratterebbe, in buona sostanza, del meccanismo rodato per le cosiddette rivoluzioni colorate ancora in atto.

Delle risposte parziali a questa controversia le troviamo qui, dove Solange Cavalcante, giornalista e traduttrice di origini brasiliane, ricostruisce una storia tutta brasiliana, quella dell’esperimento che passa sotto il nome di Democracia corinthiana, venuto in essere nella squadra bianconera dello Stato di San Paolo del Brasile, il Corinthians, e imperniato sul centrocampista Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira. L’immagine di Sócrates è alquanto nota: tra i più stimati calciatori al mondo, medico, attivista politico e culturale. In Italia lo si ricorda particolarmente per la stagione, non proprio appagante, nella Fiorentina (1984-85), quando dichiarava che si trovava da noi più per studiare Gramsci che per la storia calcistica del Paese e frequentava assiduamente le realtà di base della sinistra. A lui è anche associato il saluto a pugno chiuso, gesto che aveva preso, negli anni Settanta, da un altro calciatore, il connazionale Reinaldo Lima, e che da noi, in contemporanea, faceva Paolo Sollier del Perugia. Quando è venuto a mancare, nel 2011, è infatti alzando il pugno che è stato salutato in tutto il mondo. Tutti questi elementi lasciano già di per loro intuire che una personalità del genere non possa essere passata indenne, e invano, in un mondo come quello calcistico, dove agli atleti si chiede tradizionalmente di anestetizzare le masse con l’intrattenimento e di incensare i poteri vigenti. La storia di Sócrates dimostra, al contrario, che il calcio può essere, ed è, anche un dignitoso veicolo di partecipazione, emancipazione e rivendicazione. Non è un caso che questa storia si sia verificata in Brasile, tra i paesi più legati al calcio, e dove il golpe militare del 1964, orchestrato dalla Cia soprattutto attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione, farà da battistrada per colpi di stato più celebri, come quello in Cile e poi in Argentina. Qui la tecnica si affinerà definitivamente: non più carri armati e disordini per le strade ma gente fatta sparire nel nulla e nel silenzio. Contro la feroce giunta militare si solleverà, oltre alla guerriglia, una mobilitazione popolare diffusa riguardante, a livello culturale, soprattutto la letteratura e la musica, censurate e perseguitate. Nel futbol, se Pelé appoggerà i militari sostenendo che i brasiliani fossero impreparati al voto, altri calciatori si batteranno per le libere elezioni del Presidente. È un sommovimento che si fa largo negli anni Settanta, con denunce politiche più o meno esplicite, attraverso l’adozione di atteggiamenti anticonformistici nell’aspetto come nelle abitudini, con l’assunzione di alcol e sigarette. Comportamenti certo insalubri, che, però, suonavano come un affronto al regime, con la volontà dei giocatori di riprendersi la propria vita.

Questo è il retroterra che permette la nascita della Democrazia corinthiana, cui prenderanno parte anche altri nomi celebri poi venuti a giocare in Italia, come Zico e Wálter Casagrande. Agli inizi anni Ottanta, mentre in Occidente si compie il riflusso dei movimenti, un’intera squadra, attraverso assemblee, votazioni e decisioni condivise tra calciatori, personale, guardarobieri etc., prende direttamente in mano le redini del proprio destino e lancia una sfida al governo golpista, ormai alle sue battute finali, all’omologazione culturale e all‘autoritarismo.

Non c’è qui spazio per il mito: lo stesso protagonista - se è vero che nei nomi delle persone c’è un destino - è descritto con tutti i suoi dubbi, mentre altri giocatori, come spesso avviene, hanno dimostrato perplessità nel “buttarla in politica”. Il libro si spinge poi fino a lambire la cronaca e cioè i Mondiali in corso.

