Creato da scricciolo68lbr il 17/02/2007

Pensieri e parole...

Riflessioni, emozioni, musica, idee e sogni di un internauta alle prese con la vita... Porto con me sempre il mio quaderno degli appunti, mi fermo, scrivo, riprendo il cammino... verso la Luce

 

Messaggi di Settembre 2022

La sinistra italiana non cambierà mai...

Post n°1342 pubblicato il 30 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Viviamo un periodo storico che dire complicato pare un eufemismo, con una crisi economica e morale che pervade tutti gli stati, europei e nel mondo, con una guerra all’interno del continente europeo che rischia di fare saltare il banco con il croupier, eppure la sinistra trova ancora la forza (direi più la faccia “tosta”, giusto per non essere volgare) di perseguire le sue dubbie battaglie in difesa dei suoi pilastri ideologici.

Così, è stato approvato l’ordine del giorno del PD sul pieno sostegno all’aborto, anche grazie ai voti di Forza Italia, Lista Toti e Lega. Fratelli d’Italia si smarca ma non vota contro, preferendo l’astensione. Alla vigilia della nuova legislatura viene da chiedersi perché il centrodestra sembri più impegnato a rassicurare gli avversari che a impegnarsi per quei valori che pure, timidamente, proclama.

 

Mentre il centrodestra a livello nazionale si prepara a governare, in Liguria (dove già governa con Giovanni Toti) si unisce alla sinistra per proclamare il diritto all’aborto. Nella seduta di martedì 27 settembre è stato approvato l’ordine del giorno n. 647 del consigliere Roberto Arboscello e di altri esponenti del Partito Democratico, «sul diritto delle donne di scegliere l’interruzione volontaria della gravidanza».

La Regione a guida centrodestra fa propria la proposta piddina di «assumere le iniziative più opportune affinché sia assicurata la piena attuazione della legge 194». Con «piena attuazione» non si allude certo a quella parte della legge (art. 5) relativa alla prevenzione e alle possibili alternative all’aborto. Al contrario, si parla di piena attuazione nel senso di rimozione di tutti gli ostacoli, il primo dei quali, neanche a dirlo, è costituito dagli obiettori – “bestia nera” dei paladini della libertà che paradossalmente diventano intolleranti con chi si avvale della propria per ragioni etiche (che non vuol dire automaticamente religiose).

Il testo rinvia alla risoluzione del Parlamento Europeo che «ribadisce l'importanza della storica decisione Roe v. Wade» della Corte Suprema americana del 1973 sul diritto all’aborto – risoluzione europea seguita alla sentenza statunitense del giugno scorso che ha “rovesciato” la Roe v. Wade, ma che non ha “vietato” l’aborto, come erroneamente si sente dire, bensì solo delegato la questione ai singoli Stati. Sarebbe troppo lungo in questa sede chiedersi se da allora (e dal 1978, quando è entrata in vigore la legge italiana in materia) non ci si possa porre qualche domanda sui milioni di bambini mancanti all’appello – e anche sul dramma vissuto dalle madri, poiché gli stessi abortisti sono consapevoli che non è una “banale” operazione chirurgica. Ma se è un dramma, sarà il caso di fare il possibile per evitarlo piuttosto che rivendicarlo come diritto a ogni costo.

Nel documento ligure si ricorda inoltre che i parlamentari europei «hanno chiesto di inserire il diritto di aborto nella Carta dei diritti fondamentalidell’Unione Europea», impegnando di conseguenza tutti i Paesi coinvolti. Quindi si lamentano le difficoltà italiane per chi volesse abortire, legate «soprattutto all’altissimo numero di obiettori di coscienza fra ginecologi, infermieri ed OSS», pari rispettivamente al 67%, al 43% e al 37%, stando ai dati del ministero della Salute riportati nell’ordine del giorno del consigliere Arboscello. E verrebbe da chiedersi se quel 67% di ginecologi sia costituito da pericolosi fondamentalisti o se proprio attraverso la loro professione non abbiano maturato riserve di altro tipo. Qui cade anche il classico slogan “Sei contrario all’aborto? Non abortire, ma lascia libertà agli altri" – evidentemente non applicabile ai medici che secondo alcuni dovrebbero praticare gli aborti a prescindere dalle proprie convinzioni.

Nonostante in Italia anche durante il lockdown l’aborto è stato garantito come servizio ritenuto essenziale e indifferibile, il nostro Paese non è considerato “in regola” con gli standard europei: l’ordine del giorno ricorda che «il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, organo del Consiglio d’Europa, ha dichiarato l’Italia un Paese in cui la legge sull’IVG non è ancora completamente applicata». Con l’approvazione, il consiglio regionale impegna il Presidente e la Giunta a favorire il più possibile l’accesso all’aborto in Liguria e «a sostenere nelle sedi più opportune la richiesta del Parlamento europeo al diritto all’aborto legale e sicuro nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea».

L’ordine del giorno è passato con 21 voti, anche del centrodestra. Oltre al proponente PD, hanno infatti votato a favore quasi tutti i partiti, compresi Lega, Forza Italia e la lista di Toti. Esclusi i 6 parlamentari assenti (di vari schieramenti), la sola presa di distanze è stata l’astensione dei 3 consiglieri di Fratelli d’Italia. La posizione del centrodestra (e l’astensione di FdI) pone qualche domanda, anche alla luce della nuova maggioranza parlamentare e in vista della formazione del nuovo governo. Al di là della prevedibile lamentela del consigliere Arboscello («I consiglieri liguri di Fratelli d’Italia si sono astenuti sul mio ordine del giorno [...] Fratelli d’Italia sui diritti non guarda al futuro ma al passato»), resta il fatto che Giovanni Toti e la sua maggioranza hanno accolto l’impegno di buon grado. Toti, che oltre alla Presidenza ha anche la delega alla Sanità, «ha ribadito l’intenzione della giunta di garantire un servizio previsto dalla legge e ha illustrato l’organizzazione in merito fornendo il numero di interruzioni volontarie e di obiettori nel comparto medico e non medico», come riporta il comunicato relativo ai lavori del 27 settembre.

Infine, nessuno ha votato contro, neanche Fratelli d’Italia, che ha scelto la via dell’astensione. Se già risulta difficile capire l’adesione di Forza Italia e della Lega (specie di quest’ultima), ancora più arduo è comprendere questa parziale presa di distanze del partito di Giorgia Meloni che finisce per scontentare gli uni e gli altri. Peraltro, gli stessi consiglieri di FdI astenuti sono firmatari di una proposta per istituire sportelli pro vita in ogni struttura ligure che effettui interruzioni di gravidanza, definendo l'embrione «figlio dalla vita nascosta e in pericolo» ma affrettandosi a dichiarare che la 194 è «una legge bellissima» (parole del capogruppo Stefano Balleari) e che «nessuno del resto mette in discussione l’altra scelta, quella di interrompere la gravidanza». Verrebbe da chiedergli: ma questo «figlio dalla vita nascosta» c'è o non c'è?

Se c’è un “merito” (si fa per dire) che si può invidiare alla sinistra è che, in materia di principi non negoziabili, rivendica e persegue tenacemente i propri obiettivi (naturalmente a modo loro). Il centrodestra sembra talvolta più preoccupato di “rassicurare” gli avversari che di impegnarsi sul terreno di quei valori che pure, timidamente, proclama.

Ma non è finita qui. La pillola del giorno dopo in Francia sarà presto gratuita per tutte le donne, indipendentemente dall'età e senza il bisogno di presentare una prescrizione medica in fase d'acquisto. Ad annunciarlo è il ministro della Salute, Francois Braun, in un'intervista pubblicata sul quotidiano 20 Minutes. La misura sarà inserita nel progetto di legge sul finanziamento della sicurezza sociale del 2023. 

Oggi il ricorso alla contraccezione d'emergenza gratuito e senza prescrizione medica è riservato alle donne fino ai 25 anni, fino allo scorso anno solo alle minori di 18 anni, presso farmacie, infermerie scolastiche e centri di screening. Per tutte le altre donne il costo della pillola del giorno dopo varia tra i 3 e i 20 euro.

Il governo ha inoltre deciso di rendere accessibile gratuitamente lo screening delle malattie sessualmente trasmissibili fino ai 26 anni di età.

E in Italia? La pillola abortiva Ru486 "verrà distribuita in Emilia-Romagna dalla prossima settimana". Lo ha detto Stefano Bonaccini, presidente dell'Emilia-Romagna, ospite di 'Otto e Mezzo' su La7, riferendosi alla distribuzione nei consultori della regione.

La pillola abortiva Ru486 - diversa dalla pillola "del giorno dopo" - si può al momento prendere solo in strutture sanitarie: in Emilia-Romagna in day hospital dal 2005 e da fine 2021 in ospedale anche in regime ambulatoriale.

Con la distribuzione della pillola abortiva Ru486 nei consultori della regione "si parte la prossima settimana - ha spiegato Bonaccini - da Parma, poi Modena, Bologna, la Romagna e tutto" il territorio.

 

 
 
 

Il post elezioni in pillole!

Post n°1341 pubblicato il 26 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

L’esito delle elezioni politiche del 25 settembre 2022 è in linea con le aspettative: nessun risultato a sorpresa. Provo a trarne un primo bilancio.

È stato scongiurato, paventato da molti, il rischio di un Draghi bis; c’e stato un vero e proprio tracollo dei Dem con probabile conseguente ricambio (minimo) nella gestione del potere all’interno; si registra una sostanziale tenuta dei 5S, grazie a una campagna elettorale incentrata sui temi sociali, sul “ni” all’invio di armi in Ucraina e sull’autonomia dal PD, e grazie anche, naturalmente al consenso di cui gode, ancora oggi, Giuseppe Conte; Ilaria Cucchi in Senato e la Caporetto personale dell’ex Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che esce di scena in modo, direi, inequivocabile.

Ancora: la cosiddetta “Agenda Draghi” continuerà a sopravvivere nei fatti? Attendiamo per dirlo, le nomine nei Ministeri che contano, quali, ad esempio, Economia ed Esteri (in poche settimane si capirà se questo mini-sconvolgimento politico sarà una mera cosmesi). Preoccupa inoltre il ruolo che giocherà Berlusconi (ad esempio sulla Giustizia) e il constatare quel che resta della Lega di Salvini, così ridimensionata a vantaggio della Meloni (c’è stato un evidente travaso di voti dalla prima verso FdI).

Mai così alta l’astensione (36,1%, la più alta dal Dopoguerra), percentuale che esprime una sfiducia radicale su cui ci sarebbe moltissimo da dire e soprattutto da riflettere: una vera e propria secessione di chi si sente ai margini delle istituzioni e dalle formule rinsecchite della post-democrazia senza popolo. Al punto che verrebbe da chiedersi: voteranno alla fine solo le ztl, i paladini di single-issue e i settori più ideologizzati?

Deludente è stato anche il risultato delle cosiddette “forze antisistema” che non sono riuscite a mobilitare gli scontenti e il voto in uscita dallo zoccolo più intransigente dei 5S. Pesano certo i tempi ristretti della campagna elettorale, la frammentazione e soprattutto l’oscuramento mediatico a loro riservato, ma anche i troppi elementi di settarismo e di minoritarismo che non consentono di parlare oltre singole nicchie.

