Sole ad Oriente

Al di là delle aspirazioni e dei valori mondani


 Namo tassa bhagavato arahato sammasambuddhassa – Omaggio al Beato, Nobile e perfettamente Illuminato. Trovo sempre che queste parole di omaggio al Buddha siano un modo per aiutarci a ricordare qual è il luogo di rifugio. Da questo luogo, sentendo di essere protetti, possiamo accorgerci del canto delle Sirene, delle voci del mondo che ci attirano verso cose che non sono sicure. Spesso possono essere esperienze che dobbiamo gestire, benché non siano tanto ovvie, e possiamo essere attratti verso impulsi irrazionali d’ogni genere: idee molto forti su ciò che dovremmo o che non dovremmo fare, su cose di cui ci dovremmo o non ci dovremmo preoccupare. C’è un sutta che a volte recito e che trovo molto utile come ancora: elenca le dieci cose che i samana, quelli che hanno intrapreso il cammino monastico, dovrebbero avere l’abitudine di ricordare. La prima è "Non vivo più in conformità delle aspirazioni e dei valori mondani" e indica il fatto che quando si entra a fare parte della comunitàmonastica gli appellativi mondani vengono abbandonati. Tra di noi non si possono distinguere principi, principesse o gente titolata, diventiamo tutti solamente samana. Una deliziosa storia che risale ai tempi del Buddha racconta che, dopo la sua illuminazione, i suoi cugini, che erano tutti nobili principi, decisero di intraprendere il cammino monastico, di abbandonare le loro condizione familiari e i posti di potere e di diventare suoi discepoli. Così partirono con Upali, il loro barbiere. Era loro intenzione di rimandare Upali al palazzo, ma questi volle proseguire con loro per diventare anche lui discepolo del Buddha. Quando giunse il momento di ricevere l'ordinazione, i principi dei Sakya si assicurarono che Upali fosse il primo in modo che fosse il monaco più"anziano" fra di loro. Abbandonarono così la loro condizione principesca ed oggi noi, allo stesso modo, ci inchiniamo reciprocamente secondo un ordine di anzianità, dovuta a quando abbiamo ricevuto l'ordinazione. C’è un'altra prospettiva in cui mi piace vedere questa storia ed è che noi operiamo in termini di Dhamma piuttosto che cercare di avere potere o successo in senso mondano. Nella vita del Sangha possiamo essere molto bravi in certe cose. Abbiamo artigiani molto abili nella comunità, abbiamo persone che sono brave nel fare conferenze, abbiamo persone molto brave nel cucito o che sono bravi amministratori oartisti molto capaci, ma per quanto riguarda la pratica, queste cose non sono poi tanto importanti. Il successo visto in una dimensione mondana non ha una importanza reale. Certo è bello quando una comunità procede senza intoppi, quando le cose vengono fatte bene e quando la gente sa costruire edifici che non crollano e fare cuciture dritte nei vestiti. Sapere fare questo tipo di cose è un bene, ma, in realtà, il nostro dono o il nostro contributo si riferisce alla pratica del Dhamma. Tenere conto di questo è utile per tutti, sia che viviamo come monaci o monache, sia che viviamo in famiglia e dobbiamo andare a guadagnarci da vivere e badare alla casa, o che so io. Perché queste Sirene, queste voci del mondo sono molto potenti, molto convincenti e possono metterci in un mare di guai. Anche se abbiamo molto successo o se facciamo cose meravigliose, i momenti di grande trionfo, quandoraggiungiamo veramente l’apice della fama o del prestigio o quando facciamo del nostro meglio, sono solo momenti, non durano. Ci arrecano un senso di piacere e di soddisfazione, ma se li consideriamo come gli eventi più importanti, la nostra vita sarà una serie di alti e bassi.Possiamo avere momenti di grande successo, ma che facciamo quando passano? Possiamo cercare altro successo o ricordarci di quel grande momento, di quell'apice e rispolverarlo di tanto in tanto accarezzandone il ricordo. Questa pratica ci dà la possibilità di trovare qualcosa che va oltre il mondo e che durerà più di quanto possano durare i successi e i fallimenti terreni; qualcosa che sarà un vero rifugio per noi quando tutto il resto va in pezzi. Così quando saremo vecchi o malati, quando non potremo più avere successo, ci sarà una dimora sicura, qualcosaalla quale potremo rivolgerci. Trovo che tenere questo in considerazione sia molto utile perché, mentre ci sono giorni in cui nella nostra comunità le cose sembrano andare molto bene (e certamente questi momenti ci fanno molto piacere), ci sono anche giorni in cui le cose non vanno tanto bene. A volte può succedere che, mentre tutti gli altri