L’esperienza corinthiana durerà, in definitiva, un paio di anni, lasciando amarezze e delusioni. Ma si era seminato bene: tutte le realtà di autogestione che si concretizzeranno in futuro, nel calcio, in altri sport, nelle palestre popolari, così come nelle tifoserie antirazziste e antifasciste, trovano sicuramente nella Democrazia di Sócrates e compagni il grande precedente. È proprio di questi giorni la nascita in Italia, a seguito di una riunione tenuta presso la Palestra Valerio Verbano di Roma, del progetto Conasp, Coordinamento nazionale dello sport popolare, per uno sport liberato dalle catene del profitto, che possa divenire effettivamente fattore di emancipazione sociale.

Recensione dedicata alla memoria di Ciro Esposito

 

 
 
 

Isabella Lorusso, DONNE CONTRO, La recensione

Post n°6 pubblicato il 14 Maggio 2014 da Ferdinandobiferali44
Foto di Ferdinandobiferali44

 

Isabella Lorusso, Donne contro, Castellana Grotte, Csa, 2013, pp. 143, € 12,00.

di Silvio Antonini

“Interviste a dieci donne anarchiche, marxiste e femministe incontrate tra la Catalogna, la Francia e l’Italia, dal marzo 1997 al febbraio 2013”. Questo è il sottotitolo dell’ultima pubblicazione di Isabella Lorusso, originaria della Puglia, laureata in Scienze politiche a Bologna, attivista politica e, soprattutto, girella nel mondo latino, a caccia di storie e testimonianze, in particolare di genere. La sua peculiarità è indubbiamente quella di ricavare, da eventi storici più o meno conosciuti, aspetti e vissuti che portano aldilà delle vulgate ufficiali e delle informazioni di pubblico dominio.

Ne è palese dimostrazione un precedente lavoro dato alle stampe quattro anni fa: Spagna ‘36, Voci dal Poum (Empoli, Ibiskos, 2010), interviste a protagonisti e testimoni delle tragiche vicende del Partido obrero di unificaciòn marxista. Il partito comunista ereticale, erroneamente reputato trotzkista, nato a ridosso della Guerra sociale spagnola durante la quale subirà una tremenda repressione dalle stesse istituzioni repubblicane, con l’accusa, ad ora infondata, d’intelligenza con il nemico.

Donne contro, senza certo volerne sminuire la portata, anzi, ne appare come una sorta d’appendice, poiché le interviste riguardano nella quasi totalità quel frangente storico e ciò che ne è conseguito. Fa eccezione la testimonianza di Alicia Ilda Matural Castillo, inerente Cuba. A parlare sono, quindi, dieci voci femminili di poumiste e anarchiche, anche qui con un’eccezione, quella di Manola Rodriguez, a suo tempo militante nella Gioventù del Partito comunista spagnolo. Spicca, tra le altre, l’esperienza libertaria delle Mujeres libres, nata su iniziativa di donne con il fine di combattere il maschilismo secolare presente anche laddove, per astratto, proprio non dovrebbe starci. Dove il padre, acceso militante anarcosindacalista, tra le mura domestiche era un tiranno, o il compagno accanto, sebbene nel fuoco della lotta, non esitava a considerare: “Fai tanto la libertaria ma se ti dico di venire al letto con me tu non ci vieni”.

Le persone intervistate sono, ovviamente, tutte assai in là con gli anni; alcune ospitate in case di riposo, dopo una vita segnata da lutti e privazioni e passata tra la cospirazione, le guerre, il carcere, i campi di concentramento e l’esilio. Inevitabili, va da sé, i confronti dei propri trascorsi con il presente che è sempre, o quasi, segnato dalle miserie. Valga su tutte la riflessione di Concha Perez, operaia e miliziana anarchica durante la Guerra sociale, che dice: <Adesso la gente è più conformista, non lotta per quello in cui crede e, anzi, ormai non crede più in nulla. Anche in quel periodo era difficile. Nella fabbrica dove lavoravo c’era una minoranza che non voleva la Rivoluzione. Bisognava lottare contro l’egoismo, contro la “propria” casa, la “propria” vita, la “propria” sposa, la “propria” famiglia, e c’era chi non voleva dividere con gli altri quello che aveva; e tutt’ora è così. È un grande ideale e io ce l’ho qui nel cuore, ma una cosa è pensarlo, un’altra cosa è metterlo in pratica. Non realizzammo quello che avremmo voluto e me ne dispiace, però almeno ci provammo. Sono molto orgogliosa di quello che cercammo di fare. Non tutta la gente reagì bene, ma noi ci provammo. Farei esattamente quello che ho fatto; forse qualcosa in più>.

