IL DUBBIO

QUESTIONE MERIDIONALE, SETTENTRIONALE: MA ... L'ITALIA?


Tutto il giro di polemiche e dichiarazioni intorno alla cosiddetta questione meridionale con annesso lo spaventoso divario economico e sociale che lo accompagna, sembra che qualche risultato lo ha prodotto.Ovvero soldi, soldi alla Sicilia … si dice in gergo pochi, maledetti e subito. Ma non sono pochi più di 4 miliardi di euro relativi ai FAS (fondi per le aree sottoutilizzate).Alla fine la ricetta è sempre quella in barba a tutte le buone intenzioni. Chi protesta di più ottiene i soldi, vedi anche tutte le sparate intorno al minacciato e fantomatico “partito del Sud”, da contrapporre allo strapotere della Lega nel governo italiano. Ma perché poi per adesso solo alla Sicilia? E’ evidente che c’è di mezzo la figura carismatica di Raffaele Lombardo, presidente della regione Sicilia che ha fatto la vece grossa ed ha mostrato una strategia che a conti fatti ha pagato e bene. Per lui ed i siciliani, chiaramente. A conti fatti poi bisognerà vedere se queste risorse verranno utilizzate al meglio.Ma il problema è un altro. Ovvero quanto ci sia ancora rimasto di coscienza nazionale, amor di patria, senso dello stato tra le nostre classi dirigenti.Qui non è un problema di destra o sinistra: qualunque governo di qualunque colore ha sempre mostrato di non avere per nulla a cuore gli interessi di unità nazionali in favore di piccoli interessi di bottega, di consenso o elettoralistici.Qui di seguito un editoriale molto bello di Ernesto Galli della Loggia che condivido ed appoggio in pieno: LE COLPE DELLE CLASSI DIRIGENTIL’Italia dimenticataLe nazioni sono un prodotto complesso. Il materiale di base per costruirle lo fornisce perlopiù la storia, ma chi le porta ad esistere e le fa vivere, dandogli forma ideale e statale, non sono i singoli né le masse: sono i gruppi dirigenti. Cioè innanzi tutto le classi politiche (e dunque la politica). Perciò, se lo stato comatoso in cui versano le celebrazioni per il 150˚anniversario dell'unità d'Italia significa qualcosa, esso significa che ai politici di questo Paese, tanto di destra come di sinistra, la suddetta unità, e cioè alla fine l'Italia, appaiono tutto sommato irrilevanti. Prova ne sia, come è stato giustamente osservato, che nessuno di loro è intervenuto nel dibattito accesosi sul tema in questi giorni. Non voglio dire che i nostri uomini politici non nutrano un legame storico e sentimentale con il loro Paese. Voglio dire che l'Italia come entità nazionale, come organismo collettivo, come idea di una sorte comune dotata di qualche senso, tutto questo non entra più in alcun modo nel loro discorso, non è più un dato politico effettivo produttore di emozioni, di analisi, di programmi. Paradossalmente, l'Italia è un dato politico reale esclusivamente per la Lega: ma lo è solo perché oggetto della sua radicale avversione. E' significativo, peraltro, che perfino alle più ripugnanti proposte leghiste, come quella recentissima di imporre agli insegnanti un esame di cultura e lingua locali, i suoi avversari, lungi dal contrapporre l'idea d'Italia e di unità nazionale, si limitino a invocare, come ha invocato il presidente Fini, il «rispetto della Costituzione ». Quasi che dell'Italia non possa pensarsi altra difesa, ormai, che quella riservata a un bene «giuridicamente protetto». Oggi, insomma, salvo che per la Lega, l'Italia non esiste più per le nostre culture politiche. Non era così nella prima Repubblica, la quale, pur se nata in un momento in cui la coscienza nazional- statale era stata messa a dura prova dalla catastrofe bellica, vide tuttavia la non infeconda dialettica tra culture politiche ognuna in stretto rapporto con la vicenda nazionale e con una forte idea d'Italia. Si pensi da un lato alla cultura cattolica e a quella comunista — entrambe legate al dato centrale della nostra storia rappresentato dalla lontananza delle masse popolari rispetto alla costruzione dello Stato unitario — e dall'altro alla cultura laico-socialista, viceversa appassionatamente identificata con tale costruzione. Uomini come Terracini e Amendola, Scelba o Moro, Spadolini o Craxi, furono altrettanti personaggi- simbolo di una storia tutta e consapevolmente «italiana». Una storia che Mani Pulite ha inghiottito e dissolto. Da allora dell'Italia, della sua vicenda e dunque della sua unità, tranne la Lega che le ha costituite a suoi bersagli polemici, le culture politiche post-Tangentopoli non sanno che cosa farsene. «Forza Italia» fu solo uno slogan indovinato preso in prestito dagli stadi, riflesso adeguato di una politica ridotta a scontro di tifoserie; nel mentre a sinistra, tra Pds, Diesse e poi Partito democratico, in omaggio a un cosmopolitismo da provinciali scompariva perfino ogni menzione di appartenenza nazionale. Di recente, sui manifesti ufficiali del partito affissi sui muri di Roma, il Pd è diventato addirittura un grottesco Democratic Party. È stato soprattutto questo vuoto d’Italia prodottosi al vertice del Paese e dei suoi gruppi dirigenti (vanamente contrastato dagli sforzi del presidente Ciampi) che spiega l’indebolimento fortissimo subito negli ultimi quindici anni dall’idea di unità nella sfera pubblica, nelle parole e nelle pratiche ad essa connesse. Lo scempio fatto della Rai e di ogni sua funzione formativa, e insieme le condizioni pietose a cui è stato ridotto il sistema dell’istruzione, sono solo due esempi di questo vuoto tramutatosi in una perversa diseducazione civica dall’alto. I frutti cominciano a vedersi adesso. Nell’assenza al centro di un discorso e di tematiche realmente nazionali, di qualunque prospettiva che riesca a coinvolgere l’intero Paese, il regionalismo sta diventando al Nord sinonimo di un federalismo di fatto, e al Sud arma di ricatto nelle mani di spregiudicati boss politici per assicurarsi, al riparo di sguardi indiscreti, la continuità delle loro clientele e del loro potere. Ma come ha detto Giuseppe Galasso sul Riformista, pensare che all’indebolimento dell’idea d’Italia nella sfera pubblica corrisponda un eguale e sostanziale suo indebolimento nella mente e nei cuori degli Italiani ce ne corre. La memoria e il buon senso dei popoli sono spesso più tenaci delle omissioni e degli oblii dei politici. La grande maggioranza degli Italiani sa come stanno le cose: sa che nell’ultimo secolo e mezzo non vi è stato altro strumento che abbia contribuito alla sua libertà, al suo progresso materiale, alla formazione della sua coscienza civile, più dello Stato unitario che si chiama Italia. Sa tutto ciò, e solo che qualcuno volesse e sapesse chiederglielo la sua voce non mancherebbe di ricordarlo a tutti.Ernesto Galli Della Loggia