Creato da scricciolo68lbr il 17/02/2007

Pensieri e parole...

Riflessioni, emozioni, musica, idee e sogni di un internauta alle prese con la vita... Porto con me sempre il mio quaderno degli appunti, mi fermo, scrivo, riprendo il cammino... verso la Luce

 

Messaggi di Febbraio 2023

VERSO UNA CINESIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ EUROPEA?

Post n°1477 pubblicato il 11 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr
 

Identità Digitale Europea, il progetto UE per farci schiavi come i cinesiIdentità Digitale Europea, parte la sperimentazione. In vigore nel 2024. E’ la versione UE del credito sociale cinese. Scopri di più, come lo stanno attuando

La cinesizzazione delle nostre vite ha fatto un altro importante passo avanti, grazie all’Unione Europea. A marzo parte la sperimentazione del nuovo sistema di identità digitale dell'UE, la cosiddetta European Digital Identity Wallet, la versione Europea del “credito sociale” cinese.

In questi giorni la Commissione Europa ha reso pubblica la prima versione dell’architettura e delle norme che saranno attuate.

Nel rapporto del 2018 del World Economic Forum dal titolo “Identity in a Digital World. A new chapter in the social contract” si spiega bene di cosa si tratta: “l’identità digitale determina a quali prodotti, servizi e informazioni possiamo accedere o, al contrario, a ciò che è precluso a noi”. La UE ne applicherà i principi

Cosa comporta? E’ presto detto. Se non avrai un’identità digitale non potrai accedere ai servizi pubblici, avere i certificati medici, aprire un conto in banca, presentare la dichiarazione dei redditi, fare domanda per un'università, affittare una casa, noleggiare un auto, chiedere un prestito e tante altre cose. Lo Stato vuole controllare tutto di te, fino al battito delle ciglia. La rete internet e le nuove tecnologie sono diventate un meccanismo implacabile.

Gradualmente si applicherà ai consumi delle persone per comprendere se vivendo immettono troppo carbonio nell'atmosfera o se producono troppa spazzatura o fanno qualcosa che non va al governo. Se ad esempio il governo riterrà inderogabile, per il bene della salute pubblica, fare iniettare un farmaco il soggetto dovrà farlo, pena l’esclusione dalla vita sociale e la fine economica della propria vita o di quella della propria famiglia. E’ un descrizione esagerata? Sembra un film distopico? Non vi ricorda qualcosa? E’ stata già rimossa l’epoca del Green Pass obbligatorio e la condizione di alcune categorie che senza il possesso non potevano lavorare o la multa mandata a chi non era vaccinato?

All’inizio il sistema verrà venduto come un più facile accesso ai servizi. Sulla carta l’obiettivo del progetto Ue infatti è permettere ai cittadini europei e alle imprese del territorio comunitario di accedere a un sistema di riconoscimento pienamente interoperabile, in modo da accedere a tutti i servizi. Con l’accoglienza di massa della European Digital Identity Wallet o l’obbligo è inevitabile una distinzione e separazione tra parti della popolazione, che verrà messa l’una contro l’altra, e l’applicazione del modello di “credito sociale” cinese ai Paesi europei. Viola i diritti umani? Che importa.

Nel modello cinese ad ogni cittadino vengono assegnati dei punti. Ne viene poi monitorato e valutato digitalmente il comportamento. I cittadini, anche se il termine appare oramai pleonastico, aumentano i propri punti donando sangue, denaro, lodando il governo o compiendo le azioni che il governo richiede. In questo modo si potranno pagare meno tasse, portare i bambini a scuola o avere un lavoro, altrimenti si resterà ai margini. Le punizioni includono la pubblica vergogna con il proprio nome “affisso” in piazza su grandi video wall, vista la funzione della reputazione nelle nostre società (sarebbe la versione moderna della tortura medioevale dei reprobi), il non accesso ai mezzi di trasporto pubblici e privati, dove cioè bisogna per forza di cose dare la propria identità e ad altri servizi.

Il progetto pilota che farà da apripista alla European Digital Identity Wallet sarà guidato dal consorzio Nobid. Il piano dovrebbero iniziare nella prima metà del 2023 e l’Italia è tra i Paesi pilotaIl sistema entrerà in vigore a fine settembre 2024. Coinvolti con l’Italia nella prima fase anche Danimarca, Germania, Islanda, Lettonia, Norvegia. Il consorzio riceverà finanziamenti dal programma Digital Europa della Commissione Europa. Dopo l’implementazione il sistema verrà gestito dall'Intelligenza artificiale. Quindi se ci sarà un problema o un mal funzionamento non si presenteranno le proprie rimostranze a un ufficio, che non esiste, e non si avrà un essere umano col quale interagire, ma le macchine, l'Intelligenza artificiale. Per le macchine “no”, vuol dire “no”, anche se la pillola potrà essere indorata con tante belle argomentazioni dialettiche e citazioni colte. Vedremo i tempi di attuazione reali e i problemi che si creeranno in corso d'opera, le opposizioni che prenderanno forma in Europa e come le masse acceterrano o meno i deliri dei propri gruppi dirigenti,  nulla è scontato.