Per contatti con l’autrice: isabella_lorusso@yahoo.es

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Antonio Bacciocchi, STATUTO 30, LA RIBELLIONE ELEGANTE. La recensione

Post n°5 pubblicato il 31 Marzo 2014 da Ferdinandobiferali44
 
Foto di Ferdinandobiferali44

 

Antonio “Tony Face” Bacciocchi, Statuto 30, La Ribellione elegante, Biografia modernista a più voci, Milano, Vololibero, 2014, pp. 125, € 13,00.

di Silvio Antonini

“Dopo dieci anni ho rivisto l'amico Bob, con una giacca di cuoio con scritto su Giorno per giorno io vivo: io sono un mod. Era firmato da Bob, uno dei mods". Nel 1965, agli inizi dell’epoca beat italiana, esce questo brano, Uno dei mods, di Franco Migliacci, cantato da Ricky Shayne, per enfatizzare il conflitto che si consumava in quel periodo per le strade della Gran Bretagna. Da una parte i rockers, evoluzione dei teddy boys del decennio precedente, perciò motociclisti con giacche di pelle e atteggiamenti da duri, che in quegli anni, tra l’altro, iniziavano ad assumere posizioni conservatrici e razzisteggianti, a dispetto della musica nera ascoltata e del fatto che a Genova, ad esempio, fossero stati proprio i teds a scatenare gli scontri nel luglio 1960 contro il Congresso Msi. Dall’altra parte i mods, abbreviazione di modernists, contraddistinti, invece, per lo stile e l’eleganza, i parka (quest’inverno tornati di gran moda), gli scooters italiani come mezzo di trasporto, la passione per la musica soul e una visione sociale e politica tendenzialmente progressista. Il brano citato è, quindi, fuorviante: la giacca di cuoio era un capo rocker, come conciato da rocker era il cantante stesso. Da noi, infatti, nonostante il soul avesse trovato subito dei valorosi interpreti, della cultura mod all’epoca arrivò solo qualcosa nel look, confuso però con il beat dei primordi, e poco altro.

Con la fine degli anni Settanta, sempre in Gran Bretagna, il punk azzera tutto e apre la strada a quel revival delle varie culture stilistiche e musicali, compresa quella mod, che caratterizzerà l’ultimo quarto del XX Secolo. Questo è il retroterra che permette, nel 1983, la formazione degli Statuto, dal nome della piazza di ritrovo dei mods torinesi. Siamo negli anni in cui in Italia vedono l’apice la new wave, e, più nel sottosuolo, un punk hardcore politicizzato, detto anarcopunk, destinato a fare scuola in tutto il mondo. Da lì gli Statuto non si sono mai fermati, attraversando, sostanzialmente indenni, trent’anni di cultura musicale, e non solo, italiana, con quel cerchio tricolore proprio dei mods che inizialmente creava qualche disagio, giacché lo si ricordava come stemma dei sambabilini. Andiamo dal periodo del riflusso, passando per il boom dei Centri sociali, fino ad arrivare ai giorni nostri, cioè alla smaterializzazione della musica e al post-contemporaneo, non senza incomprensioni e dissidi del resto inevitabili.

Quando in Italia si dice mod non si può non pensare all’aspetto e ai balletti sul posto del frontman Oskar Giammarinaro, così come quando si dice ska revival non si può non pensare agli Statuto che ne sono stati tra i principali esponenti, ispirati soprattutto dai Madness di cui hanno ripreso movenze e caratteri. Se lo ska ha rappresentato la cifra fondamentale, non sono mancati, tra cover, traduzioni e pezzi originali, il pop, le ballads e, soprattutto, il soul, di non facilissima esecuzione, perché solitamente comporta l’uso di fiati, archi e una notevole estensione vocale.