stanno bene, per me è una brutta giornata. Mi sento scombussolata, le cose non funzionano, il computer non fa quello che voglio che faccia, il fax si rompe. Se non ricordo a me stessa in continuazione che la mia vita non si basa su aspirazioni e valori mondani – che in realtà non importa se le cose vanno male, che quello che davvero conta è il modo in cui io rispondo a queste cose – allora è possibile che soffra. Posso soffrire o posso comprendere che è così solo perché la realtà è così in questo preciso momento. Forse non è colpa mia o di nessun altro, forse è solo il modo in cui si sono combinati i fatti. Non devo dare la colpa a nessuno, non devo incolpare me stessa, non devo lottare, non devo combattere o intervenire sull’esperienza, farla diventare in un altro modo: tuttoquello che devo fare è fare pace con le cose così come sono. A volte le persone dicono: "Caspita, i buddhisti sono terribilmente passivi, con questo fatto di essere in pace con le cose così come sono, che cosa fanno di buono per il mondo?" L’alternativa a questo è che quando la vita procede male e noi non siamo consapevoli, tendiamo a irrigidirci. La mente reagisce e avviene una chiusura, è come avere i paraocchi e vedere solo in una direzione. Teniamo tutto saldamente stretto e cerchiamo di mantenere la realtà così come pensiamo che ‘debba essere’. C’è dell’ostinazione in questo. Così creiamo uno stato di tensione che coinvolge tutti e questo sicuramente porta sofferenza. Ma se coltiviamo l’atteggiamento del lasciare andare, se siamo presenti alle esperienze così come sono e siamo in pace, la mente è più sensibile, risponde meglio, è più intuitiva. E’ molto più consapevole. Allora la nostra risposta sarà in accordo con il Dhamma; ci sarà un senso di armonia e non quel senso di chiusura che derivadal fatto di trattenere le cose con un atteggiamento di paura e di desiderio. Il Dhamma è uno dei nostri rifugi, un posto sicuro. Possiamo trovare la pace là dove non c’è pace e la sicurezza in ciò che non è sicuro semplicemente rapportandoci al momento presente come un Rifugio, chiedendoci: "Com’è questo momento? ...", e riposare nel presente, così com’è. Se siamo a nostro agio, siamo in sintonia con l’esistenza e possiamo rispondere in modo adeguato, piuttosto che dare unarisposta volitiva che prolunga lo stato di agitazione. Diversamente quello che succede è che quando qualcosa va male si creano delle ripercussioni: noi reagiamo, diciamo parole inadeguate, le persone si risentono verso di noi e così si crea una sensazione diffusa di disarmonia. C’è stata una scena meravigliosa oggi, all'ora del tè, giù nella ‘serena casetta dove vivono le monache’. Mi ero fatta un’idea di come sarebbe stata la serata; aspettavo la visita di una mia cugina e di un’altra carissima amica, sarei andata a preparare il tè e poi sarei andata a parlare con loro in tranquillità. Mentre stavo preparando il tè è spuntata un’altra mia amica; è stato molto bello, ci siamo salutate e mi ha aiutato. Poi, inaspettatamente, una monaca tibetana è passata con una sua amica e si sono unite a noi. Infine è venuto qualcun altro. Qualche istante dopo una nostra giovane amica, che sta attraversando un periodo di forte esaurimento, è passata di lì e si è messa a fare strane cose. Ma è anche arrivata una coppia di sorelle che sono in ritiro nella foresta e si aspettavano di trovare il posto vuoto e tranquillo, così la nostra cucinetta si è riempita di persone cheprendevano il tè! Sono stata molto grata per questa pratica.  Significava tenere i piedi per terra e rendersi conto che ‘questo è quello che c’è in questo momento, e non c'è niente che non vada bene'..  Non era esattamente ciò che avevo in mente per la serata, ma andava perfettamente bene. Sentivo che tutte le vicende strane che stavano accadendo ci divertivano molto ed ero grata del fatto che non vivevo secondo aspirazioni e valori mondani. Il valore mondano sarebbe: "Bene, doveva andare così e io avrei dovuto fare questo; le cose non sono andate per il verso giusto, non hanno funzionato, e ora tocca a me aggiustare tutto". Ma quando lasciamo andare, allora va bene qualsiasi fatto accada, la realtà non deve fluire secondo un piano definito. Questa è una grande sicurezza. Prima di iniziare questo tipo di pratica mi preoccupavo sempre che tutto andasse per il verso giusto. Dovevo sempre avere un’idea di quello che sarebbe successo. Dovevo fare i giusti preparativi e se le cose non andavano bene c’era una certa tensione. Quando venni per la prima volta in comunità, frequentai