La European Digital Identity Wallet è un'iniziativa paneuropea: ne faranno parte oltre i Paesi della UE anche Norvegia, Regno Unito e Ucraina.

 

FONTE: https://www.affaritaliani.it/politica/identita-digitale-europea-il-progetto-ue-per-farci-schiavi-come-i-cinesi-839397.html

 

 
 
 

LA METAMORFOSI DEL PD, DAL DIFENDERE I LAVORATORI AL DIVENIRE IL BRACCIO ARMATO DELLE ÉLITE!

Post n°1476 pubblicato il 11 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr
 

Quale incredibile metamorfosi quella del Pd, passare da difensore dei lavoratori, prima ancora, ai tempi del PCI, della classe operaia, all'essere parte integrante e mi spingo oltre, il braccio armato delle élite globalista finanziarie del pianeta. Son convinto che Berlinguer troppe volte si stia rivoltando dentro la tomba dalla rabbia per quello che sta accadendo (ed è accaduto). Il caos generato dallo scandalo Qatargate è la punta del live era della corruzione che attraversa la sinistra italiana, in Italia, e in Europa, assieme alla corrotta classe dirigente sinistroide europea.

Il provvedimento, emesso dalla magistratura belga ed eseguito dalle fiamme gialle,  è scattato nell’ambito del Qatargate, lo scandalo su presunte mazzette che ha coinvolto diversi funzionari e politici a Bruxelles.

Nel Mandato d’arresto europeo notificato questa sera dal Gico della Guardia di Finanza di Napoli  -  firmato dal giudice belga Michel Claise  - a Cozzolino vengono contestati profili penali che riguardano reati di organizzazione criminale, corruzione e riciclaggio.          
A tirarlo in ballo, come viene ricostruito nelle 23 pagine del mandato che l'AGI ha visionato, nell'indagine che è partita da Pierantonio Panzeri e i suoi rapporti con componenti del Parlamento europeo con pressioni per decisioni a favore del Qatar e del Marocco, è un interrogatorio del suo ex assistente Francesco Giorgi ("Cozzolino è implicato per il Marocco", dice testualmente al magistrato).

Cozzolino dal 2019 è presidente della delegazione per le relazioni con i paesi del Magreb e l'unione del Maghreb arabo, co-presidente della commissione parlamentare mista Marocco-Ue, e dal 2022 membro della commissione d'inchiesta del Parlamento europeo Pegasus.     Panzeri e Giorgi, si legge ancora nel mandato, hanno fatto pressioni in cambio di denaro per avere decisioni o dichiarazioni a favore del Marocco in seno al Parlamento europeo in particolare attraverso Eva Kaili, Marc Tarabella, Andrea Cozzolino e Maria Arena, nella tesi degli inquirenti.

Cozzolino per l'inquirente belga a contatti diretti con Abderrahim Atmoun, uomo "con un ruolo chiave in un caso di corruzione", si legge nel documento, si incontra con lui a Bruxelles giugno del 2021, e ricevi da lui così come Giorgi denaro; l'incontro sarebbe avvenuto in Polonia, dove Cozzolino non avrebbe ricevuto solamente una onorificenza. Altro incontro a Bruxelles nel suo appartamento.

C'è poi una conversazione intercettata tra Panzeri e Giorgi in cui i due si dicono che stanno facendo in modo che Cozzolino entri nella commissione speciale del Parlamento europeo Pegasus. A marzo 2022 inoltre  Giorgi contatta Panzeri perché Cozzolino faccia una dichiarazione per il Marocco.
 
Cozzolino aveva già esposto la sua versione dei fatti al Parlamento europeo, dopo aver chiesto ai giudice inquirente di essere sentito sui fatti, sottolineando che non aveva mai presentato alcuna risoluzione urgente in favore del Marocco, e ne aveva sostenuta una soltanto a giugno 2021 ma in una data diversa da quella indicata dalle carte dell'inchiesta.

Aveva inoltre ricordato che Atmoun era stato presidente della commissione parlamentare mista Marocco-Ue per quasi 10 anni fino a prima che lui fosse designato, e ha avuto con lui rapporti di frequentazione come tanti altri europarlamentari italiani perché Atmoun è sposato a una italiana, rapporti sporadici. "Il sospetto nei miei confronti è basato sul fatto che Giorgi lavorasse alle mie dipendenze essendo stato in precedente assistente di Panzeri- aveva detto - ma quando ho assunto Giorgi era tra i più brillanti giovani funzionari di Bruxelles e poteva vantare anche un'importante rete di relazioni istituzionali e Panzeri dal cui ufficio proveniva era tra i più stimati i parlamentari italiani uscenti".

