Snorki sarai tu!

Intervista a Rutelli.


«Chiesa perplessa su quanto facciamo. Basta superficialità, l’Unione deve parlare ai cattolici». «Schieramenti europei datati, una nuova alleanza con rapporti organici con i Democratici Usa» Ha invitato Silvio Berlusconi alla festa della Margherita per «civilizzare i rapporti con l’opposizione»; e nella speranza neppure troppo segreta di intercettarne l’elettorato moderato: anche se teme l’«analisi superficiale che una parte dell’Unione fa sul mondo cattolico ». Scommette sulla durata del governo di Romano Prodi. E spiega che l’Unione si potrà allargare soltanto facendo il Partito democratico: una forza destinata a collegarsi organicamente non col socialismo europeo, ma col Partito democratico statunitense. Francesco Rutelli, vicepremier e ministro dei Beni culturali, conferma il suo schema di un centrosinistra dal profilo equilibrato. Ammette che in politica estera certe sintonie atlantiste ed europeiste a volte avvicinano l’opposizione più che gli alleati della sinistra radicale: sebbene riconosca loro «senso di responsabilità» sull’Afghanistan. E dà atto al Berlusconi premier di avere assunto «un approccio nuovo verso Israele», nonostante i «rapporti disastrosi col mondo arabo moderato». Sa che sta per essere scomunicato? «Da chi?» Da parte della sinistra, perché ha invitato Berlusconi alla festa della Margherita. «La scomunica non l’ho colta. E nella Margherita mi pare siano tutti d’accordo sull’invito. È normale che oltre a Fini e Casini, venga l’ex premier e leader di FI, azionista di maggioranza del centrodestra». Non banalizza un po’ l’invito? «Non voglio banalizzarlo. Credo sia un’occasione per civilizzare i rapporti con l’opposizione, come richiama sempre il presidente Marini. E anche per cominciare a provocare una discussione nel fronte avversario. Noi dell’Unione non solo non abbiamo avuto luna di miele dopo le elezioni, ma sembra quasi che la sfida sia fra noi, invece che fra noi e loro». Condivide la tesi di un regime berlusconiano nella scorsa legislatura? «Condivido che il conflitto di interessi è emerso con una evidenza quasi sfrontata, questo sì. Ma sdrammatizzerei. L’Italia è un Paese maturo, nel quale le elezioni garantiscono un ricambio fisiologico e democratico. Dico di più: è naturale che si vada oltre i propri fedelissimi, in campo aperto. Non escludo che a fine legislatura ci si sfidi finalmente per prendere i consensi di FI, e viceversa. Ho parlato con Prodi e gli ho detto che bisogna cercare di interpellare quell’elettorato, anche mostrando di capire l’identità di un Paese con profonde radici cattoliche». Non è che il gelo fra l’Unione e il Vaticano vi aiuti molto. «Gelo mi pare troppo. Diciamo che dobbiamo risolvere un problema. A tratti, nell’Unione si dimentica quello che aveva già capito Togliatti, l’antico capo del Pci: che con i cattolici non bisognava solo fare un compromesso, ma comprenderne il radicamento ». Vuol dire che la sinistra soffre di un ritardo culturale, dopo la fine della Dc? «Credo che a parte dell’Unione sfugga la comprensione del ritorno ad una chiesa di popolo, che diventerà presto un fenomeno molto vasto, seppure apolitico, senza ricadute necessariamente elettorali. Vedo un’analisi superficiale sulla novità del fenomeno. Quando vado in chiesa, non capisco se accanto a me ho elettori nostri o del centrodestra. Va scongiurata l’eventualità che succeda, magari a favore dei nostri avversari». Ritiene che la Chiesa cattolica sia all’opposizione del governo Prodi? «No, ma la vedo perplessa e interrogativa su quanto facciamo». Sindrome Zapatero? «Quella è minoritaria. Anche se per alcuni settori dell’Unione, il premier spagnolo Zapatero che non va alla messa del Papa è un gesto popolare. Per me invece è un insuccesso. Se io assisto ad una cerimonia islamica o metto la kippà non abdico alla mia laicità di uomo pubblico, né alle mie convinzioni personali». Sui rapporti con Usa e Israele vi sentite più vicini a FI e all’Udc, o a Prc e Pdci? «Ci sentiamo vicini alla politica