Nella loro immagine pubblica, gli Statuto hanno ricoperto un ruolo singolare. Smentiscono nei fatti il cursus honorum che Alberto Arbasino ha riservato inesorabilmente ai personaggi pubblici “Giovani promesse - soliti stronzi - venerabili maestri”. Quella statutaria non è infatti la classica biografia del gruppo partito come militante che una volta venuto in contatto con la mondanità rivede il tutto; e si potrebbe elencare una serie infinita di nomi. Gli Statuto non si sono mai sottratti ai passaggi televisivi - si pensi al Sanremo 1992 -, ai contratti con le majors discografiche, così come alle collaborazioni, le più curiose, con i nomi mainstream, o ex tali, senza per questo ritrattare le proprie posizioni originarie. Seppur non ideologico, quello degli Statuto è infatti un impegno quanto mai politico, nell’accezione etimologica del termine, poiché riguarda tutte le problematiche della polis: ambiente (contro la Tav, nella fattispecie), lavoro, razzismo, repressione etc.

Siccome, poi, “A Torino c’è una squadra che si chiama il Torino”, non si può tralasciare la passione granata del gruppo, dichiarata in diverse canzoni e praticata con una costante vicinanza al mondo ultrà. Si pensi anche al sostegno dato alla battaglia contro la Tessera del tifoso.

Questa biografia, a cura di Antonio Bacciocchi, musicista, produttore e scrittore, si divide in capitoli destinati alle diverse fasi storiche della band, in cui all’introduzione dell’autore fanno seguito le testimonianze dirette dei componenti della band. In appendice, gli affettuosi omaggi degli amici.

Ad arricchire la pubblicazione, infine, un denso apparato fotografico dove gli Statuto sono ritratti, nel corso degli anni, sempre e comunque elegantemente rudi.

 

 

 
 
 

Valerio Piccioni, MANLIO GELSOMINI, CAMPIONE PARTIGIANO. La recensione

Post n°4 pubblicato il 20 Marzo 2014 da Ferdinandobiferali44
Foto di Ferdinandobiferali44

Valerio Piccioni, Manlio Gelsomini, Campione partigiano, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2014, pp. 174, € 14,00.

di Silvio Antonini

Valerio Piccioni, romano, giornalista presso la “Gazzetta dello sport”, rappresenta a pieno titolo quei cronisti e quegli scrittori capaci di andare oltre la mera cronaca e raccontare persone, luoghi e momenti delle attività agonistiche divenuti crocevia di vicende umane, politiche e sociali nella storia contemporanea.

Un’inchiesta sul doping del 1997 gli è valsa il Premio Saint Vincent. Su sua iniziativa, nel 2000, è stata istituita la Gara podistica in memoria del maratoneta-poeta argentino, desaparecido, Miguel Benancio Sanchez. Nella sua bibliografia si annoverano pubblicazioni sul Pasolini sportivo, sullo stadio Paolo Rosi di Roma e sul maratoneta etiope Bikila.

Stavolta, a catturare l’attenzione del cronista, è la storia di Manlio Gelsomini, tra i 335 assassinati alle fosse Ardeatine la mattina del 24 marzo 1944. Una Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, di cui una copia è appuntata sulla bandiera del Comitato provinciale di Viterbo, perché Manlio aveva contribuito ad organizzare nella Tuscia la Lotta partigiana.

La monografia integra e approfondisce quegli aspetti accennati appena, o trascurati del tutto, nei martirologi che poco dicono sull’avventura umana di questo medico e atleta che, riporta la motivazione della Medaglia: “Barbaramente trucidato insieme agli altri martiri delle Fosse Ardeatine, donava, sublime olocausto, la sua vita fiorente per la salvezza dei compagni di fede e per il riscatto della Patria oppressa”.