La misura restrittiva viene chiesta dal giudice belga per "gravi indizi di colpevolezza" e per "il timore che l'indagato possa commettere nuovi reati o delitti analoghi o più gravi" o che "ostacoli il regolare svolgimento delle indagini o si sottragga all'azione della giustizia tentando di occultare prove, o di entrare in collisione con terzi al fine di impedirle o per indurre false testimonianze".

 
 
 

L’EUROPA PRESTO NON ESISTERÀ PIÙ!

Post n°1475 pubblicato il 11 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr

Non passa giorno che non legga sondaggi sullo stato dei livelli di gradimento dell'UE tra gli italiani. Ormai la percentuale è nettamente stabilizzata tra il 55 e il 60 per cento di italiani che non vedono più nessuna ragione per continuare a fare parte di questa Unione Europea, che in realtà non è un'Unione, né lo è mai stata. I più vedono l'Ue come un cappio al collo, come un'entità lontana dai cittadini e dai loro interessi, inutile, costosa, corrotta e arrogante nelle sue decisioni scellerate e senza senso.

L'Unione Europea, se vuole sopravvivere, deve inevitabilmente ripartire con nuove politiche, nuove scelte e nuove strategie. E non può più dare la priorità ai desideri, alle volontà e alle speranze di allargarsi ulteriormente. l'Unione Europea (che è gia costituita da 27 Paesi - Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria), così com'è oggi, non è di certo pronta ad ampliarsi. E la ragione è semplice: perché la Ue è ancora troppo fragile. Anzi, dopo aver perso un tassello fondamentale come il Regno Unito, nel prossimo futuro lo sarà sempre di più. Non è una questione di egoismo o di spirito settario. E neppure di protezionismo. Tantomeno di razzismo o antipatia. Ma è la necessità di sopravvivenza di un progetto comunitario che non è più valido, non è ancora maturo, anche se è passato più di mezzo secolo da quando ha mosso i suoi primi passi. Altrimenti, l'alternativa a questa politica vuota, nazista, sciocca e senza futuro dei vertici europei, è che si inneschi davvero, rapidamente, e in molti lo auspicano, una reazione a catena della quale l'uscita della Gran Bretagna potrebbe costituire solo il punto di inizio. Reazione che potrebbe portare al dissolvimento dell'intera Unione Europea nel giro di pochi anni. E forse sarebbe la cosa migliore per tutti!
 
 
 

GLI USA DIETRO L’ESPLOSIONE DEL NORD STREAM? MOLTO PIÙ CHE UN’IPOTESI!

Post n°1474 pubblicato il 10 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr
 

Il premio Pulitzer Seymour Hersh apertamente accusa: "Così gli USA hanno fatto saltare il Nord Stream”.

L’esplosione dei gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico sarebbe stata un’operazione segreta ordinata dalla Casa Bianca e portata avanti dalla CIA. Questa la rivelazione di uno dei più noti giornalisti investigativi statunitensi, Seymour Hersh. Secondo l’inchiesta curata dal più volte Premio Pulitzer, pubblicata sul suo blog, ripresa anche dal Times, lo scorso giugno sommozzatori della Marina USA, utilizzando un’esercitazione militare della NATO come copertura, nota come Baltops 22, avrebbero piazzato degli ordigni esplosivi lungo gli oleodotti che sono stati fatti detonare tre mesi dopo. La rivelazione, d’altra parte, segue un articolo pubblicato dal Washington Post a dicembre 2022, nel quale la testata americana aveva spiegato che non c’erano prove a suffragio della tesi che Russia fosse in qualche modo coinvolta nelle esplosioni ai gasdotti Nord Stream1 e 2. 

La stampa internazionale aveva da subito insinuato che la responsabilità delle perdite dai due gasdotti Nord Stream fosse russa, seppure fin dall’inizio molteplici indizi facessero quantomeno traballare l’interpretazione e portassero piuttosto dritti al coinvolgimento di Washington, come su L’Indipendenteavevamo argomentato in un lungo articolo intitolato “Chi ha sabotato il Nord Stream? Se troppi indizi fanno una prova…” pubblicato lo scorso 4 ottobre 2022, ad appena una settimana di distanza dai fatti. 

Se in precedenza Mosca aveva puntato il dito contro la marina britannica, la scorsa settimana, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, aveva accusato Washington di essere responsabile dell’attacco.

Ora, dai dubbi sulla Russia e dai rimpalli di responsabilità tra Mosca e Kiev, si passa, con Hersh, alle accuse circostanziate sugli USA: «Chi ha fatto saltare il gasdotto Nord Stream? Incredibilmente, stampa e politici europei sembrano non interessati a conoscere la verità su questo grave attentato, che ha fatto saltare in aria un’infrastruttura energetica di livello strategico per la Germania in primis, ma anche per l’intera Europea. In realtà ormai è ben chiaro chi ci sia dietro l’attacco e chi aveva l’interesse nel far saltare i gasdotti. I governanti europei preferiscono glissare sulla questione perché non hanno alcuna possibilità di protestare o di giustificarsi davanti ai propri popoli. L’Europa è ormai ridotta a un protettorato di Washington». 