Il tema vero è però a mio avviso, il seguente: come poter rimotivare un pezzo sempre più consistente di società frastornato e disilluso, che non crede più nella possibilità di cambiare la realtà attraverso i canali tradizionali della partecipazione politica, anche alla luce dei fallimenti e dei tradimenti dei presunti “homines novi” della politica italiana?

Ovunque aleggia un senso da odissea senza approdo e di chiusura asfittica degli orizzonti, fra senso di fine imminente e schiacciamento sul quotidiano. Ma queste sensazioni nascondono forse anche una traccia, una memoria, una nostalgia dell’attesa per una “rivoluzione” in grado di avviare una profonda trasformazione sociale che si riferisca al “destino dell’uomo” e non a suoi particolari problemi. Ed è a questo sentimento che bisogna, a mio avviso, fare appello.

Naturalmente, questa rivendicazione di forme inedite di partecipazione e contestazione dell’ordine costituito e di nuove “visioni radicali” capaci di riannodare il legame sociale, può funzionare solo se l’azione politica viene sottratta alle mani della “neutralizzazione tecnocratica”, di matrice finanziaria globalista e neoliberale. Quel che è certo è che non esisterà salvezza per le istituzioni se esse non saranno in grado di riconquistare un rapporto profondo con la vita reale e popolare del Paese, in modo tale da intercettare tanto le condizioni concrete di vita delle persone quanto le istanze legittime, che sono anche e soprattutto domande di una “qualità di vita” diversa, di un diverso modo di relazionarci agli altri e verso noi stessi.

La prospettiva, più nel concreto, almeno per quanto mi riguarda, rimane sempre la stessa: incalzare quella risicata fetta di politica ancora sana su una linea di piena autonomia dalla “falsa contrapposizione” centrodestra/centrosinistra (entrambe in realtà prigioniere di un’interpretazione subalterna del vincolo esterno verso europa e patto atlantico e del paradigma neoliberale), sulla base di una piattaforma che, molto semplificando, si potrebbe definire “neosocialista”, poiché collocata dalla parte del nucleo sociale della Costituzione e del senso dell’autonomia della politica.

 
 
 

Un giornalista temerario.

Post n°1340 pubblicato il 23 Settembre 2022 da scricciolo68lbr
 

Di cosa avrebbe voluto parlare con il suo ex direttore? E dov'è finito il materiale da lui raccolto?

Trentasette anni fa, il 23 settembre 1985, a Napoli era stato ucciso da due sicari della camorra il cronista del 'Mattino' Giancarlo Siani. Aveva venticinque anni, la stessa giovane età dei giornalisti Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese nel 1960, e Giovanni Spampinato, ucciso a Ragusa il 27 ottobre del 1972. Siani era un giornalista pubblicista che aspettava di essere assunto regolarmente dal suo giornale, dopo anni di lavoro precario, durante i quali aveva pubblicato in esclusiva importanti notizie sull'evoluzione di alcuni clan camorristici verso il modello mafioso e i legami con Cosa nostra, in particolare quelli dei Nuvoletta e Bardellino.

Una “penna” da fermare
Giancarlo Siani
 era un ragazzo che aveva deciso di fare il giornalista per raccontare ciò che accadeva nella sua terra. Un ragazzo con una forte passione per la scrittura e per le inchieste, con il sogno di ottenere, da un giorno all’altro, un contratto e un lavoro stabile. Un giornalista pronto a mettere a rischio la propria vita per lottare contro un sistema di violenza e morte. Siani era un “giornalista-giornalista” che ricercava le notizie scomode e si contrapponeva al classico modello di giornalista-impegnato. Scriveva senza condizionamenti la realtà di una Napoli contaminata dalla Camorra e dalla corruzione politica, in particolare a Torre Annunziata. “Una città con circa 60.000 abitanti, un apparato produttivo in crisi, oltre 500 cassintegrati e la più alta percentuale di iscritti al collocamento - scriveva lui stesso in un articolo per la rivista “Osservatorio sulla camorra” - Un ottimo terreno per reclutare disoccupati e trasformarli in killer”.

Sono gli anni della guerra di Camorra dove a confrontarsi erano i due schieramenti: la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e le famiglie emergenti dei Nuvoletta, Alfieri e Bardellino, affiliate a Cosa nostra. Quest’ultima aveva avuto la meglio sulla NCO, grazie alla preziosa alleanza del boss di Torre Annunziata, Valentino Gionta, camorrista in ascesa con fortissimi legami nel mondo della politica e dell’imprenditoria. In un articolo sul business del mercato ittico, Siani descriveva così le infiltrazioni criminali: “Tra i soci delle due cooperative che lavorano al mercato del pesce, spicca un nome inquietante: Gemma Donnarumma, moglie di Valentino Gionta. È questo il modo pulito per intascare il ricavato delle attività del mercato”. E ancora: “Con il sistema delle cooperative, Gionta aveva dato via a altre imprese di camorra. Inevitabile l’infiltrazione nel sistema degli appalti”.

Siani aveva ben chiaro che la Camorra e i politici camminano a braccetto. Ed era stato proprio un articolo a condannarlo a morte. Il 10 giugno 1985, infatti, “Il Mattino” aveva pubblicato la cronaca di Siani dell’arresto di Valentino Gionta. “Potrebbe cambiare la geografia della Camorra dopo l’arresto del superlatitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambineti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse 'scaricato', ucciso o arrestato. - aveva scritto Siani - Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di 'Nuova famiglia', i Bardellino”.

E’ così che i Nuvoletta avevano deciso la morte di Giancarlo, l’unico modo per cancellare l’onta di quella “offesa”. Anche se un altro pentito, Gabriele Donnarumma, aveva poi riferito che dietro la decisione dei Nuvoletta, di uccidere Siani, vi era stato addirittura l’ordine diretto dello “zio”, ovvero Totò Riina. “Lo “zio”- aveva detto Donnarumma - dalla Sicilia non accettava che, nei confronti di mafiosi - tali eravamo noi ed i Nuvoletta - si dicessero cose del genere e perciò dovevamo uccidere il giornalista”.

Verità per Giancarlo
Dopo otto anni dall’omicidio, nel 1993, era arrivata la svolta nelle indagini. Grazie alla collaborazione di Salvatore Migliorino, il magistrato della Dda di Napoli, Armando D’Alterio aveva riaperto le indagini. Per l’omicidio sono condannati i mandanti (Lorenzo e Angelo Nuvoletta e Luigi Braccanti) e gli esecutori (Ciro Cappuccio e Armando Del Core). Mente la posizione dell’ex sindaco di Torre Annunziata, Domenico Bertone, era stata archiviata. Il boss Gionta era stato prima condannato e poi assolto in vari processi fino all’assoluzione definitiva della Cassazione nel 2003.

Tuttavia, quella verità processuale, alla quale si è giunti con difficoltà, non ha del tutto cancellato la convinzione che dietro quell'omicidio ci fosse anche altro. Lo stesso pm Armando D’Alterio, il sostituto alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli che aveva riaperto le indagini sul caso, aveva dichiarato in passato che “quell’articolo fu solo la causa scatenante dell’omicidio”. E sono molteplici le domande che restano aperte a trentasette anni di distanza dal delitto. Di cosa avrebbe voluto parlare con il suo ex direttore de l’“Osservatorio sulla camorra”, Amato Lamberti, a cui telefonicamente aveva chiesto un incontro per parlare di cose che “al telefono è meglio non dire”? Elementi che portano a domandarsi: che cosa aveva scoperto Siani? Perché era preoccupato? E dove è finito il materiale da lui raccolto? Una questione che sembra ricordare quanto accaduto anche in altri misteri italiani, come la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino o il trafugamento di documenti dalla cassaforte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

 
 
 

ECCO CHI È IL NUOVO PRESIDENTE DELLA CONSULTA.

Post n°1339 pubblicato il 21 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

E così torna una donna alla guida della Corte Costituzionale, a tre anni di distanza dall’esperienza di Marta Cartabia. La nuova presidente è la giuslavorista Silvana Sciarra, 74 anni, pugliese originaria di Trani. I voti favorevoli sono stati 8 su 15. Corte quindi spaccata a metà. In lizza con lei c’erano Daria De Pretis e Nicolò Zanon. Proprio gli altri 7 voti sono andati alla De Petris.

Dunque quello che s’è visto è una Corte spaccata, a differenza delle votazioni che elessero alla guida della Consulta Cartabia, Amato, Coraggio, Lattanzi. Come primo atto da presidente, Silvana Sciarra ha confermato come Vicepresidenti Daria de Pretis e Nicolò Zanon. Sciarra, prima donna eletta dal Parlamento come Giudice presso la Corte costituzionale italiana, ha iniziato il suo mandato nel novembre 2014, dopo aver ricoperto il ruolo di Professore ordinario di Diritto del Lavoro e Diritto Sociale Europeo presso l’Università di Firenze e l’Istituto Universitario Europeo.

È PROFESSORE EMERITO NELL’UNIVERSITÀ DI FIRENZE. SUCCEDE A GIULIANO AMATO, DI CUI È STATA VICEPRESIDENTE. IL SUO MANDATO SCADRÀ A NOVEMBRE DEL 2023. ALLA FINE DELLO SCORSO ANNO IL SUO NOME ERA STATO PROPOSTO DA GIUSEPPE CONTE QUALE POSSIBILE NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA. DOPO L’ELEZIONE HA INCONTRATO LA STAMPA: NELL’ARTICOLO DE IL RIFORMISTA, A FIRMA DI ANGELA STELLA, È RIPORTATO CHE OCCORRE DIMENTICARE SUBITO LO STILE AMATO, POICHÉ LA NEO PRESIDENTE HA FATTO CAPIRE CHE, PUR TENENDO MOLTO ALLA COMUNICAZIONE DELLA CORTE – PIÙ VOLTE HA RINGRAZIATO DONATELLA STASIO -, LA SUA SARÀ UNA GESTIONE DAL PUNTO DI VISTA DELLE RELAZIONI CON LA STAMPA, MOLTO PIÙ INGESSATA E MODERATA RISPETTO A QUELLA DEL PREDECESSORE, CHE CI AVEVA ABITUATO, DA ABILE POLITICO QUAL È, AD AFFRONTARE SENZA FILTRI I TEMI CHE GLI VENIVANO SOTTOPOSTI. SEMPRE A NOME DEI GIORNALISTI DEL QUOTIDIANO “IL RIFORMISTA” È STATO SOTTOPOSTO E LETTO ALLA NEO PRESIDENTE, UN PASSAGGIO DI UN ARTICOLO DEL COSTITUZIONALISTA ANDREA PUGIOTTO, FIRMA AUTOREVOLE DI QUESTO GIORNALE CHE SUL TEMA DELL’ERGASTOLO OSTATIVO, TRA L’ALTRO, SCRIVEVA QUALCHE MESE FA: “UN TERZO RINVIO PRIVEREBBE PER SEMPRE DI QUALSIASI CREDIBILITÀ I MONITI RIVOLTI AL LEGISLATORE, RIVELANDO CHE LA PRIMA A NON PRENDERLI SUL SERIO È LA STESSA CONSULTA”. INSOMMA AVREMMO VOLUTO SAPERE SE C’È UN LIMITE CHE LA CORTE COSTITUZIONALE SI PONE NEL CONCEDERE AL PARLAMENTO NUOVI RINVII PER RISCRIVERE UNA LEGGE DICHIARATA INCOSTITUZIONALE, COME QUELLA SUL FINE PENA MAI.

