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IL POTERE

Post n°1930 pubblicato il 05 Ottobre 2024 da scricciolo68lbr
 
Tag: #potere

Il potere… che cos’è? Il vocabolario recita così: “Facoltà di fare, secondo la propria volontà”. E aggiungerei la facoltà, concessa dal diritto pubblico o privato, della possibilità di decidere su altri individui. Ed è così che l’essere umano ha dannato la sua anima, volendo imitare il 

potere che appartiene al divino, Dio in persona, che ha potere sull’Universo, sugli altri essere viventi. E questo gli da soddisfazione, lo fa sentire appagato, completo… il potere del re, dello zar, del Papa, del cardinale, di un ministro, di un capo cosca mafioso… e potrei seguitare all’infinito. E si spende tutta la propria vita all’inseguimento di un posto di “comando”, che dia il potere di fare, dire e ordinare. E pensare che chi comanda ha su di sè così tante responsabilità, di fare scelte, di decidere in modo equo, soppesando le decisioni per non avvantaggiare nessuno a scapito di altri. E subentrano regole spirituali, divine, di giustizia, quella vera… mentre sulla Terra l’essere umano si disinteressa di questi aspetti, meditando sul fatto che spesso le decisioni ingiuste si possono appianare, sistemare, neutralizzando i ricorsi di chi si sente danneggiato e leso di un proprio diritto, corrompendo i giudici e i magistrati, tutto sulla base del presunto potere, che è solo terreno e mai di derivazione divina, se non si rispettano certe regole etiche e morali.

Questo sul livello pratico. A livello teorico quello di “potere” è uno dei concetti più controversi e problematici della storia del pensiero filosofico, politico, sociologico e giuridico. Il punto di partenza della riflessione di Byung-Chul Han è che esso è stato quasi sempre ridotto a una relazione causale diretta: chi detiene il potere si impone su chi lo subisce, determinandone il comportamento, a prescindere dalla sua volontà. Tuttavia, secondo Han, se si sottolinea esclusivamente questa logica, si riesce a percepirne solamente il lato materiale, violento e costrittivo, senza poter cogliere le dinamiche più nascoste e complesse mediante cui il potere agisce. Ampliando l’analisi, si può individuare proprio nella libertà il suo presupposto e comprendere che esso può essere esercitato non solo contro l’Altro, ma anche condizionandolo dall’interno, raggiungendo un grado di mediazione molto più elevato e assumendo forme estremamente articolate – meccanismi che, negli sviluppi successivi del suo pensiero, l’autore arriva a considerare come la chiave di volta della vita sociale e politica. Attraverso una comparazione critica dei principali teorici occidentali del potere – da Luhmann a Foucault, da Nietzsche a Heidegger, Hegel, Agamben e molti altri – nel suo saggio, Han ne dà una lettura che punta a sgombrare il campo dalle contraddizioni e dalle miopie teoriche, privando “il potere almeno del potere fondato sul fatto che non si sa esattamente cosa esso sia”.

«Il potere non deve prendere la forma di una costrizione. […]. Più il potere è forte, più agisce silenziosamente. Se deve fare espresso riferimento a se stesso, risulta già indebolito».

Così afferma Han… tuttavia il potere non deve agire nel senso di una neutralizzazione della volontà di chi lo subisce, perché per non essere tale, chi lo subisce deve volere precisamente ciò che vuole il detentore. Il sottoposto ha fatto suo ciò che vuole il detentore del potere, tanto che è anche probabile che il primo arrivi ad anticipare la richiesta del secondo.

Il potere è il risultato di una relazione tra Alter e Ego. Queste relazioni sono così complesse da far sì che il modello causale non riesce a descriverle. Il potere che giunge a una forma stabile lo fa senza alcun ricorso alla violenza, Han dice che «prende posto nell’anima dell’altro». Ridurre Alter da soggetto a oggetto non è un buon modo di esercitare il potere, anche perché non è possibile esercitare il potere nei confronti di un oggetto passivo: qualsiasi azione che si fa nei suoi confronti non sarebbe un esercizio di potere. Eppure sempre più il genere umano in battuta, pensa al potere come quell’esercizio che nega qualcosa. Più profondamente, il potere si esplica nella sua capacità di trasformare un no in un sì. L’esercizio del potere non si concretizza sempre in una costrizione, eppure trionfa quando Alter risponde in modo affermativo.

L’autoritarismo di Ego, le sue minacce, non rinsaldano il suo potere, semmai lo rendono mal sopportabile, tanto che non otterrà che una scarsa influenza sui processi di attuazione. Il potere usa la violenza in termini astratti, in irrealis, dice Han, cioè a condizione che non venga esercitata. Il potere si stabilizza quando la violenza diventa virtuale, appare come possibilità negativa. Si evita di trasgredire la norma non in relazione alla punizione, ma come «segno di riconoscimento dell’ordinamento giuridico».

