Oggi vorrei parlare di una espressione che in un paese normale dovrebbe essere abbastanza desueta, ma che invece in Italia riassume un principio che sembra non essere ancora applicato o per lo meno è molto abusato a chiacchiere ma meno a fatti. Questo è il caso delle PARI OPPORTUNITA’. In Italia se ne parla quasi sempre ed in ogni ambito di stabilire regole di partenza uniche tra uomini e donne nella vita civile, nel lavoro e nella politica. Esiste addirittura un Ministero per diffondere l’uguaglianza tra i generi. Le donne si sono affermate in diversi campi, come la magistratura, la sanità ed il giornalismo, lo vediamo spesso anche dai mezzi d’informazione. Però ci sono ancora moltissimi campi in cui le donne hanno ancora difficoltà a farsi valere. Infatti, secondo un’indagine di Fondirigenti del 2004, i manager italiani sono 84.000 e di questi solo 140 sono donne. Ci sono 2 donne ogni 100 nei Consigli di Amministrazione aziendali ed ancora peggio va nella politica: la percentuale delle parlamentari italiane non supera il 10 %. Il Wall Street Journal ha incoronato le prime 50 manager donna nel mondo e, udite udite, nessuna è italiana. Addirittura ci sono 3 cinesi e 2 indiane.Insomma, una catastrofe la quale, secondo me, non può essere solo addebitata al solito vecchio stereotipo del paese maschilista, con una cultura maschilista e via dicendo. Insomma se le donne italiane sono tanto discriminate e scoraggiate, che cosa dovrebbero dire le cinesi o le indiane? Riporto un commento di Maria Laura Rodotà sul Corriere della Sera di ieri: "Diciamola tutta. Noi italiane infiliamo figure da cioccolataie una via l’altra. Sempre in infima classifica per rappresentanza politica. Ignorate se si parla di donne potenti dell’economia. Prese in giro a manetta per l’abuso di anatomia femminile in tv e dintorni. Siamo un paese maschilista, certo. Ma dar la colpa solo ai maschi non basta e non vale.C'è ahimè qualcosa, in noi femmine italiche, che ci frena. Un atavico imbarazzo nel chiedere, nel darsi da fare, nel sognare. Magari rafforzato dalla consuetudine, dalla correttezza politica anti-carriera, o dalla pigrizia. E una generale tendenza ad arrendersi troppo presto. Perché i capi non aiutano, per far contento il fidanzato, per paura di cambiare. Così ci si fa sorpassare, non ci si fa rispettare. E ci si ritrova fuori classifica e pure stanche; tra lavori senza stimoli, partners e figli. Ma dobbiamo essere ottimiste, le più giovani ce la faranno. Lo sapremo dal Wall Street Journal perché lo faranno all’estero, si teme." Ci sono, è vero, molti altri problemi. E’ l’Unione Europea che ne fa una corretta diagnosi dei ritardi italiani: troppe donne inattive, scarsa valorizzazione del lavoro femminile, marcate e persistenti disparità di genere con effetti negativi sui tassi di crescita e fecondità. Anche rispetto agli altri paesi europei spendiamo pochissimo per le politiche verso le donne e i bambini. Ora con la finanziaria qualcosa si è raggranellato per politiche sugli asili nido e sui congedi parentali ma che comunque sono ben poca cosa rispetto a quanto si spende complessivamente per il welfare.Ma bastano queste pur evidenti difficoltà a giustificare una classifica europea e mondiale così impietosa e deludente? Oppure ci sono delle responsabilità anche indirette delle stesse donne, come diceva la Rodotà?
DONNE ITALIANE: Perché sono le ultime?
Oggi vorrei parlare di una espressione che in un paese normale dovrebbe essere abbastanza desueta, ma che invece in Italia riassume un principio che sembra non essere ancora applicato o per lo meno è molto abusato a chiacchiere ma meno a fatti. Questo è il caso delle PARI OPPORTUNITA’. In Italia se ne parla quasi sempre ed in ogni ambito di stabilire regole di partenza uniche tra uomini e donne nella vita civile, nel lavoro e nella politica. Esiste addirittura un Ministero per diffondere l’uguaglianza tra i generi. Le donne si sono affermate in diversi campi, come la magistratura, la sanità ed il giornalismo, lo vediamo spesso anche dai mezzi d’informazione. Però ci sono ancora moltissimi campi in cui le donne hanno ancora difficoltà a farsi valere. Infatti, secondo un’indagine di Fondirigenti del 2004, i manager italiani sono 84.000 e di questi solo 140 sono donne. Ci sono 2 donne ogni 100 nei Consigli di Amministrazione aziendali ed ancora peggio va nella politica: la percentuale delle parlamentari italiane non supera il 10 %. Il Wall Street Journal ha incoronato le prime 50 manager donna nel mondo e, udite udite, nessuna è italiana. Addirittura ci sono 3 cinesi e 2 indiane.Insomma, una catastrofe la quale, secondo me, non può essere solo addebitata al solito vecchio stereotipo del paese maschilista, con una cultura maschilista e via dicendo. Insomma se le donne italiane sono tanto discriminate e scoraggiate, che cosa dovrebbero dire le cinesi o le indiane? Riporto un commento di Maria Laura Rodotà sul Corriere della Sera di ieri: "Diciamola tutta. Noi italiane infiliamo figure da cioccolataie una via l’altra. Sempre in infima classifica per rappresentanza politica. Ignorate se si parla di donne potenti dell’economia. Prese in giro a manetta per l’abuso di anatomia femminile in tv e dintorni. Siamo un paese maschilista, certo. Ma dar la colpa solo ai maschi non basta e non vale.C'è ahimè qualcosa, in noi femmine italiche, che ci frena. Un atavico imbarazzo nel chiedere, nel darsi da fare, nel sognare. Magari rafforzato dalla consuetudine, dalla correttezza politica anti-carriera, o dalla pigrizia. E una generale tendenza ad arrendersi troppo presto. Perché i capi non aiutano, per far contento il fidanzato, per paura di cambiare. Così ci si fa sorpassare, non ci si fa rispettare. E ci si ritrova fuori classifica e pure stanche; tra lavori senza stimoli, partners e figli. Ma dobbiamo essere ottimiste, le più giovani ce la faranno. Lo sapremo dal Wall Street Journal perché lo faranno all’estero, si teme." Ci sono, è vero, molti altri problemi. E’ l’Unione Europea che ne fa una corretta diagnosi dei ritardi italiani: troppe donne inattive, scarsa valorizzazione del lavoro femminile, marcate e persistenti disparità di genere con effetti negativi sui tassi di crescita e fecondità. Anche rispetto agli altri paesi europei spendiamo pochissimo per le politiche verso le donne e i bambini. Ora con la finanziaria qualcosa si è raggranellato per politiche sugli asili nido e sui congedi parentali ma che comunque sono ben poca cosa rispetto a quanto si spende complessivamente per il welfare.Ma bastano queste pur evidenti difficoltà a giustificare una classifica europea e mondiale così impietosa e deludente? Oppure ci sono delle responsabilità anche indirette delle stesse donne, come diceva la Rodotà?