un ritiro condotto da Ajahn Viradhammo. Ricordo che in esso si parlava di prendere rifugio nel Dhamma, e iniziai a capire cosa significa veramente ‘prendere rifugio nel Dhamma’. Fu stupendo, ero cosìabituata a prendere rifugio nella mia mente, la mia mente abile che risolveva le cose ed era capace di giudicare e valutare in base a quello che io ritenevo giusto e appropriato. Mi resi conto di quanto usassi l’intelletto per restare padrona del mio mondo, e cominciai a vedere che, in effetti, prendere rifugio nel Dhamma significavalasciare andare l’intelletto, lasciare andare quelle strutture che avevo usato per stabilire come vivere la mia vita. La mia disponibilità a lasciare andare le cose sulle quali ero stata abituata a fare affidamento, a concedere a me stessa di non avere alcuna idea su cosa fare o su cosa sarebbe successo in seguito e prendere rifugionel momento, essere consapevole del momento piuttosto che restare attaccata ad un determinato punto di vista o ad un preciso progetto, è stato un atto di fede. Quando si parla di svincolarsi da aspettative e valori mondani, o di prendere rifugio nel Dhamma, non significa che si debba rinunciare all’intelletto: significa che non gli si deve permettere di essere il nostro padrone. Possiamo continuare a fare progetti e ad usare in maniera intelligente il cervello che abbiamo, ma lo facciamo da unluogo di Dhamma piuttosto che da un luogo di paura e di desiderio; queste cose le lasciamo andare. Certo, questo richiede del tempo, non si può fare in un istante. Vivendo in una comunità o nella società certamente bisogna fare dei progetti. Chi ha un posto di lavoro deve presentarsi lì e guadagnarsi da vivere. Vivendo in un monastero, noi abbiamo compiti differenti che svolgiamo facendo del nostro meglio, cerchiamo di vivere nel miglior modo possibile in accordo con la nostra formazione che è predisposta per aiutarci a comprendere le nostre pulsioni, per vedere chiaramentele Sirene che ci allontanano dalla nostra reale potenzialità, dalla nostra reale possibilità di essere liberi. Ricordo che diversi anni fa, quando la comunità delle monache era ancora in una situazione abbastanza delicata e fragile, ricevemmo una visita di Maechee Patomwan che era stata monaca in Thailandia da trentasei anni. Si accorse che ero preoccupata perché alcune persone avevano dei dubbi riguardo alla comunità delle monache (se eravamo sufficientemente rispettate e se le cose per noi fossero facili) e midisse. "Non preoccupartene. Non ti preoccupare di sembrare buona o cose del genere. Concentrati solo sulla tua pratica. Occupati solo del tuo cuore, tieni il tuo cuore in pace. Se fai questo, tutto andrà bene, il rispetto arriverà, le cose funzioneranno." Il solo fatto di sentire queste parole fu un sollievo perché mi confermava quello che intuitivamente avevo pensato per tutto il tempo. Mi resi conto che cercare di sembrare buona, cercare di ottenere rispetto, erano aspirazioni mondane, valori mondani; significava avere una comprensione errata. Quindi si può vedere se c’è sofferenza o se non c’è sofferenza. E se c’è sofferenza, allora "Perché c’è sofferenza? C’è sofferenza perché voglio essere rispettata, o perché voglio sembrare buona". Una volta stabilito questo si può indagare ulteriormente: "E’ davvero importante? Mi interessa veramente? Ho pensato molto alla domanda "Come stai?" e mi sono resa conto che è una domanda che ci dovremmo porre spesso: "Come stai oggi?". Sto cominciando ad imparare a farlo. Per esempio, questa settimana ho avuto una giornata di pausa; ero abbastanza stanca così ho pensato: "Meglio che mi riposi." Mi sono sdraiata, ma la mia mente è diventata una furia. E quindi ho pensato: "Allora, come stai?". E ho visto che stavo pensando a tutte le attività di cui avrei dovuto occuparmi "devo fare questo, devo fare quello, devo pensare a questo, devo pianificare questo, e devo scrivere a Tizio e Caio e devo parlare con Tizio e Caio e ... " E pensavo: ‘E’ sicuro che riposare mi aiuterà? ... La risposta era ‘No’. Non avevo bisogno di riposare, quello di cui avevo bisogno era aiutare la mente a calmarsi: "Va bene. Allora, qual è la cura perquesto?...". Mi resi conto che quello che dovevo fare era stare seduta tranquilla. Era come se la mia mente fosse piena di Sirene che reclamavano attenzione. Ma c’era anche un’altra voce che mi diceva: "No, non devi ascoltare quelle voci del mondo, è il momento di prestare attenzione al tuo cuore. Stai ferma e basta, stai tranquilla, stai con la natura". Così ho trascorso il resto della giornata semplicemente ascoltando quelle voci e, allo stesso tempo, stando con il corpo, stando con il respiro, guardando la luce, guardando gli alberi, toccando la terra. Alla fine della giornata, quando chiesi a me stesa ‘Come stai?’ la risposta fu ‘Bene’. C’era una sensazione di pienezza, piuttosto che di agitazione o sensazione di essere strattonata di qua e di là da quello che il mondo si aspetta da me. Quindi valutate semplicemente: ‘Che cosa sono le aspirazioni e i valori mondani?’, ‘Quali sono le aspirazioni e i valori ai quali noi tendiamo? ...’ . Possiamo portare il Dhamma nelle nostre vite, possiamo portare il Dhamma nel mondo attraverso la nostra volontà di sopportare le voci dell’ego, sopportare le insistenti domande delmondo e non esserne soggiogati. Dite ‘Va bene, ti sento...’ e poi, da un luogo di pace, rispondete. Possiamo fare una enorme quantità di bene da questo luogo di pace e di tranquillità.  Dopo l’illuminazione, il Buddha non trascorse i restanti 45 anni seduto in uno stato di beatitudine. Se guardiamo agli insegnamenti del Vinaya (gli insegnamenti sulla disciplina monastica e sulle motivazioni stesse che portarono a ciascuna regola) o se guardiamo ai Sutta, si può verificare che il Buddha era notevolmente attivo e inmodo molto compassionevole, saggio e abile. Ebbe a che fare con persone all’estremo dell’angoscia e della disperazione umana e offrì loro insegnamenti che rispondevano ai loro bisogni particolari di quel momento. Era anche in grado di rispondere abilmente alle persone che cercavano di prenderlo in castagna nei dibattiti. Incontrava tutti itipi di persone. Essere come il Buddha, forse è chiedere troppo, ma possiamo provare, momento per momento, a distinguere queste voci del mondo, a interrompere la mente compulsiva che ci porta di qua e di là e rimanere soltanto con il nostro respiro. Possiamo stare con la sensazione del corpo a contatto con il cuscino o con la sensazione deipiedi a contatto con il pavimento quando camminiamo da un posto all’altro. Possiamo rilassare le spalle quando ci troviamo in tensione in una situazione difficile, o rilassare i muscoli del viso quando vediamo che durante la meditazione pensiamo un’enorme quantità di cose; possiamo lasciare che le cose vadano per la loro strada, nella nostra vita quotidiana possiamo usare quelle piccole cose che ci aiutano a tenerci ancorati a quello che è un rifugio sicuro. Così in momenti di estrema angoscia o di totale confusione, quando tutto intorno a noi sta crollando e quando le cose non vanno proprio come ‘dovrebbero’ – e anche nel momento di morte – possiamo rivolgerci aquesti segni, queste ancore nel momento presente. Essere in pace con il proprio respiro non è certamente un valore mondano. Ovviamente non riceveremo grandi elogi per questo.Fortunatamente qui abbiamo una situazione che ci incoraggia a fare questo e che ci porta ad un sistema di valori che va oltre il mondo mutevole. Non c’è molto del nostro corpo, degli altri, dei successi mondani, del prestigio e della gloria, del nostro intelletto sul quale possiamo fare affidamento. Tutte queste cose sono mutevoli. Però abbiamo quest’opportunità di sviluppare la pratica dell’essere presenti. A volte è difficile, a volte sembra che non sia niente di speciale, ma a poco a poco cresce. C’è un verso del Dhammapada che ci offre una preziosa similitudine: se in un secchio gocciola dell’acqua, goccia dopo goccia dopo goccia il secchio, prima o poi, si riempirà. Il difficile può essere vederlo mentre si riempie. Allo stesso modo si può pensare che non si stia arrivando da nessuna parte, sembra che i momenti di consapevolezza non portino a niente, ma concedetevi un anno, o un paio di anni o un decennio o due e scoprirete che a poco a poco le cose cambiano. Noterete che il senso di sollievo è più presente, che la nostra abilità nella risposta,piuttosto che renderci rigidi ed agitati, migliora. C’è un po’ più di compassione, un po’ più di spazio nel cuore. Ecco come funziona! Può esserci un’intuizione improvvisa, come la mia intuizione su ciò che veramente significa prendere rifugio nel Dhamma, ma per ognuno di noi ci vuole tempo e umile applicazione, passo dopo passo, per fareemergere questa graduale trasformazione. Vorrei finire questo insegnamento, offrendolo come incoraggiamento perché ognuno di voi possa lavorare per sviluppare questa pratica di consapevolezza molto umile, in ogni momento. E il mio augurio, per ognuno di voi, è che troviate sempre più pace, libertà e felicità nella vostra vita.