Secondo il giornalista, il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, avrebbe deciso di realizzare questo atto di sabotaggio dopo nove mesi di operazioni top secretcon la sua squadra di sicurezza nazionale. Il problema principale «non era se portare a termine la missione», ma come sbarazzarsi delle prove, scrive Hersh, in modo che non si individuasse il colpevole. La segretezza era essenziale per Washington, per evitare l’ira del Cremlino e rischiare di peggiorare i già delicati rapporti, deterioratisi dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.

Con l’acuirsi delle tensioni tra Kiev e Mosca, l’amministrazione Biden si è concentrata anche su Nord Stream. Il motivo? «Finché l’Europa continuerà a dipendere dai gasdotti per l’approvvigionamento di gas naturale a basso costo, Washington temeva che Paesi come la Germania sarebbero stati riluttanti a fornire all’Ucraina il denaro e le armi necessarie per sconfiggere la Russia», spiega Hersh, sottolineando che è stato in quel momento di incertezza che Biden avrebbe autorizzato Jake Sullivan a elaborare il piano. Hersh sostiene, infatti, che Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, fosse coinvolto nella preparazione del piano di sabotaggio, in modo da assecondare «i desideri del presidente». 

Hersh cita una fonte anonima «con conoscenza diretta della pianificazione»e racconta che i sommozzatori del Diving and Salvage Center della Marina degli Stati Uniti a Panama City, in Florida, avrebbero piazzato esplosivi C4 lungo l’oleodotto, poi attivati ​​da una boa sonar lanciata da un aereo.

Le rivelazioni rilanciate da numerosi media internazionali, sono state smentite dalla Casa Bianca e dalla CIA che hanno definito le notizie sul coinvolgimento di Washington nel sabotaggio del gasdotto una menzogna e una montaturaAdrienne Watson, portavoce della Casa Bianca, ha liquidato la ricostruzione di Hersh come «una finzione completamente falsa». Similmente, Tammy Thorp, portavoce della CIA, ha commentato i fatti in modo analogo, affermando che «questa affermazione è completamente e totalmente falsa».

[di Enrica Perucchietti]

 
 
 

MICHAEL JACKSON & EDDIE VAN HALEN UGUALE BEAT IT!

Post n°1473 pubblicato il 10 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr
 

BEAT IT, L'INASPETTATA COLLABORAZIONE TRA EDDIE VAN HALEN E MICHAEL JACKSONIl 14 febbraio 1983 Michael Jackson pubblicava Beat It, singolo dal best steller "Thriller" nato dall'inaspettata collaborazione con Eddie Van Halen

 

Il 14 febbraio 1983 il Re del Pop Michael Jackson pubblicò uno dei suoi singoli di maggiori successo, Beat It. Una delle tracce cardine dell'album capolavoro "Thriller" uscito l'anno prima, 'Beat It' conteneva al suo interno anche una bella dose di rock offerta da uno dei più grandi chitarristi in circolazione: Eddie Van Halen.

Questa la storia di come il guitar hero olandese accettò di prendere parte al progetto e di come ridisegnò completamente la demo originale del brano.

 

Un chitarrista diffidente 

L'assolo di chitarra di Beat It è sicuramente uno dei più famosi nella storia del pop, un manifesto di come uno degli artisti più popolare del pianeta, uno che le classifiche le aveva vissute sin dalla tenera età, potesse entrare proficuamente in rotta di collisione con il sound più spigoloso dell'hard rock.

A propiziare l'incontro tra Michael Jackson ed Eddie Van Halen fu, abbastanza prevedibilmente, Quincy Jones. Il leggendario produttore e braccio destro di Jacko, pensò che su un album come "Thriller" sarebbe stato opportuno avere qualcosa dal sound tagliente, un riff di chitarra distorto che fosse veloce ma allo stesso tempo appetibile per tutti.

I Van Halen erano reduci dal non esaltante "Fair Warning" e stavano lavorando a "Diver Down", che avrebbe vissuto sorte ben diversa dal suo predecessore. Nonostante la band non fosse molto aperta a collaborazioni esterne, era certo che Eddie Van Halen fosse uno dei più grandi guitar hero in circolazione e il primo nome da coinvolgere per completare 'Beat It' e dare quel tocco in più al singolo e all'album di Michael Jackson. 

Quincy Jones decise allora di mettersi in contatto con Eddie Van Halen, cosa che risultò più difficile del previsto, non per presunzione del chitarrista quanto per una diffidenza difficile da scalfire. 

Quando il produttore chiamò Van Halen per illustrargli il progetto, il virtuoso olandese pensò che doveva per forza trattarsi di uno scherzo, e attaccò. 

La scena andò avanti una, due, tre volte ma Quincy non riusciva mai a completare la frase prima di venire rimbalzato in malo modo. Eddie non conosceva nessuno di nome Quincy. 