LA PRESIDENTE, SI DISPIACE LA GIORNALISTA REDATTRICE DELL’ARTICOLO, HA ELUSO LA RICHIESTA: “HO LETTO L’ARTICOLO DI PUGIOTTO MA NON POSSO ESPRIMERMI, SARÀ IL COLLEGIO SOVRANO A PRENDERE QUESTA DECISIONE”. ANGELA STELLA HA CHIESTO UN ANTICIPO DELLA DECISIONE, E AVREBBE VOLUTO UNA RIFLESSIONE SULLA COLLABORAZIONE TRA CORTE E PARLAMENTO. SEMPRE DALL’ARTICOLO SI APPRENDE COME LA GIORNALISTA ANGELA STELLA SI AUSPICA È CHE LA CONSULTA TENGA CONTO IL PROSSIMO 8 NOVEMBRE (ENTRO QUESTA DATA IL PARLAMENTO DOVRÀ PORTARE A TERMINE LA MODIFICA DELL’ART. 4 BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO PER EVITARE UN POSSIBILE INTERVENTO DEI GIUDICI COSTITUZIONALI CHE SPAZZI VIA DEFINITIVAMENTE LA NORMA) DEL FATTO CHE DA UN CONTROLLO EFFETTUATO TRA I RESOCONTI DELLA COMMISSIONE GIUSTIZIA DEL SENATO È EMERSO CHE DALLA DATA DEL 10 MAGGIO, OSSIA DA QUANTO LA CONSULTA HA CONCESSO IL SECONDO RINVIO, A PALAZZO MADAMA SI SONO SUSSEGUITI SOLO RINVII NELLE POCHE SEDUTE – MENO DI DIECI – TENUTE SUL TEMA. DUNQUE NESSUN PASSO AVANTI. DIFFICILE POI CHE L’8 NOVEMBRE IL NUOVO PARLAMENTO EMANERÀ UNA LEGGE. GLI STESSI GIORNALISTI DEL “RIFORMISTA” TEMONO CHE, INOLTRE, MOLTO PROBABILMENTE, CI RITROVEREMO CON UN GOVERNO GUIDATO DA PARTITI PER I QUALI “CERTEZZA DELLA PENA È CERTEZZA DEL CARCERE”.

PURE IL GARANTE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTÀ PERSONALE MAURO PALMA HA OSSERVATO “CON FAVORE IL FATTO CHE PER LA SECONDA VOLTA SIA STATA CHIAMATA UNA DONNA AL VERTICE DELL’AUTOREVOLE ISTITUZIONE. GIUSLAVORISTA DI ELEVATO SPESSORE, È STATA TRA I GIUDICI COSTITUZIONALI CHE CON GRANDE SENSIBILITÀ HANNO PARTECIPATO NEL 2018 ALLA MEMORABILE ESPERIENZA DI INCONTRO CON LE PERSONE DETENUTE, DOCUMENTATA IN VIAGGIO IN ITALIA. LA CORTE COSTITUZIONALE NELLE CARCERI, PROGETTO CHE AVEVA VISTO L’ATTIVA COLLABORAZIONE DELLO STESSO GARANTE NAZIONALE. IN QUELL’OCCASIONE, LA PRESIDENTE SCIARRA AVEVA MOSTRATO GRANDE ATTENZIONE AL TEMA DEL LAVORO IN CARCERE, QUESTIONE DI CRUCIALE IMPORTANZA”.

 
 
 

Profezia o casualità?

Post n°1338 pubblicato il 21 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Green Day, “American Idiot”: più che un album, forse una vera e propria profezia?

 

 

L’album capolavoro dei Green Day ha segnato l’epoca del trauma per tutto il mondo post 11 settembre, l’epoca delle bugie del presidente degli Stati Uniti George W. Bush e dei “nuovi media” portatori di fake news. Ma a distanza di diciotto anni, l’ “idiota americano”, questo il titolo in italiano dell’album, apatico e alienato, ha contagiato, purtroppo, il mondo intero!

 

 

Mi piace pensare che la mia generazione, quella rimasta traumatizzata e sbigottita da quel tragico evento dell’11 settembre, possa rivedersi in uno slogan, in un’idea che dall’America si è fatto grido, ma che poi purtroppo ha finito per contagiare il mondo intero. Ricordo ancora quel motto inventato da Billie Joe Armstrong, il front-man dei Green Day, quando, il 21 settembre del 2004, decise di cantare al mondo i mali dell’America: “Don’t wanna be an american idiot!”, “Non voglio essere un idiota americano”. Si apre così il settimo album della band californiana: con un rifiuto categorico, divenuto presto un mantra, e con una bandiera a stelle e strisce sporcata di un verde rancido. 

Nel 2004 gli Stati Uniti erano ancora un Paese aggredito, la grande vittima del terrorismo islamico radicale. La portata dei cambiamenti globali che l’11 settembre 2001 innescò fu enorme: non mi riferisco tanto alle guerre in Afghanistan e in Iraq, ma ai tellurici sommovimenti sociali generati da una paura senza nome che il terrorismo fece esplodere nel cielo di Manhattan. Evento che generò successivamente numerose teorie, tra le quali quella che immaginava l’evento inventato di sana pianta da una élite del terrore, oggi comunemente conosciuta come NWO, che voleva plasmare il mondo a suon di eventi terrificanti.

Welcome to a new kind of tension, all across the alienation”, “Benvenuti in un nuovo tipo di tensione, ai confini dell’alienazione” cantavano Billie Joe Armstrong e soci. Dall’attentato alle Torri Gemelle si diffusero ovunque una serie di angosce, più o meno inconsce: su tutte il terrore di volare, l’ansia del viaggio e la paura del diverso (specie se di religione musulmana). E poiché la paura è una forza irrazionale, non sempre resta confinata a un oggetto preciso, ma si espande come un virus ad ogni altro aspetto della vita. A poco a poco, per molte persone i confini mentali e gli orizzonti culturali iniziarono a ripiegare su sé stessi, di paese in paese, di contea in contea, fino all’uscio di casa.

Il grido dei Green Day si stagliava contro tutto questo; non ignorava il dolore della gente ma denunciava, attraverso le 13 tracce di un concept album, le forze responsabili di aver “normalizzato la paura” (il sistema mediatico dell’informazione mainstream) e di averla strumentalizzata per i fini più abietti (l’allora presidente George W. Bush, accusato di aver giustificato l’invasione dell’Iraq sulla base di quelle che oggi chiameremmo “fake news”). Più di tutto, quel grido cercava di destare dal torpore, secondo il testo del brano, il prototipo dell’idiota americano, un uomo col sedere incollato al divano, gli occhi ipnotizzati dalla tv e la mente in perenne stato di caos calmo, una spugna alimentata ad alcol, droghe e terrore mediatico.

I’m the son of rage and love, the Jesus of Suburbia”: l’album “American Idiot” racconta l’alba di una nuova epoca, “The age of paranoia”, attraverso gli occhi di Jesus, un ragazzo ribelle che cerca di dare alla propria vita un senso che vada oltre la passiva accettazione dell’infelicità. Decide di farlo abbandonando la ragazza, gli amici e la propria casa, intraprendendo un viaggio attraverso le macerie emotive e spirituali della nuova America che si stordisce in una perenne “Holiday” pur di non fare i conti con sé stessa. Jesus è diverso per il fatto di provare ancora qualcosa che lo faccia “indignare”, che lo porti a mettere in discussione sé stesso e il mondo intorno a lui, mosso da quell’ira tanto cara a Billie Joe Armstrong, il quale una volta dichiarò «Ho sempre pensato che la rabbia fosse molto più interessante che starsene tranquilli».

Ma il sentirsi diversi dalla realtà che ci circonda conduce sempre su “una strada solitaria. È la strada, per molti, delle speranze mai realizzate, dei sogni infranti. “Boulevard of broken dreams”, uno dei brani più iconici, ancorché meno politici dell’album, è la discesa negli inferi che ogni uomo deve affrontare per restare umano: è il ritrovarsi da soli con le proprie paure e i propri dubbi, domandarsi se tutto ha un senso, se vale la pena agire o se la nostra vita non è altro che “l’attesa sconosciuta di qualcosa”.

La buona notizia è che “non è mai finita fintanto che si è vivi” (“It’s not over ‘til you’re undergound”, dal brano “Letterbomb”), dove il verbo vivere assume un significato ben più alto del semplice fatto di respirare. Conoscere sé stessi, trovare qualcosa in cui credere è la vittoria dell’uomo sull’apatia, sull’alienazione, è la via di fuga dall’idiota americano.

 

I Green Day avevano previsto tutto? Con la musica, come con gli scherzi, si può dire qualsiasi cosa, persino la verità. Si può dire che un presidente ha mentito al proprio Paese; si può mettere in guardia le persone dall’irrazionale paura del diverso, dall’allarmismo immotivato dei media, dalla disinformazione. Perché la verità non sta tutta nella bocca degli anchor men, così come la sicurezza non è solo dentro le mura domestiche.

American Idiot, comunque, non fu uno scherzo: con 16 milioni di copie vendute in tutto il mondo è stato l’album di maggior successo dei Green Day, secondo solo a “Dookie” del 1994. Se però con Dookie il trio di Berkeley si era presentato sulla scena come un gruppo punk anni ’90 i cui testi parlavano di masturbazione, droghe e disagio adolescenziale, con “American Idiot”, l’album della maturità, il punk evolve in rock, la durata dei brani si allunga (Jesus of Suburbia e Homecoming superano i 9 minuti) e l’ira giovanile “matura”, appunto in vera e propria “denuncia politico-sociale”. American Idiot ha regalato l’immortalità al gruppo, ne ha ampliato il pubblico e l’ha proiettato dritto negli anni 2000. E non solo.

In questi giorni torno a riscoprirlo, mi sono messo a riascoltarlo con una consapevolezza differente, per certi versi inaspettata. Nel cantare quei testi non ho potuto fare a meno di percepire un che di profetico. Per i Green Day il grande nemico erano “i nuovi media mainstream”, capaci di fare propaganda, di manipolare i sentimenti e le emozioni delle masse, al fine di ottenere un controllo della società; era la propaganda dei poteri forti, che già allora iniziava a lavorare (oggi ce ne rendiamo certamente più conto, e ne siamo più consapevoli), attraverso le menzogne dell’establishment. Era una società che si poneva come ideale, all’epoca proprio come oggi continua ad accadere, la formazione di un mansueto gregge di idioti, più che di un popolo colto e consapevole.

La cosa sorprendente è che nell’autunno del 2004 l’onnipresenza del sistema mediatico nella vita delle persone era uno scherzo rispetto a oggi. I social network ancora non esistevano. Facebook era stato lanciato da pochi mesi ed era ancora uno strumento confinato al perimetro dell’Università di Harvard. Non c’erano YouTube e tantomeno i sistemi di messaggistica istantanea. Ciononostante i Green Day cantavano di un mondo in “pericolo”, di una società alienata e drogata dalla TV, rassegnata a retrocedere dinanzi a una subdola e invisibile “manipolazione emotiva”.

