IL DUBBIO

SPIRITO DI SERVIZIO E BENE COMUNE ....


Sto leggendo qualche spezzone dell’opera di filosofia politica “De Republica”, scritta da Marco Tullio Cicerone. Questa descrive, attraverso dei dialoghi, quello che è il pensiero del famoso uomo politico ed oratore romano riguardo allo Stato, i cittadini ed alla migliore forma di governo.Tralasciando quello che era l’opinione di Cicerone sul suo sistema di governo ideale, che doveva essere una specie di miscuglio tra potere aristocratico, monarchico e democratico insieme (in modo da garantire stabilità), ci sono molte cose interessanti riguardo alla figura dell’uomo di governo o politico “ideale”, chiamato di volta in volta “princeps”, ossia “primo cittadino” o “rector et gubernator rei publicae”, ovvero reggitore e governatore dello Stato. Vediamo insieme uno dei passi più importanti:“Se una società sceglie a caso chi la debba guidare andrà ben presto in rovina, come la nave in cui si sia messo a caso al timone qualcuno dei passeggeri. Un popolo libero sceglierà coloro cui intenda affidarsi e, se ci tiene davvero alla propria salvezza, sceglierà i migliori. Poiché non c'é dubbio che la salvezza dei popoli sia riposta tutta nel senno dei cittadini migliori, e questo. sopratutto, perché la natura ha voluto che non solo i più dotati di virtù e di coraggio guidassero i deboli ma che questi, alla lor volta, amassero obbedire a quei sommi. Si vuole che questa ottima forma di governo sia rovinata dalle aberrazioni del giudizio popolare che, non riconoscendo la virtù vera, che é tanto rara in realtà quanto difficile ad esser riconosciuta, considera il primo ricco spendaccione che capiti, o il primo nobile che abbia a portata di mano, come il migliore degli uomini. E - a quando quest'errore del volgo ha fatto sì che la repubblica fosse dominata non dalle virtù ma dalle ricchezze dei pochi, quei dominatori tengono assai forte al loro nome di ottimati pur senza avere nulla di ottimo. Le ricchezze infatti, il nome e la potenza, privi di quella esperienza ch'é la miglior maestra della vita e dell'arte di comandare agli altri, non son più che cose piene di turpitudini e d'insolente superbia; né c'é forma di governo più brutto di quello in cui i più ricchi paesano per migliori. E che ci potrebb'essere, invece, di più illustre di uno Stato governato dalla virtù, in cui, cioè, quello che comanda agli altri non é servo egli stesso d'alcuna passione, ed ha per il primo fatto le cose cui invita ed esorta i cittadini, e non impone al popolo leggi cui egli stesso non ubbidisca; ma propone come legge la propria vita ai concittadini? E se quest'uno potesse agevolmente tutto concepire, non ci sarebbe certo bisogno di più; e se tutti potessero vedere l'ottimo e in esso consentire, nessuno chiamerebbe al governo una scelta di ottimati. La difficoltà di veder chiaro é quella che ha fatto passare lo Stato dal re ai grandi, e gli errori e 1'audacia dei popoli dalla democrazia all'oligarchia. Così, tra l'impotenza di un solo e l'accecamento della moltitudine, l'aristocrazia ha occupato il mezzo in funzione di perfetta moderatrice: e finché gli aristocratici difendono davvero lo Stato, i popoli non possono essere che felicissimi, liberi da ogni cura e da ogni pensiero, avendo affidato la cura della loro quiete ad altri che si sono assunti l'obbligo di difenderla e che si guarderebbero bene dal far credere al popolo che i grandi trascurino i suoi interessi. L'eguaglianza assoluta dei diritti che pretenderebbero i popoli liberi non esiste mai in pratica, prima di tutto perché quegli stessi popoli, per quanto sciolti e sfrenati, accumulano sempre cariche su qualcuno e sanno ben scegliere uomini e dignità, e poi anche perché quella che si chiama 1'eguaglianza sarebbe, in realtà, la cosa più iniqua immaginabile. Quando i sommi e gli infimi di ogni popolo devono avere gli stessi onori, l'eguaglianza diventa la più ingiusta delle cose, e non é possibile