Dopo l'ennesimo tentativo, nella mente di Van Halen si aprì uno spiraglio: e se questo che continua a chiamare fosse davvero Quincy Jones? 

'Ciao, sono Quincy Jones': quella volta Eddie decise di restare in linea e scoprire che quello era davvero Quincy Jones che voleva i suoi servigi per l'ultimo album di Michael Jackson.

 

Il contributo di Eddie Van Halen a Beat It 

L'idea era anche divertente ma la cosa avrebbe creato problemi con la band. I Van Halen erano poco propensi ad aperture verso l'esterno e sapere che il loro guitar hero voleva collaborare con qualche altro artista avrebbe creato solo grattacapi. Di sicuro se avesse detto a David Lee Roth e gli altri della sua idea di suonare per Michael Jackson non avrebbero capito, la regola era che i Van Halen suonavano solo con i Van Halen

Certo, anche lui non è che fosse proprio convinto. Che contribuito avrebbe mai potuto dare il suo stile velocissimo e granitico al ragazzino che cantava 'ABC, 123' ? Forse non avrebbe mai funzionato ma valeva la pena provare a capirne di più e, senza dire niente agli altri Van Halen, Eddie si diede appuntamento con Quincy in studio di registrazione. 

Gli sarebbe piaciuto lavorare con Quincy Jones e del resto chi si sarebbe mai accorto di un suo assolo sull'album di un ragazzino che faceva cose dal sound r'n'b e funky? Si sarebbe trattato di una cosa fatta per gioco, di nascosto, pagata con una cassa di birra e la promessa che MJ gli avrebbe insegnato qualche passo di danza. 

Una volta arrivato in studio, il chitarrista venne accolto da Michael Jackson, che si allontanò presto per andare in un'altra sala, dai tecnici e da Quincy. Ma cosa avrebbe dovuto fare, allora? Quincy si fidava ciecamente delle doti di EVH e lo invitò a prendere Beat It e farci quello che voleva.

 

Eddie lo prese in parola e chiese ai tecnici se poteva cambiare alcune parti della canzone e così fece. Per poter suonare davvero come pensava andasse fatto l'assolo, Van Halen prese le registrazioni fatte da Quincy e Michael Jackson, tagliò parti, spostò sezioni e cambiò arrangiamento. 

Su quella nuova versione di Beat It, il chitarrista cominciò a suonare gli assoli proprio mentre Michael Jackson faceva il suo rientro. 

MJ non era proprio un tipo semplice ed equilibrato, specialmente quando si trattava delle sue canzoni. Che reazione avrebbe avuto un maniaco perfezionista come lui una volta scoperto che Eddie Van Halen si era permesso di stravolgere la sua canzone? 

La reazione di Michael Jackson stupì non solo il chitarrista ma tutti i presenti:"Wow, grazie per essere non solo venuto a fare un assolo fantastico", disse, "Ma anche per aver avuto una passione tale da preoccuparti davvero di tutta la canzone e migliorarla". 

Una passione tale che, narra la leggenda, l'assolo registrato da Van Halen fu talmente potente da far esplodere l'amplificatore dello studio. 

Contrariamente alle previsioni di Eddie, però, il suo lavoro sul disco non risultò proprio 'nascosto' e la cosa fu bene evidente quando Michael Jackson pubblicò "Thriller" nel novembre del 1982. 

Il sesto album del Re del Pop andrò dritto al primo posto in classifica, dove restò per quasi un anno. Tutti i singoli pubblicati dal disco, ben sette, entrarono nella Top 10 USA e Beat It fu pubblicato quando il singolo precedente Billy Jean era ancora tra i primi dieci singoli più venduti. 

Con il tempo "Thriller" diventò il disco più venduto nella storia con circa 50 milioni di copie vendute e uno dei primi, grandi esempi di crossover tra generi, portando il rock ad una platea mai vista prima.

 

 
 
 

CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA.

Post n°1472 pubblicato il 07 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr

Lo scrisse sul Times di Londra William Howard Russell nel 1854, conflitto di Crimea, primo reporter vero su un fronte di guerra dopo tanti generali più abili con la penna che con la spada, che la guerra la facevano e poi ce la raccontavano. A modo loro.
Noi oggi la stiamo raccontando nel modo giusto?
Alcuni spunti di riflessione.

 

Il nuovo anatema: ‘putiniano’

La narrativa tiene sotto costante minaccia chi tenta di proporre analisi un po’ più vaste sulle ragioni della tragedia Ucraina, riguardo ad esempio, le cause lontane di una crisi che via, via scopri essere stata coltivata a lungo, a tavolino, quindi il rischio di ricevere accuse di essere ‘putiniano’. «Amico di Putin», l’anatema dell’infamia attuale, anche se ti limiti a ricordare qualche piccola ragione geostrategica che ha comunque la Russia.
Un po’ come essere accusati di antisemitismo quando ci si trova a criticare qualche violenza di troppo da parte di Israele. E il tuo antifascismo offeso si ribella, ma alla fine qualcosa nascostamente cede e concede.