Il paragone con i giorni nostri, dove l’informazione proviene da un numero spropositato di fonti, per la maggior parte “inattendibili”, dove lo smartphone è diventato il prolungamento della mano, che sostituisce i nostri cervelli, dove le persone trascorrono quasi l’intera giornata davanti a uno schermo (smartphone, PC, TV fa lo stesso) fa tremare i polsi. Se prima bastava spegnere la tv per disconnettersi dalla “Matrix”, oggi rinunciare ai social e a Whatsapp equivale a una scelta di vita ascetica. Anche se io ho iniziato farlo, cancellando il mio profilo in Facebook. Se ricordiamo tutti l’amministrazione Bush come un establishment bugiardo, rispetto a diciotto anni fa “l’American idiot” dei Green Day non solo è un po’ più “idiota”, ma ahimè, non è più solo americano. Si è moltiplicato, si è evoluto, si è sempre più dissociato dalla realtà, dalla spiritualità e da se stesso. Se prima non aveva nulla in cui credere, oggi crede in cose “non vere”, irreali, inventate. Se prima il suo pensiero era anestetizzato e vuoto, oggi è radicalizzato e gonfio di nulla e la causa è sempre la stessa, ieri come oggi: un’inconfessabile e inascoltata paura.

Mi piace pensare che i Green Day avessero intuito all’epoca, in qualche maniera, la pericolosità di un fenomeno all’epoca ancora in stato embrionale, oggi maturato. In quegli anni tutto era allo stato embrionale, in quell’epoca tutti abbiamo visto e subito tutto senza capire, se non oggi, sperando non sia troppo tardi. È una consolazione da scemi? O forse da idioti?

Ed è con questa considerazione che metto su il brano, alzo il volume al massimo e grido, oggi più di ieri: “Don’t wanna be an american idiot!”.

 

 
 
 

I PERICOLI DI UNA SOCIETÀ CAPITALISTICA.

Post n°1337 pubblicato il 20 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Nel capitalismo moderno, la triplice esigenza contraddittoria di razionalità, performance e sicurezza favorisce una tendenza apparentemente irresistibile. Questa corrente conduce il sistema verso la scomparsa del denaro contante. Si tratta di eliminare banconote e moneta di piccolo taglio in metallo (detta «moneta divisionale»), che gonfiano i portafogli e appesantiscono le tasche. Nella logica capitalista, che promuove la performance del sistema di pagamento come per tutto il resto, questi mezzi materiali pesanti e costosi per gli istituti bancari lasciano in gran parte il posto agli strumenti digitali: carte di credito, carte di pagamento, internet o applicazioni informatiche integrate nei telefoni cellulari. I fautori di un’economia razionale, produttivista e sicura vogliono incoraggiare questa dematerializzazione, al punto da desiderare una società senza contanti.

Essi sono sostenuti da alti funzionari, sia internazionali sia nazionali. Christine Lagarde, ex direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) e attuale presidente della Banca centrale europea (Bce), Michel Sapin, commissario europeo, e William White dell’Ocse, per non parlare degli aficionados del Forum di Davos, vedono negli scambi senza contanti il futuro delle economie di mercato. In un rapporto del Comité Action Publique 2022 (Cap 2022) , tecnocrati, dirigenti d’azienda, economisti e alti funzionari hanno già manifestato da diversi anni la loro volontà di andare verso una società zero cash. In breve, questi tecnocrati sostengono che eliminare gradualmente la circolazione del contante semplificherà i pagamenti. Affermano che la società senza contanti corrisponderebbe allo «stile di vita già raccomandato da tutti» e permetterebbe una lotta più efficace contro le frodi e la criminalità organizzata.

 

Risultati più sfumati

Pretendere che la scomparsa del contante sia sostenuta da tutti è una conclusione affrettata, generalizzando l’opinione forse maggioritaria. Peggio ancora, significa confondere l’ideale tecnocratico con il bene comune di tutti, in particolare delle popolazioni più fragili. In Europa, l’87% degli intervistati afferma di utilizzare ancora il contante presso i piccoli commercianti, e il 72% nei distributori automatici. Inoltre, l’83% degli intervistati si dichiara «preoccupato per la scomparsa del contante». Questo sentimento è condiviso da quelli che utilizzano quotidianamente questo metodo di pagamento (87%), ma anche – ciò che è più interessante – da coloro che preferiscono i pagamenti dematerializzati (73%). Ad ogni modo, in nome della frode e della criminalità organizzata, la Commissione europea ha già ottenuto dalla Banca centrale europea l’abbandono della banconota da 500 euro nell’autunno del 2021 (nello stesso momento in cui la Svizzera faceva circolare una nuova banconota da 1.000 franchi svizzeri, circa 930 euro).

La spiegazione di queste visioni contrastanti è complessa. Le varie forme monetarie, infatti, riflettono le diverse sensibilità della società. Il capitalismo liberale, nella sua logica di un rendimento sempre più rapido degli investimenti, ha privilegiato le forme che circolano più rapidamente: prima oggetti o metalli preziosi, che hanno in sé un grande valore in un piccolo volume; poi la cartamoneta più leggera; e, ancora più leggere, le voci nel passivo dei bilanci delle banche, le annotazioni elettroniche che sono alla base della cosiddetta «moneta scritturale» e per i trasferimenti di fondi con mezzi digitali, fino alle transazioni automatiche. Questa logica in effetti rende tecnicamente obsolete – ma non socialmente inutili – le forme più datate, come la moneta divisionale (moneta spicciola) e la moneta fiduciaria (banconote).

In effetti, l’evoluzione tecnica relativa ai supporti monetari giustifica l’annuncio dell’imminente scomparsa del contante. Sulla stampa appaiono ripetutamente articoli che segnalano tale scomparsa progressiva, o che addirittura la esaltano. Allo stesso modo, sono messi in evidenza i malfunzionamenti degli sportelli automatici, anche la loro violazione elettronica, dimenticando che l’appropriazione indebita di carte bancarie e i buginformatici nei pagamenti elettronici sono eventi più numerosi e con conseguenze ben più gravi.

 

Il paradosso rivelato dalla pandemia

I tecnocrati non hanno notato che dietro la diminuzione dell’uso del contante nelle transazioni commerciali si nascondono pratiche sociali e culturali che vanno nella direzione opposta. Così, dall’inizio del 2020, la pandemia, che, da una variante all’altra, non smette di preoccupare, ha provocato un doppio effetto contraddittorio. Da una parte, il timore della trasmissione del virus attraverso il contatto con la cartamoneta e le monete metalliche ha rafforzato i pagamenti elettronici (o senza contatto) nei negozi e ai distributori automatici, entro un limite di 30 euro a partire dal 2017, portato a 50 euro dal maggio 2020, durante il primo lockdown. Alcuni negozianti hanno persino esposto con orgoglio, come spesso accade negli Stati Uniti, la scritta no cash.

D’altra parte, la pandemia non ha neutralizzato l’interesse per il denaro contante, tutt’altro. Nel 2020 la Banca centrale europea ha emesso 141 miliardi di euro di nuove banconote (+11% in un anno). Questo porta la moneta fiduciaria in circolazione in Europa alla vertiginosa cifra di 1.435 miliardi di euro. Tale paradosso – aumento dei pagamenti elettronici o senza contatto, unito a un aumento dell’interesse per i contanti – può essere spiegato, secondo la Bce, con «l’attaccamento alle riserve di contanti in tempi difficili». Questo fenomeno ci ricorda che in economia, come in tutta la storia sociale e politica, i sentimenti e le sensibilità culturali formano un insieme. Si tratta di un fenomeno sociale globale, come dicono gli studiosi, quello che il grande economista austriaco Joseph Schumpeter aveva perfettamente diagnosticato fin dal 1911 nelle frasi iniziali della sua Teoria dello sviluppo economico: «Il divenire sociale è un fenomeno unitario. Nella sua grande corrente, la mano ordinatrice dell’indagatore rileva forzatamente i fatti economici» .

Infatti, come tutti i fenomeni sociali, l’uso del contante, la frode e la criminalità – piccola o grande che sia – dipendono da una configurazione globale del diritto, della normativa e della cultura. Questi fenomeni sociali si adeguano facilmente alle tecniche di circolazione monetaria disponibili nel Paese. Credere che un mezzo di pagamento dematerializzato ostacoli i truffatori e i criminali è una superstizione falsamente ingenua.

Sì, superstizione, come dimostrano le più grandi appropriazioni indebite degli ultimi 10 anni che sono sfuggite alla rete dei «gabellieri» (esattori delle tasse e guardie doganali) senza dover portare valigie di banconote. Sul piano della sicurezza pubblica, i Paesi che limitano i pagamenti in contanti – in particolare Francia e Italia – non sono più sicuri – per usare un eufemismo – dei Paesi in cui il denaro contante circola liberamente, come Svizzera, Germania, Hong Kong, Singapore. Questa immagine di una società senza contanti è una superstizione falsamente ingenua, perché dissimila operazioni molto comuni sia dello Stato sia delle banche commerciali.

 

Nella logica del mercato

Certo, la proporzione dei pagamenti in contanti è in calo, ed è ormai ampiamente in minoranza nei Paesi occidentali e in Asia. I consumatori favorevoli al no cash sottolineano la praticità del pagamento elettronico, peraltro innegabile. Sono sempre più numerose anche le diocesi che usano il cestino della raccolta contactless in diverse delle loro parrocchie.

Questi mezzi riflettono semplicemente la logica capitalista della produttività. Le catene di grandi magazzini e i commercianti che espongono la scritta no cash cercano di risparmiare sui costi di verifica dei contanti. Ci vuole tempo per «fare il controllo di cassa» ogni sera. Questo è meno vero oggi, perché le macchine, in un istante, controllano e contano le banconote e le monete, e danno il resto. Ma queste macchine non sono gratuite.

Per le banche commerciali, l’interesse per una società senza contanti non è inferiore. Finché non si liberano della preoccupazione e del costo della manutenzione della rete dei bancomat, esse contano sulla massa di depositi virtualmente vincolati, che allevia le limitazioni di legge sulle riserve minime obbligatorie, che esse gestiscono a loro vantaggio. Oltre alla conoscenza più precisa – anzi, quasi esaustiva – delle abitudini di consumo e di trasferimento di denaro dei clienti, la scomparsa del contante promette loro una maggiore flessibilità commerciale e di strategia di marketing. Inoltre, all’orizzonte del no cash c’è la prospettiva di trasferire facilmente ai propri clienti eventuali tassi di interesse negativi decretati dalla banca centrale.

In una società senza contanti, anche la politica monetaria delle banche centrali ha il suo vantaggio, perché la registrazione di tutte le transazioni nei conti bancari aiuta a combattere la tesaurizzazione. Quest’ultima, sfavorevole alla crescita, è temuta dai responsabili della politica monetaria, che vorrebbero suscitare nei risparmiatori una tendenza alla spesa. Questo può essere fatto più facilmente introducendo una sorta di «moneta che si svaluta», imponendo un tasso di interesse negativo sui depositi bancari. Invece, la ricchezza detenuta in contanti rischia solo la svalutazione della moneta, dovuta  all’aumento dei prezzi.

A beneficio dello Stato, una società senza contanti rafforza la politica fiscale pubblica. L’assenza di contante in effetti ostacola l’evasione fiscale (il fatto di «dimenticare» o nascondere al fisco redditi o beni), ma anche la frode fiscale (il fatto di ingannare deliberatamente il fisco). Inoltre, le manovre pubbliche per costringere i risparmiatori a spendere, in assenza di inflazione causata dall’attività economica, possono provocare l’equivalente dell’inflazione, richiedendo tassi negativi che saranno tanto più efficaci in quanto i proprietari di tali depositi vincolati non potranno più sfuggire a questi prelievi conservando il denaro in contanti, in una cassaforte o «sotto il materasso», secondo l’espressione popolare.