quindi che possa esistere un'eguaglianza di questo genere in quegli Stati che son governati veramente dai migliori. Ecco quanto, pressappoco, o Lelio, sogliono dire quelli che ammirano il governo aristocratico".Proviamo un po’ a riflettere su queste affermazioni, le quali chiaramente vanno contestualizzate ai tempi di Cicerone (più di 2000 anni fa nella delicata fase di passaggio da Repubblica a Impero). Certo, nel marasma politico attuale, queste rappresentano sicuramente un insegnamento morale per ogni individuo chiamato a rappresentare la classe dirigente nazionale, sia politica che amministrativa.C’è il cosiddetto “spirito di servizio”: ovvero, si è al servizio di una comunità quando l’uomo politico è in grado di sacrificare ogni interesse personale per il bene della collettività. Si è chiaramente anche al servizio di un’idea, la quale però deve comunque avere un ancoraggio nella comunità in quanto altrimenti si rischia di essere uno strumento integralista che si erge a giudice del mondo.Però bisogna anche dire che queste immagini così perfette ed idealistiche possono sviarci dalla realtà. E cioè, come non esiste la “vera bellezza”, la “vera moralità”, ecc. così non esiste il “vero uomo politico”. Non dimentichiamo che anche Cicerone non è stato esente da errori ed incoerenze nella sua vita politica, cambiando casacca ed elogiando o attaccando di volta in volta i grandi di quel periodo (Catilina, Cesare, Pompeo, Marco Antonio), ma di questo ritengo che qualcuno che abbia fatto degli studi classico-umanistici possa dire qualcosa di più in merito al grande oratore.Occorre certamente una moralità nel servizio pubblico e politico, inteso come attaccamento al bene comune e bisogna esigere allo stesso tempo che, per chi viene investito da questi poteri, abbia veramente a cuore i problemi del paese e li affronti con competenza e decisione. Inutile nasconderlo, in Italia oltre che alla dubbia moralità e scarso spirito di servizio di molti uomini politici, abbiamo anche un deficit decisionale che da anni blocca molte riforme, infrastrutture e  leggi importanti. A parte il caso odierno in cui Prodi si trova continuamente costretto a mediare con i partiti più piccoli della sua risicata maggioranza, bisogna anche dire che anche ai tempi di Berlusconi, che godeva di una maggioranza schiacciante in Parlamento, l’immobilismo regnava comunque, costringendo spesso il Cavaliere a dire: “Non mi lasciano lavorare”.
Forse per questo che noi italiani invidiamo i nostri cugini d’oltralpe i quali, con Mons. Le President Sarkozy, hanno sicuramente una figura forte e determinata, che, aldilà delle ideologie, interpreta veramente il desiderio di nuovo e di cambiamento dei francesi. Oltretutto, pur coperto di critiche dai giornali locali, riguardo alla sua storia d’amore con Carla Bruni ha deciso che non si dovesse nascondere nulla in quanto “un presidente deve agire nella trasparenza verso il suo popolo”. E’ il classico esempio di uno statista che sfida l’impopolarità delle sue decisioni pur di far applicare le sue leggi dettate dalla convinzione che queste rappresentano il bene comune del paese.In conclusione, però ritengo che le doti che ho esposto sopra riguardo alla classe politica dovrebbero essere virtù che andrebbero praticate da tutti noi, perché in qualche modo siamo un po’ tutti responsabili della cosa pubblica (ogni riferimento ai fatti dell’emergenza rifiuti della Campania non è casuale).La classe dirigente dovrebbe in teoria essere migliore del popolo che rappresenta (come auspicava Cicerone con gli ottimati), ma solo se la maggioranza dei cittadini si sente responsabile e compartecipe del bene comune allora ci può essere una speranza di reale cambiamento positivo del nostro Paese.Care amiche ed amici, la prossima settimana sarò in vacanza in Trentino con la mia famiglia. Non so se riuscirò a tenermi in contatto con voi, tra una sciata e l’altra (speriamo).Un caro saluto a tutti.Vito