Alberto Negri e le critiche ‘anti-Nato’.

Sulla sua pagina fecebook, Alberto, severamente critico sulla politica di espansione Nato ad est su spinta americana: «Bucha, un massacro e il simbolo di una sconfitta.
I carri armati russi a Bucha bruciati, sventrati, volati via come fossero di cartone, con i soldati inceneriti dentro, sono il simbolo della sconfitta russa a Kiev e della resistenza ucraina con le molotov, i droni e la cyberwar, già nei primi giorni di guerra. Centinaia di civili massacrati qui sono diventati il bersaglio della frustrazione dei russi. Verità evidenti, altre negate e offuscate: quando cala la polvere della battaglia emerge l’orrore
».

Sospetti di montatura?

Sì, certo, come sempre in guerra, ma restano quei morti veri e quelle distruzioni attorno che non sono lo scenario di un film. La storia insegna che in tutte le guerre o quasi, si possono riscontrare situazioni di guerra artatamente “trasformate”, per aumentarne l’impatto sull’opinione pubblica. Alberto Negri racconta come allora fosse testimone diretto e potesse anche smentire certe versioni ‘forzate’ denunciando le eventuali contraddizioni del racconto ufficiale dell’orrore comunque avvenuto. Lo fece per la strage di Racak in Kosovo, ma oggi su Bucha tace. Mentre, come tutti, inorridisce ed assieme attende maggiori certezze di verità. E torna a risentire puzza di guerra che, anche da lontano, è sempre di «sangue, sudore e merda». Senza nessun reducismo, sia chiaro.

Ugo Tramballi sul fronte opposto?

Un ottimo collega in guerre lontane che ha scritto per primo sul Sole 24 ore e per l’Ispi, la fulminante definizione di William Howard Russell della guerra. Ma Ugo aggiunge molte altre considerazioni su cui riflettere, anche se non si fosse d’accordo.
«Russell raccontò un’altra storia, quella vera. E fu promosso sul campo come primo vero corrispondente di guerra nella storia del giornalismo.
Le prime immagini lente e sfocate sulla Marna e la Somme incominciarono a darci un’idea dei massacri del 1914. Come quelle drammaticamente mosse dei rangers americani, scattate da Robert Capa la mattina del 6 giugno 1944 a Omaha Beach: la più sanguinosa delle spiagge dello sbarco in Normandia. La liberazione del Kuwait nel 1991 fu la prima guerra di una ‘all news’ via cavo, la Cnn; e l’invasione dell’Iraq del 2003 la prima di una all news satellitare non occidentale, Al Jazeera
».

La prima guerra social

«Come dicono alcuni esperti, questa in Ucraina sarà ricordata come “la prima guerra dei social-media”. Possiamo considerala come un’altra tragica sottovalutazione di Vladimir Putin e del suo gruppo di potere: dopo quella della capacità di resistenza dei soldati ucraini, della compattezza di Nato ed Eu, e la sopravvalutazione delle capacità dell’esercito russo. The Economist scrive che questo conflitto è diventato “l’esempio più vivido di come i social stiano cambiando il modo in cui la guerra è raccontata, vissuta e capita, e di come questo può cambiare il corso della stessa guerra”».

Litigare sulla politica ma non sui fatti

Sulla reale compattezza Nato e dell’Unione europea potremmo discuterne a lungo con Tramballi, e sui comportamenti statunitensi sull’Ucraina, prima, durante e -temo- dopo. Guardando magari ad altre sfide lontane da noi ma molto più vicine ai loro interessi, sull’Indo-Pacifico. Ma torniamo a Tramballi.
«Poiché questa guerra è un evento mondiale, a rafforzarne la definizione di primo conflitto dei social-media è utile ricordare che i social sono usati da 4,6 miliardi di esseri umani: il doppio che nel 2014. Risultato della capacità di raccontare usando i mezzi appropriati: prima della guerra gli ucraini erano considerati “amici” dal 55% degli americani; oggi lo sono dall’80. Un consenso al quale non arrivano antichi alleati come francesi e giapponesi».

Media e telecamere come armi

«Nella resistenza all’aggressione russa, il trentunenne Mikhailo Fedorov, il ministro per la trasformazione digitale, è diventato importante quanto il collega della Difesa e i generali dello Stato Maggiore. In una chat aperta su Telegram, il ministero riceve 10mila messaggi al giorno: cittadini che fotografano le colonne russe, che informano sugli spostamenti del nemico, che ne filmano i crimini. “In questi giorni ognuno è un information warrior”, spiega un funzionario del ministero. Il loro contributo non è meno prezioso di quello dell’intelligence».

Disinformacjia e cattiva informazione

« […] diversamente dalla propaganda russa, gli ucraini non raccontano bugie: o meglio, ne raccontano ma molto meno degli avversari. Le loro sono soprattutto testimonianze della vita reale ai tempi di un’invasione incontrovertibilmente vera. Anche nell’immenso e manipolabile mondo virtuale, alla fine la vita reale ha più successo delle balle».