Si capisce quindi facilmente come in Europa la Banca centrale, le banche commerciali, gli alti funzionari e i governi guardino con interesse alla Svezia, dove il contante è quasi completamente scomparso. Lì, la moneta fiduciaria in circolazione rappresenta circa il 2% delle transazioni, mentre nell’Unione Europea la cifra oscilla tra il 10% e il 20%, a seconda del Paese. Nei Paesi in via di sviluppo, la percentuale di contante in circolazione è ancora maggiore: tra il 60% e il 90%, a seconda del Paese. In questo contesto, nessuno si stupisce che gli attivisti anti-cash siano principalmente reclutati nelle popolazioni urbane, piuttosto giovani e con un livello di istruzione più elevato. È quindi comprensibile che la Svezia sia il Paese più avanzato d’Europa nella dematerializzazione del denaro.

 

Nella logica sociale

Questa teoria liberale in armonia con la dinamica capitalista deve essere messa in discussione. È logico che un monito che merita di essere ascoltato venga proprio dalla Svezia, il Paese europeo più avanzato in questo percorso verso pagamenti senza contanti. Stefan Ingves, governatore della Banca centrale svedese (Sveriges Riksbank), in un articolo pubblicato nel 2018, sostiene che è necessario mettere in atto nuove regole per garantire che il denaro contante continui a essere accettato come mezzo di pagamento. Egli spiega che le cose evolvono troppo rapidamente e che il controllo della Banca centrale sui sistemi di pagamento deve essere salvaguardato. Se non si fa nulla, dice, la Svezia arriverà a una situazione in cui tutti i mezzi di pagamento a cui il pubblico ha accesso saranno offerti e controllati da attori commerciali, senza contare le nuove cosiddette «valute elettroniche» di vario genere. Per chiarire il punto, il Governatore afferma che i promotori delle attività finanziarie private contro fondi pubblici «hanno torto» nel dire che gli svedesi non hanno nulla da temere. In tempi di crisi, spiega, il pubblico cerca sempre beni privi di rischio, come i contanti, garantiti dallo Stato. «È improbabile che gli attori commerciali si assumano in tutte le circostanze la responsabilità di assecondare la domanda del pubblico di avere mezzi di pagamento sicuri». Questi argomenti sono stati ascoltati: dall’inizio del 2020, un regolamento svedese obbliga le banche ad assicurare la distribuzione del contante.

Tra tutte le ragioni addotte dal governo svedese, una contraddice direttamente la logica unidimensionale della performance e della razionalità capitalistica: l’attenzione ai più deboli. Questi dibattiti sulla tecnica dei pagamenti, che in apparenza sono puramente economici, in realtà occultano situazioni sociali con questioni morali abbastanza semplici, ma fondamentali. Una modernità radicata nella razionalità dominante si confronta così con una tradizione sociale intrisa di ispirazione religiosa, soprattutto cristiana, che non vuole trascurare nessun essere umano, né le legittime aspirazioni delle popolazioni più disagiate. In termini politici, un interesse generale ridotto alla salute dell’economia si contrappone qui al bene comune, che è il bene di tutti – specialmente dei più deboli – attraverso la solidarietà di tutti, anche se ciò significa ridurre un po’ la crescita economica.

Di fronte alla razionalità puramente economica che i sostenitori dell’abbandono del contante vorrebbero imporre, l’esigenza del bene comune sposa la causa di ogni membro della società, e non semplicemente quella di una maggioranza definita dalle statistiche, anche se più giovane, più istruita, residente in un ambiente urbano e abile nell’uso dei metodi di pagamento elettronico. La mancanza di denaro contante accentua la precarietà delle persone che vivono ai margini della società, escluse dalla tecnologia: i senzatetto, le persone senza documenti, i mendicanti, i migranti, gli anziani, soprattutto nelle aree rurali. Nella primavera del 2020, un senatore ha rivolto una domanda al governo sulla mancanza di bancomat in alcune zone rurali della Francia. Non si trattava semplicemente di compiacere i mercanti di bestiame che, non fidandosi del fisco, pagano in contanti mucche e cavalli. Tutti gli studi sulle dimensioni antropologiche e politiche del contante convergono su questa sintesi stilata dal direttore della Monnaie de Paris: «La moneta fiduciaria (banconote di carta, più monete di metallo) è percepita non soltanto come pratica e facile da usare, ma anche come un “vettore di coesione sociale”. Al di là del suo uso quotidiano, il denaro continua a svolgere un ruolo nella nostra società, per la trasmissione intergenerazionale, l’educazione e la solidarietà».

 

La causa degli esclusi

Questo è il motivo per cui le Ong più vicine ai migranti e ai poveri protestano vigorosamente contro le decisioni amministrative di limitare il contante, in particolare il denaro ricevuto dai migranti in alcuni Paesi. Una di queste decisioni amministrative, che sembra essere in apparenza puramente tecnica, neutralizza le carte di prelievo di contanti concesse ai richiedenti asilo. Infatti, in attesa dell’esame del loro caso, per compensare il divieto di lavoro, questi ricevono solitamente una piccola somma di denaro (generalmente tra 7 e 12 euro al giorno). I tecnocrati, con il pretesto di un possibile racket, vogliono consentire solo le carte di pagamento, ma non i prelievi di contanti dai bancomat, né i trasferimenti di denaro. La precarietà di queste persone ne risulta aumentata. Inoltre, ci sono consumatori che sono più o meno inconsapevoli delle loro spese quando vengono dematerializzate. Del segno monetario tangibile gli psicoanalisti hanno fatto a lungo un buon affare: giustificavano il pagamento in contanti per ciascuna delle sedute che facevano con l’efficacia del trattamento psicologico. In gergo francofono, bisognava «toccare con mano» i soldi per dare al pagamento il suo giusto peso. Altrimenti, il denaro dematerializzato sarebbe psicologicamente inefficace.

Oltre a queste particolari categorie, la maggior parte di coloro che vogliono mantenere una quota di denaro contante si preoccupa di salvaguardare la propria privacy. La questione riguarda la libertà di coscienza e di azione. Altre categorie di persone si uniscono a questa schiera: persone sensibili al furto di dati, alla manipolazione di codici, agli errori nelle richieste, ai malfunzionamenti dei sistemi di prelievo, per non parlare degli errori dell’utente quando, con l’avanzare dell’età, gli tremano le mani e preme goffamente i tasti del computer o del telefono cellulare. I bug informatici non possono mai essere esclusi, e l’esperienza quotidiana mostra quanto possa essere penoso affrontare le difficoltà amministrative quando si tratta di ottenere il riconoscimento dei propri diritti.

Contro queste minacce di malfunzionamenti, i sostenitori del no cash presentano le statistiche: i rischi operativi rappresentano solo una parte esigua delle somme in gioco. Questi tecnocrati confondono la statistica con la diagnosi. Le statistiche si basano sulla legge dei grandi numeri, mentre le diagnosi riguardano ciascun individuo, perché, a parte le compagnie di assicurazione, i fondi di investimento, le aziende operanti nel mercato di massa e lo Stato, pochissime persone si trovano in situazioni che rientrano nella legge dei grandi numeri. Secondo l’esperienza comune, ciò che accade agli altri accade anche a se stessi. Infine, gli attivisti che lavorano per l’abolizione del contante non sembrano tanto motivati dalla modernizzazione del sistema di pagamento quanto dallo sfruttamento personale, commerciale o statale di dati privati: sfruttamento operato da tecnocrati che non hanno alcun riguardo per la vita privata o per la volontà dei consumatori, dei deboli e degli esclusi, e ancor meno per chi non sa usare i dispositivi digitali.

 

Pericolo politico di una società senza contanti

Anche le implicazioni politiche di una società senza contanti meritano di essere evidenziate. La Cina è tecnicamente il Paese più avanzato in questa transizione verso una società senza contanti. Eppure, non è considerata un modello di liberalismo. Attualmente persegue una politica restrittiva delle libertà individuali. Coloro che ancora ricordano i mali dei regimi totalitari sono giustamente sospettosi di una società senza contanti, che lascia l’individuo del tutto  dipendente finanziariamente da un sistema centralizzato. Una petizione a favore del mantenimento dei contanti chiede: «Cosa accadrebbe se si diventasse uno dei bersagli del potere politico?».

E anche supponendo che le istituzioni democratiche non siano mai il vettore di un populismo dai toni totalitari, rimarrebbe la minaccia di un prelievo arbitrario sulla liquidità dei correntisti, soprattutto in caso di crisi del debito pubblico. Ricordiamo la Grecia, Cipro e l’Argentina, dove, di fronte alla crisi, i prelievi di contanti sono stati limitati in nome dell’interesse generale. A volte i prelievi venivano effettuati direttamente sui depositi dei risparmiatori. Una direttiva della Commissione europea prevede peraltro la possibilità di tale tipo di prelievo in caso di grave crisi. Questa pratica è un’imposta ingiusta e discutibile, perché la porzione dei patrimoni tenuti nei conti correnti è tanto maggiore quanto minore è la ricchezza, e quindi grava di più sui redditi bassi. Essa è, inoltre, un’imposta non democratica, perché, come l’inflazione, l’addebito diretto sui conti correnti dei cittadini agisce subdolamente, al di fuori di ogni controllo parlamentare, non sulla ricchezza reale, ma solo sulla forma più esposta dei beni di ciascuno.

 

Verso quale soluzione?

Si può immaginare una moneta puramente elettronica che sfugge alla logica del mercato. Per mitigare i rischi evidenziati dal Governatore della Banca centrale svedese, ossia di una gestione commerciale, tramite banche e aziende, dei pagamenti, alcuni raccomandano – e le banche centrali vi si stanno effettivamente preparando – la crea­zione e la gestione di valute elettroniche pubbliche. Questo non eliminerebbe il problema del controllo statale temuto da alcuni.

Per evitare tali pericoli, alcuni vogliono rendere le criptovalute più operative, meno costose in termini energetici, e quindi più ecologiche. Questa soluzione non è priva di rischi, perché si tratta di valute puramente speculative, il cui tasso di cambio varia fortemente e in continuazione, e che si basano su un sistema ritenuto non falsificabile, ma i cui difetti un giorno potrebbero venire a galla. Inoltre, la diffusione delle criptovalute non soddisferebbe affatto i cittadini animati da senso civico, che si preoccupano di limitare le frodi e il riciclaggio di denaro. Di fatto, le criptovalute sembrano essere un mezzo per sfuggire ai dettami delle organizzazioni totalitarie. Non sono forse apparse proprio in risposta a questa possibile minaccia? In realtà, la volatilità di tali valute digitali le rende poco adatte a svolgere il ruolo di riserva di valore. E la loro indipendenza dal potere politico si sta rivelando sempre più illusoria .

Per concludere, nonostante il suo costo economico e le perdite che consente nella circolazione del contante, e tenuto conto dei problemi antropologici e sociali degli scambi economici, la situazione esistente, in cui le banconote e la moneta divisionale circolano in concorrenza con i mezzi di pagamento elettronici, rimane il sistema che attualmente presenta il miglior compromesso economico e politico.

 

articolo tratto da:

https://www.laciviltacattolica.it/articolo/i-pericoli-antropologici-e-politici-di-una-societa-senza-contanti/

 

 
 
 

Cercate Dio, fonte di vita!