Manlio Gelsomini, nato a Roma il 7 novembre 1907 (dieci anni esatti prima della Rivoluzione d’ottobre); nel 1921, quattordicenne, aderisce al fascismo. Compie gli studi liceali ad Ancona, quando si manifesta in lui l’interesse per diverse discipline sportive, in particolare per l’atletica, da velocista. In questa veste, nel 1927, è iscritto d’ufficio alla nascente As Roma, fusione tra più gruppi sportivi della Capitale. L’atleta universitario Gelsomini, per la velocità, “impressiona in pista e fuori” e consegue diversi premi. L’anno dopo si tengono a Parigi i Mondiali universitari e le delegazioni italiane sono oggetto di contestazioni da parte degli antifascisti. Durante la partita Italia - Cecoslovacchia è proprio Gelsomini a menare le mani contro i contestatori, ottenendo l’encomio dalla Federazione italiana di atletica leggera del Lazio “a ricordo del doveroso gesto compiuto”. La carriera velocistica cede però il passo agli studi in medicina per cui Manlio si laurea a Siena nel 1931. Ammesso alla Scuola di sanità militare di Firenze, si congeda con il grado di sottotenente. Torna a Roma e apre un proprio studio medico. Poi verrà la guerra e nella coscienza del promettente medico deve succedere qualcosa. Le motivazioni che portano i tanti a passare dal fascismo all’Antifascismo sono molteplici. C’è quella che in sede storiografica sarà chiamata “sinistra fascista”: la fronda sindacale e studentesca, ora censurata ora tollerata dal regime, insofferente verso un fascismo che di antiborghese aveva solo le formalità e, perciò, guarderà al comunismo nel nome di una vera rivoluzione sociale. Poi c’è chi, dinanzi alla Guerra d’Africa, di Spagna, e mondiale, inizierà a provare un disgusto che, man mano, si trasformerà in aperta avversione. Sta di fatto che Gelsomini, il 9 settembre 1943, sarà a porta S. Paolo a difendere la città dai tedeschi. Da quel luogo inizia la sua attività cospirativa che lo vedrà come esponente di spicco della Resistenza nel Lazio. Per essa metterà a disposizione tutte le sue conoscenze e le sue ricchezze, cioè i proventi dal brevetto d’un suo farmaco per aumentare il ferro nel sangue. Dagli scritti giunti a noi, il pensiero di Manlio sembra vagheggiare una sorta di comunismo cristiano senza esplicitare una precisa collocazione politica. Sarà, comunque, lui a guidare il Raggruppamento monte Soratte, vale a dire il coordinamento della bande partigiane del Cln operanti nell’Alto Lazio. Poi l’arresto, il 13 gennaio 1944, in un bar sulla via Flaminia; un tradimento in circostanze misteriose com’è stato per altri protagonisti della cospirazione partigiana finiti nelle mani degli aguzzini nazisti a Roma. Da qui la detenzione in via Tasso, le torture e, infine, la morte, a trentasei anni, nelle cave Ardeatine, carnaio rappresentativo di tutta l’umanità e di tutte le forze che avevano animato l’Antifascismo e la Resistenza. Il nome di Gelsomini tornerà alle cronache il 12 giugno del 1948, nel processo contro Kappler, quando la madre, Sparta, anch’ella detenuta dai nazisti per rappresaglia, inizia ad inveire contro il gappista di via Rasella, Rosario Bentivegna, accusandolo della morte del figlio per non essersi consegnato come i nazifascisti avevano chiesto. Un bando mai esistito, un falso che la propaganda aveva fatto assurgere a verità.

Il libro, piacevole alla lettura, si basa su fonti giornalistiche, bibliografiche, testimonianze orali ed archivi pubblici, tra Roma e Viterbo. Alla ricerca delle persone, dei luoghi e delle carte è dedicato un intero capitolo in appendice. A fare, infine, da leitmotiv è la suggestione che suscitano i confronti tra i documenti (impressionante quello tra la scheda medica della visita di leva e il referto del recupero della salma), i luoghi della micro e macrostoria e le ricorrenze, le coincidenze del tempo, perché, si scrive, le date hanno un’anima.

 

 

 
 
 
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