L’informazione a raffica

Sui ‘più pericolosi portatori di bugie‘. Certamente non i colleghi sul campo che, rischiando, raccontano ciò che a loro è consentito vedere. Colpevoli invece gran parte dei direttori, ossessionati dagli ascolti/letture che trasformano la guerra in show, meglio se con rissa, e che imprigionano gli inviati in una raffica di inutili ‘dirette’, impedendo loro di fare il loro vero mestiere di ricerca delle notizie e la loro verifica. Memoria irachena di ‘Bassora caduta’: ‘forse no’, ‘resiste, ‘presa dai marines’, ‘quelli inglesi’, ‘no gli americani’. Alla fine Bassora è caduta, ma una sola volta. Studio tv trasferito in trincea a leggerci comunicati stampa da agenzia.

Opinionisti virtuosi e minacciosi

Peggio di tutti, gli opinionisti minacciosi, pieni di certezze incontrovertibili. Ho contato venti titoli dedicati alla guerra su un grande quotidiano italiano, e non ho trovato un solo accenno di dubbio, un punto interrogativo.
Tutti ad esaltare quella che io vedo diventare via via, una sempre più pericolosa ‘guerra santa’. Una aggressività politico-culturale rispetto ai diversi tentativi di analisi ed anche a facilitare una ricerca di accordo di pace che trovo quasi più pericolosa della trasparente e sgangherata disinformacja di Putin e dintorni.

 

Fonte: https://www.remocontro.it/2022/04/06/la-guerra-non-e-che-sangue-sudore-e-merda/

 

 
 
 

L’INFORMAZIONE NELLE MANI DELLE POTENTI E RICCHE FAMIGLIE IMPRENDITORIALI ITALIANE: PURA COINCIDENZA?

Post n°1471 pubblicato il 07 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr

Pubblico questo articolo, scritto sulla base di ricerche effettuate da parte di Giovanni Castellano nel 2020, sulla situazione pericolosa di accentramento che stanno vivendo i gruppi editoriali nostrani, sulla sempre maggiore relazione che sussiste tra le grandi famiglie imprenditoriali italiane e l’informazione e sul suo utilizzo per orientare, condizionare, manipolare sia l’opinione pubblica, quanto l’informazione vera e propria. Perché ci sono certe verità che non devono essere divulgate, l’igniranza del popolo controllata e mantenuta, perché un popolo bue, disinformato è succube, è più facile da controllare.

Molto spesso una notizia che può sembrare insignificante nasconde invece un significato importante che non è facile comprendere se non si analizzano le conseguenze profonde della stessa. Leggere che il 23 aprile si è conclusa la vendita della partecipazione del 43,78% di CIR in GEDI in favore di Giano Holding, società per azioni detenuta da EXOR” non desterebbe infatti l’interesse di nessun lettore che non abbia una particolare conoscenza delle dinamiche che muovono il capitalismo italiano.

In realtà dietro questa operazione si cela il passaggio di proprietà del quotidiano Repubblica, ma anche de L’EspressoHuffPost Italia, la Stampa, il Secolo XIX, Limes, MicroMega, Radio DeeJay, Radio m2o, Radio Capital e tanto altro ad una holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia Agnelli.

La Repubblica, precedentemente pubblicata dal gruppo editoriale della famiglia De Benedetti, finisce quindi sotto il controllo diretto dagli Agnelli, che hanno spostato il centro degli interessi finanziari nei Paesi Bassi per ovvie ragioni economiche.

Queste possono sembrare informazioni poco utili agli occhi di un lettore poco attento. Eppure è importante richiamare l’attenzione sul fatto che la promozione di un dibattito democratico non può prescindere dalla richiesta di garantire l’autonomia e l’indipendenza degli organi di informazione non solo dal potere politico, ma anche dai grandi gruppi d’interesse economico e finanziario.

Se i maggiori organi d’informazione sono controllati, infatti, dai grandi gruppi economici, la visione del mondo fornita da queste testate si discosterà difficilmente dall’ideologia dominante, dal pensiero di chi vuole che le cose non mutino e restino sempre identiche a se stesse. 

Pur riconoscendo la possibilità che qualche giornalista “coraggioso” possa provare a imporre un discorso differente, sarà molto più difficile veicolare, in questo caso, i messaggi che confliggano con gli interessi del grande capitale finanziario nazionale e internazionale.

Per questo motivo può essere utile comprendere chi sono gli attuali proprietari dei principali organi d’informazione italiani, tenendo presente che spesso questi quotidiani riescono a imporre l’agenda politica anche alle realtà più piccole, decidendo gli argomenti da trattare ogni giorno; inoltre i grandi giornali forniscono le fonti d’informazione primarie alle quali possono poi attingere gli altri organi di informazione.