Post n°1336 pubblicato il 19 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Il dolore e la sofferenza, guardati nella prospettiva di Cristo il risorto, rinvigoriscono la fede. Non è vero che il dolore sia rassegnazione, inerzia e abbandono a se stessi, ma al contrario vissuti nella speranza del ritorno del Cristo Gesù, assumono un valore altissimo, di redenzione e salvezza, per se stessi e per l’intero genere umano. E questo risulta tanto vero quanto crediamo alle sacre scritture, ad esempio il libro di Giobbe, dove si descrive la sofferenza di un uomo giusto, non colpevole, credente e fedele a Dio. Come leggere dunque il dramma umano della sofferenza alla luce della fede? È questo il tema centrale del libro di Giobbe, che grida il suo dolore per la sua immane sofferenza, mentre nel Vangelo si possono leggere della “reazioni di guarigione” da parte di Gesù quando gli portano «molti individui affetti da varie malattie». Perché la sofferenza avvicina a Dio, Gesù avrebbe potuto evitare, in quanto figlio di Dio la sofferenza, lo domandò nell’orto degli Ulivi, ma alla fine obbedì alla volontà del Padre suo.

 Tutto il libro di Giobbe mostra che è legittimo, eccome, gridare la propria sofferenza e la propria rabbia per il male che si vive. Giobbe arriva quasi a bestemmiare Dio per le sue sofferenze, contestando i suoi amici religiosissimi, che gli predicavano rassegnazione e obbedienza alla "volontà di Dio". E, alla fine del libro, Dio sanzionerà che solo Giobbe ha detto cose rette di lui (cfr. Gb 42,7).

La fede non comporta l'accettazione supina e vittimale di ogni tipo di sofferenza, non sarebbe possibile, non sarebbe umanamente possibile. Mai, nella Bibbia, si dice che Dio mandi le sofferenze, anzi, meglio, che "si serva" di esse per far capire qualche cosa all’essere umano. In molte espressione dei Salmi, preghiere modello della fede, l'essere umano "si sfoga" spessissimo con Dio per il dolore che sta patendo; come si fa, in genere, con le persone care più vicine e intime. In fondo rappresenta un appello al Signore per sentirsi tenuti per mano da Lui quando si patisce, quando si versano lacrime, un desiderio ardente di sentirlo vicino: è questo il sollievo che cerca ciascun individuo credente. Quindi non solo Giobbe, ma anche altri abbondanti testi biblici insistono nel mostrarci che la fede vera non patetica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che ci avvicini di più a Dio. Stupisce che, dopo tanti secoli, ancora oggi sia radicata una certa convinzione e una certa predicazione che ci sia in qualche modo Dio dietro al male che si soffre. Invece, Dio è amore, tutto e solo bene, e vita che splende, gioia che risuona nei cuori: non è in grado in nessun modo di concepire qualcosa di negativo, nemmeno come mezzo: patì Lui, purché non patissero i suoi figli, questo è il senso della croce di Gesù.

Anche Gesù non ha mai dato valore positivo al dolore. Di fronte alla sofferenza umana ha sempre mostrato tanta compassione - fino alle lacrime - e tanto impegno nel volerla sconfiggere: attraverso i segni di guarigione. I credenti venivano da Lui esonerati dal soffrire, attraverso i miracoli. Gesti che assumono dunque valore programmatico, perché costituiscono i primi segni del suo annuncio del Regno: per umanizzare l'uomo, Gesù viene a liberarlo dalla sofferenza, per coloro che in Lui confidano, non a schiacciarli nella rassegnazione.

«Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni»: Gesù non è venuto ad opprimere l'uomo con nuove pretese religiose, ma a liberarlo dai mali, fisici e interiori, che lo fanno soffrire.

Ci capita di ascoltare spesso la frase: «Nel mondo c'è più sofferenza che peccato». Anche oggi il Figlio di Dio vuole farsi presente e all'opera dove più c’è l'esistenza dell'uomo: nelle sue ferite. Egli vuole aprire i cuori degli uomini perché si facciano suoi occhi, suo cuore, sue mani nei confronti di chi soffre: i samaritani del buon Samaritano, perché nessuno rimanga abbandonato lungo la strada a soffrire. Per questo i cristiani devono essere cittadini del mondo: laddove c'è la pena di un uomo, lì si è di casa, perché lì c'è l'appello del Signore a farsi prossimi, lì si può ascoltare la sua voce a vivere la carità e si vede la sua volontà di cura, non di promuovere la sofferenza.
Oggi c'è poca fede non perché sono vuote le chiese, ma perché si svuotano i cuori. Infatti non esiste più neppure la compassione: Dio non vuole la sofferenza dell'uomo, ma quanti uomini vogliono la sofferenza di altri uomini come loro, magari per superficialità ed egoismo!

Gesù non si prodiga incessantemente nella guarigione dei malati. Esiste un limite alla sua attività di guarigione. Il primo è la necessità di attingere forza dal rapporto orante con il Padre, senza del quale anche le opere più significative diventano vuoto attivismo. Soprattutto oggi, che i pastori devono occuparsi di più comunità, si rischia di farsi prendere ed espropriare dalle molte cose da fare. C'è da ricordare che Gesù, prima di guarire la suocera di Pietro, le si è avvicinato e l’ha fatta alzare prendendola per mano: la cosa più importante è il contatto personale con le persone, farle sentire che in quel momento si è del tutto per loro, e non con il pensiero rivolto già alle prossime cose da fare. Questo contatto personale ha una forza di guarigione più grande della moltiplicazione delle Messe per non scontentare nessuno. Gesù inoltre si sottrae al rischio di diventare il semplice fornitore di miracoli di guarigione. Egli può prendersi cura dell'uomo perché si prende cura del suo rapporto con il Padre, da cui trae la forza necessaria che è l'amore. Solo così i gesti che Egli compie non rappresentano semplice soddisfazione del bisogno dell'uomo, ma segni della vicinanza di Dio all'uomo e alla sua condizione di sofferenza: diventano "sacramenti", che indicano, dentro i gesti umani più belli della cura dell'altro, la tenerezza di Dio per la fragilità delle sue creature e dei suoi figli.

 

 
 
 

LA SOLITA TRUFFA DELLE NOMINE...

Post n°1335 pubblicato il 18 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Giuliano Amato ha concluso i suoi 9 anni alla Corte costituzionale: oggi 18 settembre infatti, ha terminato il suo mandato alla Consulta, di cui è presidente dal 29 gennaio scorso. Nominato giudice costituzionale dall'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 12 settembre 2013 (ha giurato il 18) Amato ha presieduto la sua ultima udienza pubblica a Palazzo della Consulta martedì 13 settembre scorso.

Il professor Marco D’Alberti sarà nominato, dai “giudici delle leggi”, ai sensi dell’articolo 135 della Costituzione, giudice della Corte Costituzionale in sostituzione del professor Giuliano Amato. Il decreto di nomina è stato controfirmato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi. Il professor Giuliano Amato cesserà le sue funzioni il prossimo 18 settembre. Il giuramento alla nomina del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si terrà il prossimo martedì, 20 settembre, al Palazzo del Quirinale.

D’Alberti è attualmente professore ordinario di Diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza. È nato a Roma il 10 agosto 1948. Laurea in Giurisprudenza con lode, assistente di Massimo Severo Giannini alla cattedra di Diritto Amministrativo all’Università La Sapienza di Roma dal 1973 al 1977, vincitore del concorso a cattedra in Diritto amministrativo nel 1985.

Prima della cattedra a La Sapienza ha insegnato nelle Università di Camerino, Urbino, Ancona, alla Scuola superiore della pubblica amministrazione e nella Facoltà di Scienze politiche della Sapienza. È stato anche professore di Scienza dell’amministrazione alla Luiss (1996-97). È Senior Research Fellow della Scuola superiore di Studi avanzati della Sapienza e direttore del Master di secondo livello ”Global regulation of markets” sempre presso l’Università di Roma ”Sapienza”.

Il suo lungo curriculum riporta esperienze da Visiting Scholar alle Università di Cambridge (1980 e 1981), Harvard (1982) e Yale (1987 e 1988); professore all’Università di Parigi II – Panthéon-Assas (1990 e 2005) e alla Schoolof Law della Columbia University di New York (1995). È membro dell’Académie internationale de droit comparé (dal 1998) e del Consiglio scientifico dell’Università italo-francese (dal 2009).

D’Alberti è stato inoltre componente del Comitato scientifico dell’Area internazionale di Ricerca sulla dottrina sociale della Chiesa e ha fatto parte di numerose commissioni di studio e di consulenza presso la Presidenza del Consiglio e vari ministeri; fra le altre, la commissione per la Modernizzazione delle istituzioni (1985), e la commissione per l’Attuazione della legge sul procedimento amministrativo (1991). Ha presieduto la commissione per l’Innovazione amministrativa (1997) e la commissione per il Rilancio dei beni culturali e del turismo (2013).

Il nuovo membro della Corte Costituzionale è stato inoltre consigliere del Cnel(1995-97); membro della commissione per la Garanzia dell’informazione statistica (1993-97); componente del Comitato scientifico della Consob (1995-97). Dal 1997 al 2004 è stato componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stato il consigliere giuridico della presidenza del Consiglio di Mario Draghi e uno dei principali ideatori del decreto Semplificazioni.

Il plenum della Consulta, dopo la nomina di D’Alberti, sarà di nuovo al completo, potrà nominare il nuovo presidente. Si preannuncia una corsa a tre con Silvana Sciarra, Daria De Pretis e Nicolò Zanon. Spetterà ai giudici valutare a maggioranza a chi andrà la presidenza. Tutti e tre hanno giurato lo stesso giorno, quindi non farà la differenza il principio di anzianità.

E qui sta l’inghippo, seguite il ragionamento: il Prof. D’Alberti, come consulente della presidenza del consiglio (cioè di Mario Draghi) è stato probabilmente colui che ha scritto tutte le norme vessatorie nei confronti dei lavoratori sospesi ad esempio, in seguito alla imposizione dell’obbligo vaccinale come conditio sine qua non per potere lavorare. Adesso, in prospettiva della data del 25 novembre, quando ,a corte Costituzionale sarà chiamata a decidere della costituzionalità delle leggi sin ora applicate, chi vanno ad eleggere come Presidente? Proprio colui che ha scritto quelle leggi... e cosa pensate che accadrà? Giudicherà illegittime quelle stesse leggi che egli stesso ha predisposto? Come lo chiamate voi tutto questo, se non un GIGANTESCO CONFLITTO DI INTERESSI? COME PENSATE SIA POSSIBILE CHE PRIMA UN CONSULENTE SCRIVE DELLE LEGGI E POI NE VA A GIUDICARE LA COSTITUZIONALITÀ? PURE UN BIMBO COMPRENDE CHE SE FA UNA MARACHELLA, NON POTRÀ CERTO ESSERE LUI, SUCCESSIVAMENTE SE VADA PUNITO O MENO...

SIAMO IN ITALIA SIGNORI, DOVE TUTTO ED IL CONTRARIO DI TUTTO E POSSIBILE!!!

Come ricorderete, l’art. 4 del d.l. 1° aprile 2022 n. 44 ha introdotto, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, l’obbligo di sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da Sars Cov-2 stabilendo, nel caso di inadempimento, la sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie ed il conseguente venir meno del diritto alla retribuzione e ad ogni altro compenso o emolumento.