estera di questi 50 anni, europeista ed atlantista. È evidente che questo scenario non fa sentire a loro agio le forze della sinistra radicale. Ma hanno dimostrato grande senso di responsabilità sull’Afghanistan». E Berlusconi? «Berlusconi è venuto sulla nostra linea, anche perché aveva nell’alleanza Fini e Bossi e dunque all’inizio rischiava l’isolamento in Europa. Forse l’unica novità positiva di Berlusconi è stato l’approccio nuovo verso Israele, seppure accompagnato da rapporti disastrosi col mondo arabo moderato». Che cosa risponde a chi accusa l’Unione di essere antisraeliana? «Io non lo sono. E credo neppure gran parte dell’Unione. Ho scelto di dire a viso aperto ad una platea di ebrei romani che la reazione agli Hezbollah è stata sproporzionata. Ma aggiungo che la condizione di accerchiamento di Israele è senza precedenti, e dunque va capita la sua risposta. Non dimentichiamo che Sharon decise il ritiro unilaterale da Gaza; e che il partito Kadima è nato proponendo un compromesso stabile con i palestinesi, pur con Hamas al confine». Eppure Europa, il vostro quotidiano, ironizza su «Giulio D’Alema»: un ministro degli Esteri filoarabo come Andreotti. «Mi è parso un richiamo giornalistico. In realtà, D’Alema ha verso Israele un atteggiamento attento. Lui e il ministro della Difesa, Arturo Parisi, si consultano sempre. E mi pare che si rendano conto che l’Italia non deve sottovalutare i passi avanti che ha fatto Israele in questi anni». Se siete così d’accordo sulla politica estera, come mai rimanete divisi sulla parentela internazionale del Partito democratico? «Perché gli schieramenti europei sono datati. Bisogna costruire qualcosa di nuovo. Occorre un’alleanza di centrosinistra che a livello internazionale abbia rapporti organici col Partito democratico degli Stati Uniti. Sarebbe il vero passo avanti che dovrebbe metterci d’accordo». Ma lo farete mai, in Italia, questo partito? «Bisogna farlo: per stabilizzare il governo, e per evitare che riprenda la competizione fra Ds e Margherita. Se non ci integriamo, entreremo in conflitto». Non ci siete già? Lei è accusato di forzare i tempi per mettere in difficoltà i Ds. «Io non forzo i tempi. Indico scadenze, perché so che la maggioranza tiene e si allarga se troviamo nel Partito democratico un nuovo baricentro, equilibrato e capace di tenere insieme la sinistra riformista e parlare ai moderati. Altrimenti il governo magari va avanti, perché è vivo, ma rischia il trasformismo». È ancora convinto che durerà 5 anni? «Sono ottimista. Abbiamo centrato tutti i traguardi che ci eravamo dati. I fondamentali sono stati rispettati». E allora perché si parla di allargamento? «A me l’espressione non piace molto. E infatti ritengo che l’Unione debba trovare un’intesa precisa in primo luogo con se stessa, sulla Finanziaria; e a settembre, prima di andare in Parlamento. Dopo di che, c’è il problema di aprire un dibattito alle Camere con la Cdl per sfidarla su alcuni temi. Alludo alle liberalizzazioni, alle riforme pensionistiche, al cuneo fiscale, ad un nuovo piano energetico nazionale, all’invadenza dei partiti nel sottogoverno locale e nella sanità». Altre spine con i Ds. «No, il problema riguarda tutte le giunte». Ma sono governate in gran parte da voi. «Da qualche mese, non prima. Vede, Berlusconi ha perso perché non ha liberalizzato, perché l’Italia funziona meno di quando l’ha presa in mano lui. Ecco, noi dobbiamo farla funzionare, sapendo che abbiamo una società cambiata, composta da cittadini, utenti, consumatori più che da classi organizzate come nel XX Secolo. Dobbiamo capire e riempire quello che chiamo "lo spazio Ciampi". È il 90 per cento di consenso che l’ex capo dello Stato era riuscito a costruire intorno a sé, trasmettendo un messaggio di fiducia, di equilibrio, di patriottismo maturo. L’Unione deve non smarrire quell’eredità, e farsene interprete. E adesso mi scusi, devo incontrare uno di quei prelati con i quali ci sarebbe il gelo...». Rutelli saluta. In anticamera lo aspetta un giovane monsignore della Curia.