Il potere non è l’origine, la causa, di un determinato comportamento del sottoposto. È l’apertura di uno spazio, una sfera all’interno della quale è possibile che l’uno possa essere più dominante. «Istituisce un luogo che prelude alle singole relazioni di potere».

Il rapporto di Alter e Ego non si costituisce nella lotta, nello scontro cieco uno contro l’altro. Qui è in gioco soltanto la differenza in termini di forza fisica. È quando uno per paura della morte e temendo la forza fisica dell’altro, gli si sottomette, instaurando allora e soltanto in quel momento un rapporto di potere. Non è lo scontro, la morte, ma la loro assenza a costituire il potere. Non è lo scontro, ma il confronto dei rapporti di forza che lo costituiscono. Il potere può dunque essere esercitato non soltanto contro l’altro, ma nella peggiore delle ipotesi avendo ad effetto la  manipolazione dell’altro. Dietro questo aspetto che rimanda all’interpretazione delle relazioni di potere, basata su meccanismi complessi che Han indaga confrontandosi nei vari capitoli con autori che vanno da Schmitt a Foucault passando per Hegel, Heidegger ed altri, individua nella complessa rete di relazioni che determinano il potere, la sua essenza, la sua portata e la sua capacità di fare presa. Restituendoci infine la chiave di volta degli aspetti sociali e politici che articolandosi poi in configurazioni complesse, determinano di fatto le possibili relazione di potere.

La complessità di queste relazioni è anche di ordine semantico: «L’origine della lingua è l’espressione di potere di chi domina. Le lingue sono riverbero delle più antiche prese di possesso delle cose». In ogni parola è possibile percepire il comando. Il corpo non è mai nudo, è coperto di significati quali effetti del potere.

 

Il potere disciplinare agisce in profondità, scava i corpi, li scolpisce tracciando su di essi percorsi obbligati che non sono altro che “gli automatismi dell’abitudine. Qui il potere perde la sua sontuosità e si rivela come quotidianità. Penetra profondamente divenendo carne e sangue senza di fatto ferire. «Opera con le norme o la normalità invece che con la spada […]. “Lentamente, una costrizione calcolata percorre ogni parte del corpo, se ne impadronisce, dà forma all’insieme, lo rende perpetuamente disponibile, e si prolunga silenziosamente nell’automatismo delle abitudini”». Il potere si traveste e si presenta come qualcosa di quotidiano.

L’atto di potere ha qualcosa di ovvio, non stimola nessuna reattività. L’abitudine, l’habitus, è una forma di interiorizzazione, interviene infatti anche sul piano somatico. Bisogna che le azioni siano “sensate”, abitate quindi da un “senso comune”. È la normale visione del mondo: l’orizzonte di senso. Per essere efficace, il potere deve occupare proprio questo spazio semantico, che gli permette poi di raggiungere anche una certa forma di stabilità. Il potere che esercita la propria efficacia attraverso l’abitudine è più efficace e stabile di quello che impartisce ordini o esercita pressioni. Il potere che opprime ha un soggetto. È qualcuno. Il sovrano è quel soggetto. Il potere più efficace è invece il potere di nessuno. Il potere assoluto, non deve comparire, non ci si può riferire ad esso ed esso non farà mai riferimento a se stesso. Il potere assoluto si fonda con l’ovvio. La violenza non è indice di potere, senza consenso non si dà nessuna forma di potere.

Nel libro di Han c’è questo, ma c’è molto altro. C’è la dialettica schmittiana amico/nemico. La componente ludica foucaultiana del potere. La volontà di potenza nietzschiana intesa anche come affabilità che si affida ad un dare (donare). La dinamica amico/nemico che si palesa nella figura dell’ospite: «Ospitalità. Questo è il senso delle consuetudini di ospitalità: paralizzare nello straniero quanto v’è in lui di ostile. Laddove nello straniero non si avverte più, innanzitutto, il nemico, l’ospitalità vien meno; essa fiorisce fintantoché prospera il suo malvagio presupposto» (ancora Nietzsche, p. 133).

La definizione di proletariato quale classe ultima alla quale la storia assegna il compito ineludibile della presa del potere, stona con la visione articolata del potere stesso che Han ci propone. In questa visione, la presa del potere rimarrebbe conflittuale, la qual cosa ci restituirebbe una sovranità a bassa efficienza occupata da un’élite di classe. La destituzione del potere borghese non si attuerebbe attraverso l’organizzazione vincente di un assalto al palazzo d’inverno, ma attraverso la messa in atto di dispositivi alternativi a quelli utilizzati dal potere espresso dalla economia del mercato. Il potere non abita il palazzo d’inverno. Occorre un attacco ai nodi delle relazioni di potere che non sono definite una volta per tutte, ma che cangiano in relazione ai rapporti di forza che si palesano ogni volta, nodo su nodo.

 
 
 
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