Il tanto auspicato intervento normativo, che, da un lato, ha consentito di mitigare (seppur in parte) il dibattito sorto attorno al tema della somministrazione del vaccino anti Covid-19 alla comunità di lavoratori, ha, dall’altro, posto il problema, tanto antico quanto attuale, del bilanciamento tra la tutela della salute del singolo, che comprende la libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti le cure sanitarie e quella, concorrente, della salute collettiva, esigenze entrambe costituzionalmente garantite.

La scelta del legislatore, come prevedibile, considerata l’importanza degli interessi coinvolti, non ha trovato consenso unanime nella giurisprudenza (si pensi a T.A.R. Lombardia, Sez. I, 14 febbraio 2022, n. 192, in D&G, 39, 2022, che ha preannunciato l’incidente di costituzionalità dell’art. 4 d.l. 44/2021; o ancora Trib. Padova, ordinanza del 7 dicembre 2021, in D&G, 40, 2022, che ha rinviato la medesima questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea), soprattutto in seguito alle ripetute modifiche apportate all’art. 4 d.l. 44/2021 (cfr. art. 1 legge di conversione 28 maggio 2021 n. 76; art. 1 comma 1 lett. b) del decreto-legge 26 novembre 2021 n. 172, convertito con modificazioni nella legge 21 gennaio 2022 n. 3; ed infine art. 8 del decreto-legge 24 marzo 2022 n. 24), che hanno, da un lato, prorogato l’obbligo di vaccinazione al 31 dicembre 2022 e dall’altro, inasprito le conseguenze sanzionatorie per l’operatore sanitario che non intenda adempiere all’imposizione vaccinale.

Orbene, è in tale contesto che si inseriscono le ordinanze in commento, accomunate dall’aver sollevato alla Consulta, seppur sotto diversi profili, la questione di legittimità costituzionale dell’obbligo di vaccinazione anti-Covid 19 del personale sanitario disposto dal d.l. n. 44/2021. Ne discende da ciò l’opportunità di un loro esame congiunto, idoneo ad offrire al lettore un quadro sistematico delle principali criticità avanzate in materia e sottoposte al vaglio della Corte costituzionale.

Caratteri e finalità del presente commento suggeriscono una trattazione per “temi” anziché per “pronunce” e di limitare l’analisi agli aspetti più rilevanti, rimandando, per il resto, alla lettura delle singole ordinanze.

In via del tutto preliminare si osserva che le questioni di legittimità costituzionale in esame sono state sviluppate dai giudici, principalmente, su due piani: quello generale, relativo alla previsione dell’obbligo vaccinale disposto dall’art. 4 d.l. 44/2021 «agli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario». ed esteso dall’art. 4-bis «a tutti i soggetti, anche esterni, che svolgono, a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie»; e quello particolare, relativo alle conseguenze della violazione dell’obbligo per i lavoratori, ai quali è precluso, ai sensi del comma 5 dell’art. 4, per il periodo di sospensione, «il diritto alla retribuzione e ad ogni altro compenso ed emolumento» nonché, ai sensi del comma 7 (come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. b), del d.l. 172/2021, convertito con modificazioni nella l. 3/2022), la possibilità di essere adibiti a mansioni anche diverse ed eventualmente inferiori, purché non implicanti rischi di diffusione del contagio, senza decurtazione della retribuzione.

Quanto al primo profilo, il Tribunale di Padova, con ordinanza del 28 aprile 2022, nell’ambito di un giudizio promosso ex art. 700 c.p.c. da un portiere centralinista di una struttura sanitaria che, in mancanza di vaccinazione anti Covid-19, era stato temporaneamente sospeso dal servizio e dalla retribuzione, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 commi primo, quarto, quinto e dell’art. 4 bis, comma primo, «nella parte in cui prevedono l’obbligo vaccinale, anziché prevedere l’obbligo del lavoratore di sottoporsi indifferentemente al test molecolare, al test antigenico da eseguire in laboratorio, oppure al test antigenico rapido di ultima generazione, per la rilevazione di SARS-COV-2, anche presso centri privati, ogni 72 ore nel primo caso ed ogni 48 nel secondo». Frattanto con separata ordinanza, a conclusione del giudizio cautelare, ha accolto il ricorso del lavoratore disponendo la sua immediata riammissione in servizio.

Il giudice padovano, premesso che il diritto alla salute del singolo, ed in particolare, alla autodeterminazione terapeutica ex art. 32 Cost. può trovare limitazione solo nei casi in cui sia necessario tutelare l’interesse della collettività, ha osservato che l’obbligo vaccinale imposto agli operatori sanitari dal d.l. 44/2021 non è idoneo a raggiungere tale scopo in quanto, come dimostrano i dati forniti dal Ministero della salute e dal Report ISS del 19 gennaio 2022, «la persona vaccinata, può comunque contrarre il virus e può quindi contagiare gli altri».

In altri termini, l’adempimento dell’obbligo di legge, non garantisce che il lavoratore non contragga il virus e che, recatosi sul luogo di lavoro, non infetti gli ospiti della struttura sanitaria con cui venga in contatto. Tale rischio sarebbe invece escluso nel caso di sottoposizione periodica al tampone (indifferentemente test molecolare o test antigenico) che garantirebbe, con ragionevole certezza, per i successivi 2-3 giorni, l’assenza di virus in capo al lavoratore.

La norma, pertanto, violerebbe l’art. 3 Cost., poiché allo scopo di evitare il contagio, invece di adottare una soluzione alternativa ed intermedia, quale la sottoposizione a tampone, avrebbe imposto al lavoratore, un obbligo inutile e gravemente pregiudizievole del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica ex art. 32 Cost., nonché al suo diritto al lavoro ex art. 4 e 35 Cost.

Anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, Sezione Giurisdizionale, con l’ordinanza del 22 marzo 2022, n. 351 ha sollevato la questione di costituzionalità relativamente all’art. 4, comma primo e secondo, nella parte in cui impone l’obbligo vaccinale per il personale sanitario e, per l’effetto dell’inadempimento, la sospensione dall’esercizio dalle professioni sanitarie.

La questione sottoposta al C.G.A. atteneva alla legittimità del provvedimento del Rettore e del Direttore Generale dell’Università degli studi di Palermo con il quale era stato impedito ad uno studente iscritto al corso di laurea in infermieristica di partecipare al tirocinio formativo all’interno delle strutture sanitarie, in quanto non vaccinato.

La decisione è giunta all’esito di una istruttoria procedimentale ampia e strutturata che il C.G.A., Sezione Giurisdizionale, con ordinanza del 17 gennaio 2022, n. 38, ha affidato ad un collegio composto dal Segretario Generale del Ministero della Salute, dal Presidente del Consiglio superiore della sanità e dal Responsabile della Direzione generale di prevenzione sanitaria, con il compito di fornire chiarimenti in merito ad una pluralità di questioni riguardanti in estrema sintesi: le modalità di valutazione di rischi e benefici operata sia sul piano generale che su quello individuale; le modalità di raccolta del consenso informato; l’articolazione della sorveglianza post-vaccinale e del sistema di monitoraggio per i possibili effetti avversi alla somministrazione del vaccino.

Il C.G.A., dopo aver ricostruito il quadro normativo e ripercorso i principali orientamenti giurisprudenziali in materia, si è soffermato, dapprima, sulla rilevanza della questione in rapporto al caso concreto, confermando l’applicabilità dell’obbligo vaccinale di cui all’art. 4 d.l. 44/2021, nella versione applicabile ratione temporis, anche agli studenti tirocinanti e, successivamente, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. A tal proposito, sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale (il richiamo è a C. cost. 22 giugno 1990 n. 307 in LPO, 1991, 665, ma soprattutto C. cost 18 gennaio 2018, n. 5 in GCost, 1, 2018, con nota di PINELLI, Gli obblighi di vaccinazione fra pretese violazioni di competenze regionali e processi di formazione dell’opinione pubblica), ha individuato tre condizioni indispensabili affinché una legge impositiva di un trattamento sanitario non contrasti con l’art. 32 Cost, ed in particolare:

1. che il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche degli altri individui;

2. che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato salvo che per quelle conseguenze che appaiono «normali e pertanto tollerabili»;

3. che, nell’ipotesi di danno ulteriore sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.

Orbene, il giudice a quo, esaminati i riscontri istruttori, ha ritenuto rispettato il primo degli indici di costituzionalità, reputando la vaccinazione anti Covid-19 idonea a tutelare lo stato di salute del singolo, impedendo lo sviluppo di patologie gravi, e della collettività, essendo uno strumento efficace per allentare la pressione sulle strutture sanitarie.

Significativi elementi di criticità sono stati, invece, individuati con riferimento al secondo profilo in ragione della «preoccupante» consistenza degli eventi avversi. Il C.G.A., prendendo espressamente le distanze dalla sentenza del Consiglio di Stato del 20 ottobre 2021, n. 7045 (si rimanda sul punto al contributo di De Matteis, Dal Tribunale di Belluno al Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045. Uno sguardo sulla giurisprudenza in tema di obbligo di vaccino, in Labor, 5 novembre 2021), ha evidenziato, da un lato, il numero, sensibilmente superiore alla media, degli eventi avversi registrati a seguito della somministrazione del vaccino anti Covid-19 e dall’altro, la scarsa efficienza del sistema di monitoraggio post-vaccinale e del modello di triage pre-vaccinale, affidato esclusivamente al personale sanitario incaricato della somministrazione del vaccino, senza alcun adeguato coinvolgimento del medico di base.

Sulla base di ciò il C.G.A. ha ritenuto che, in mancanza delle condizioni poste dalla Corte costituzionale, l’imposizione della vaccinazione anti Covid-19 si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 4, 32, 33, 34 e 97 della Costituzione, determinando una irragionevole compressione della libertà di autodeterminazione sulle scelte sanitarie del singolo, oltre che del suo diritto allo studio ed al lavoro (per un maggior approfondimento cfr. F. Gambardella, Sulla questione di legittimità costituzionale dell’obbligo di vaccinazione anti-Covid del personale sanitario. Nota a margine dell’ordinanza 22.03.2022 n. 351 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, Giustizia Insieme, 2022).

Questo rapido excursus mentre evidenzia come il Tribunale di Padova ed il Consiglio di Giustizia Amministrativa siano giunti a sospettare della legittimità costituzionale del medesimo art. 4 d.l. 44/2021 seguendo percorsi argomentativi profondamente diversi, consente di svolgere alcuni confronti e commenti.

Innanzi tutto, proprio l’esame congiunto delle due ordinanze solleva alcuni dubbi in merito alla tesi sostenuta dal Tribunale di Padova circa l’assoluta inidoneità del vaccino Anti-Covid 19 a prevenire il contagio ed a preservare la salute del singolo e della collettività. Tale teoria, infatti, sembra essere smentita dal dettagliato riscontro istruttorio fornito dall’Organo Collegiale nominato dal C.G.A. che ha portato quest’ultimo a ritenere senz’altro soddisfatto il primo dei tre indici di costituzionalità degli obblighi vaccinali (quello, per l’appunto, relativo alla tutela dello stato di salute del soggetto sottoposto a vaccinazione e della collettività).

Viceversa, la pronuncia del giudice amministrativo meriterebbe di essere approfondita sotto il profilo della opportunità di applicare sic et simpliciter quei parametri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in riferimento ad un contesto profondamente diverso da quello in esame, non già di contrasto pandemico, ma di mero contenimento epidemico, oltre che della loro valutazione “a compartimenti stagni” piuttosto che sistematica.

Il Tribunale di Padova, poi, circa le conseguenze della violazione dell’obbligo di imposizione vaccinale per il lavoratore, ha sollevato, con la predetta ordinanza del 28 aprile 2022, una seconda questione di legittimità costituzionale in relazione al settimo comma dell’art. 4 d.l. 44/2021 nella parte in cui non prevede che, anche per i lavoratori che decidono di non vaccinarsi, vi sia l’obbligo del datore di lavoro di adibirli a mansioni diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Secondo il Tribunale, il pericolo di diffusione del virus, che la normativa in materia di obbligo vaccinale mira a contenere, sussisterebbe indifferentemente in capo al lavoratore che non voglia o non possa vaccinarsi: di conseguenza, a parità di condizioni, riservare solamente al primo e non anche al secondo la possibilità di essere adibito ad altre mansioni, conservando il relativo trattamento economico, violerebbe il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.

Strettamente connessa a quest’ultima è, infine, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal T.A.R. Lombardia, Sez. I, con la recentissima ordinanza del 16 giugno 2022 n. 1397, in relazione al comma 5, del d.l. n. 44/2021, per come modificato dall’art.1, comma 1, lett. b), del d.l. n. 172/2021, convertito nella l. n. 3/2022, e successive modificazioni, nella parte in cui dispone che “per il periodo di sospensione dall’esercizio della professione sanitaria non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato”, per contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità di cui gli artt. 2 e 3 Cost.

Il giudice si sofferma sulla portata e le conseguenze delle modifiche apportate dal legislatore all’art. 4 d.l. n. 44/2021 con le quali è stata disposta la proroga dell’obbligo di vaccinazione ed eliminato il sistema di gradualità temperata che consentiva al datore di lavoro di ricollocare il dipendente inadempiente all’obbligo vaccinale, nei limiti dell’organizzazione del servizio, a mansioni diverse anche inferiori, mantenendo la retribuzione.

Osserva, dunque, che l’attuale disciplina normativa, ponendo il dipendente dinanzi ad una scelta obbligata tra l’adempimento dell’obbligo e la sospensione dal servizio senza attribuzione di alcun trattamento economico, si rivelerebbe senz’altro sproporzionata determinando un ingiustificato peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti.

Il quadro sin qui tratteggiato evidenzia la “gradualità” delle questioni che la Corte costituzionale sarà chiamata ad affrontare, da quella, necessariamente preliminare, relativa alla imposizione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario, a quelle, relative alla possibilità di ricollocare il lavoratore non vaccinato ad altre mansioni o comunque garantire allo stesso adeguate forme di sostentamento.

La parola, adesso, alla Corte costituzionale. È stata fissata infatti per il 29 novembre prossimo la seduta per l’esame circa la legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. Gli ermellini della Corte dovranno stabilire se imporre la vaccinazione viola i diritti fondamentali sanciti dalla Carta.

 
 
 

Se non canti bella ciao... se un fascista!

Post n°1334 pubblicato il 16 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Non si placano le polemiche (esagerate più che mai) su Laura Pausini e sulla sua scelta di non cantare Bella Ciao. La cantante, ospite di un programma spagnolo, quando i suoi colleghi hanno iniziato ad intonare il canto partigiano, simbolo della Resistenza partigiana, li ha fermati spiegando pacatamente di non voler cantare canzoni politiche. Travolta dai commenti sui social, la star della musica italiana è tornata su Twitter spiegando le sue motivazioni.

Laura Pausini: «Aborro il fascismo»

«In una situazione televisiva estemporanea, leggera e di puro intrattenimento, ho scelto di non cantare un brano inno di libertà ma più volte strumentalizzato nel corso degli anni in contesti politici diversi tra loro». Ecco la versione della cantante. Che ha voluto esprimere il suo legittimo, sacrosanto e rispettabile punto di vista, dopo le tante polemiche montate ad arte di questi giorni. La Pausini, poi, ribadisce i valori in cui ha sempre creduto. «Come donna, prima che come artista, sono sempre stata per la libertà e i valori ad essa legati» ha aggiunto in una nota condivisa su Twitter. E puntualizza: «Aborro il fascismo e ogni forma di dittatura. La mia musica e la mia carriera hanno dimostrato i valori in cui credo da sempre».

 

 

Volevo evitare di essere strumentalizzata

A influire sulla decisione di non cantare Bella ciao è stato anche il particolare momento che stiamo vivendo, cioè la campagna elettorale per le elezioni politiche del 25 settembre. Laura Pausini non lo nasconde: «Volevo evitare di essere trascinata e strumentalizzata in un momento di campagna elettorale così acceso e sgradevole, purtroppo non è stato così» ha scritto la cantante. In Rete, infatti, in molti hanno sottolineato che la scelta stessa di non cantare Bella Ciao è un presa di posizione ben precisa. «Decidendo di non cantarla hai preso una posizione politica» scrivono in tanti». «Rispetto il mio pubblico e continuerò a farlo, con la libertà di scegliere come esprimermi» la risposta della star.

La cantante travolta dalle critiche

«Questa è una canzone molto politica» ha detto la cantante mentre stava partecipando a El Hormiguero, popolare quiz della tv spagnola. Bella Ciao è diventata famosissima in Spagna anche grazie alla serie La casa di carta: non c’è spagnolo che oggi non conosca le note più famose quando si parla di libertà e liberazione. Ma quel no di Laura Pausini a tanti non è piaciuto. «Non è un canto politico, è un canto di libertà» sottolineano sui social. «Un inno contro le tirannie, quale politica» aggiungono. E non mancano i paragoni con la cantante Elisa che, in un video ormai diventato virale, canta proprio la famosa ballata. C’è però chi difende quel no della cantante che con quel rifiuto «ha scelto di essere libera di scegliere». L’hanno difesa, tra i tanti Eros Ramazzotti, Iva Zanicchi. Mentre Pif, scherzato con il PD da sempre, e Gian Giacomo Feltrinelli, casa editrice da sempre schieratissima a sinistra, l’hanno criticata.

il mondo è bello, perché è vario! 

 
 
 

NUOVO STUDIO ISRAELIANO SULL’ORIGINE DEL COVID.

Post n°1333 pubblicato il 10 Settembre 2022 da scricciolo68lbr

Sabato, 10 settembre 2022

da Affari Italiani:

https://www.affaritaliani.it/coronavirus/studio-israeliano-no-c-e-prova-che-il-covid-sia-arrivato-dai-pipistrelli-814967.html

Studio israeliano: non c’è prova che il Covid sia arrivato dai pipistrelli

Colpo di scena: non c’è prova di trasmissione dal pipistrello; dopo 2 anni di esperti che dicevano il contrario. Nel mammifero il virus non è stato isolato

di Antonio Amorosi

Incolpare i pipistrelli della pandemia è errato scientificamente: hanno solo un sistema immunitario capace di vincere i virus.

La correlazione tra l'epidemia di COVID-19 e i pipistrelli non esiste, non è basata su prove scientifiche sufficienti e convincenti, e fa parte dei luoghi comuni associati a quei mammiferi.

Questa è la rivelazione apparsa in un mega studio dell'Università di Tel Aviv e pubblicata sull’autorevole rivista IScience Journal pochi giorni fa. Non c’è alcuna prova che l'origine dell'epidemia di COVID-19 sia arrivata dai pipistrelli. E neanche ripeterlo un miliardo di volte in tv, aggiungiamo noi, lo è.

Lo studio, condotto dalla dottoressa Maya Weinberg del laboratorio del professor Yossi Yovel, capo della Sagol School of Neuroscience e membro della facoltà della School of Zoology & Steinhardt Museum of Natural History dell'Università di Tel Aviv dimostra perfettamente il contrario: che i pipistrelli sono mammiferi con un sistema immunitario altamente efficace in grado di affrontare in modo relativamente facile anche virus letali.

La semplice individuazione di un virus nei pipistrelli non implica la trasmissione. Nel caso del Covid non c’è prova di questa decantata trasmissione all’uomo. Il Covid non è stato neanche isolato nel pipistrello. Molti virus trasportati dai pipistrelli non possono infettare l'uomo senza prima aver subito un processo naturale di evoluzione, quindi i pipistrelli portano i virus ancestrali e non quelli patogeni per gli umani.

Eppure la reputazione dei pipistrelli, nella comunità scientifica e nel pubblico in generale, come serbatoi di virus tra cui il Covid-19 e minaccia per la salute pubblica, è diffusa. Ma nasce da un approccio altamente erroneo. Vengono considerati serbatoi di molte malattie contagiose, solo perché sono sierologicamente positivi. In altre parole sono in possesso di anticorpi potenti che permettono loro di vincere i virus e sviluppare una risposta immunitaria. Ma questo non prova una trasmissione. A dimostrazione i ricercatori israeliani hanno sottoposto a verifica le ricerche e la letteratura scientifica relativa a oltre 100 virus per i quali i pipistrelli sono considerati potenziali serbatoi; come i virus Ebola, Sars e Covid. Nella metà dei casi si è dimostrato che l’associazione è nata poiché i pipistrelli avevano gli anticorpi e non per l’effettivo isolamento dei virus in oggetto. Fatto che di per sé dimostrerebbe una trasmissione.

In più il pipistrello dopo aver sconfitto il virus non è più vettore di alcunché. In molti casi, è possibile che nei pipistrelli si trovi un virus simile a un patogeno umano tuttavia non risulta patogeno per l'uomo e non è sufficiente per considerare i pipistrelli come serbatoio.

Il virus Covid non è neanche mai stato isolato nel pipistrello. L’isolamento non dimostrerebbe una trasmissione all’uomo perché bisognerebbe trovare un numero di casi che invece non sono mai stati individuati.

Il fatto che il pipistrello vinca i virus dovrebbe essere obiettivo di studio per migliorare le nostre modalità di resistenza, non per stigmatizzazione il mammifero in una caccia alle streghe che ha ben poco di scientifico.

In 100 anni di studio i pipistrelli hanno sviluppato un’eccellente equilibrio tra resistenza e tolleranza: una maggiore risposta di difesa dell'ospite e tolleranza immunitaria attraverso una serie di meccanismi diversi. Percorsi infiammatori moderati contribuiscono alla tolleranza immunitaria con i pipistrelli e a una risposta ben bilanciata che impedisce lo sviluppo del virus.

La dottoressa Weinberg ha spiegato così la sua ricerca alle riviste specializzate: “I risultati danno vita alla prospettiva opposta, secondo la quale dobbiamo studiare in modo approfondito le capacità immunologiche antivirali dei pipistrelli e ottenere così nuovi ed efficaci mezzi per far fronte alla lotta dell'umanità contro le malattie contagiose, l'invecchiamento e il cancro”.

“Alla luce dei complessi fenomeni immunologici ed ecologici che abbiamo evidenziato in questa rassegna”, scrive lo studio israeliano, “gli scienziati dovrebbero astenersi dall'usare generalizzazioni come: ‘… molte di queste terribili malattie sono causate da virus originati dai pipistrelli’; o titoli come ‘Pipistrelli come serbatoi di gravi malattie infettive emergenti’ o ‘Pipistrelli come vettori di malattie e parassiti’. Come tutti gli animali, i pipistrelli meritano un approccio più accurato e scientifico alla terminologia ad essi applicata”.

 

 
 
 

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