Se La Repubblica è il giornale più seguito nel centro-sud, il giornale più letto nella parte settentrionale del Paese è certamente il Corriere della Seracapire chi controlla questo giornale vuol dire conoscere un importante spaccato del capitalismo italiano.

Gran parte delle azioni del Gruppo Rizzoli (RCS MediaGroup) sono ora nelle mani di Urbano Cairo, il manager milanese con un passato nelle aziende di Berlusconi, che gli è valso una condanna in via definitiva per i reati di appropriazione indebita, fatture per operazioni inesistenti e falso in bilancio. Molti avranno avuto la possibilità di ammirare  l’imprenditore lombardo, tra le altre cose proprietario di La 7 e presidente del Torino, in un video diffuso nelle scorse settimane, nel quale lo stesso si mostrava raggiante per le opportunità offerte dalla pandemia a tante realtà imprenditoriali.

Importanti quote del capitale azionarie del Gruppo Rizzoli sono inoltre detenute dalla potente Mediobanca, dall’imprenditore Diego Della Valle (proprietario di Hogan e Tod’s e importante azionista di Italo), dall’assicurazione Unipol e dalla multinazionale Pirelli (ormai controllata da un’impresa pubblica cinese).

Meriterebbe un capitolo a parte l’impero creato da Silvio Berlusconi, a partire da MediasetMondadoriIl Giornale (da poco passato nelle mani della famiglia Angelucci) e Panorama (quest’ultima finita da poco nelle mani di Maurizio Belpietro). Molti hanno scritto in merito al conflitto d’interessi dell’imprenditore lombardo, ma qui basta ricordare che i giornali e le televisioni commerciali possedute da Berlusconi non solo hanno agevolato il suo personale percorso politico ma hanno anche profondamente influito sull’immaginario collettivo degli italiani, favorendo la diffusione del processo di deculturazione del Paese.

Per quanto riguarda La Stampa, la sua storia è legata alla famiglia Agnelli sin dal 1920 e, come è stato anticipato precedentemente, è appena tornata nelle loro mani, insieme alle altre realtà del gruppo GEDI. La potente famiglia di costruttori Caltagirone possiede, invece, il controllo su Il MessaggeroIl MattinoLeggo e il Gazzettino, mentre il quotidiano cattolico Avvenire è controllato direttamente dalla conferenza dei vescovi italiani (CEI).

Un particolare cenno va fatto all’eccezione rappresentata dal quotidiano comunista Il Manifesto e dal giornale Il Fatto Quotidiano, molto vicino alle idee del Movimento Cinque Stelle. Il primo, infatti, è edito da una cooperativa composta dai propri giornalisti, mentre il secondo è pubblicato da una società di capitali controllata, in misura maggioritaria, da alcune grandi firme del giornale.

Per quanto riguarda l’informazione economica, infine, il quotidiano più letto è sicuramente Il Sole 24 Ore, testata ufficiale di Confindustria, la principale organizzazione rappresentativa degli industriali; Italia Oggi, così come Milano FinanzaCapital e Class sono controllate, invece, da una società residente in Lussemburgo, per cui è difficile comprendere chi siano i reali proprietari.

Finora abbiamo analizzato come i grandi gruppi d’interesse possono avere una propria influenza sull’informazione controllando in maniera diretta le società editrici. Ci sono però tanti altri modi attraverso i quali questi gruppi possono far sentire il proprio peso sul mondo dell’informazione.

Mentre una piccola testata online sostiene normalmente dei costi relativamente bassi, basandosi perlopiù sul contributo volontario dei propri giornalisti, un giornale più importante deve invece sostenere delle spese molto più cospicue, soprattutto se vuole remunerare in maniera adeguata i propri giornalisti.

In particolare sarà essenziale per un giornale di un certo rilievo reperire delle informazioni “di prima mano ricorrendo a giornalisti presenti nei diversi contesti; l’alternativa è il ricorso alle veline governative e al semplice copia e incolla dei comunicati ufficiali, sminuendo così il ruolo di controllo dell’informazione.

Per questo motivo le principali testate finiscono spesso per finanziarsi inserendo pubblicità nelle pagine del proprio giornale; in questo modo è più difficile garantire un buon livello di autonomia rispetto ai grandi interessi economici. Un giornale molto critico nei confronti di Confindustria avrà, ad esempio, molta più difficoltà nel trovare imprese disposte a inserire uno spazio pubblicitario rispetto ad un’altra testata con una posizione più morbida nei confronti del mondo imprenditoriale.

Se guardiamo al mondo dell’informazione online possiamo pensare che un aiuto può venire dalla capacità dei giornali di catturare visualizzazioni (e quindi risorse). Questo metodo, che potrebbe sembrare profondamente democratico, in realtà nasconde un grave problema.

Un lettore che acquista un giornale cartaceo, infatti, spendendo una piccola somma, dimostra di fidarsi di questa testata, di ritenerla in qualche modo affidabile. Nel mondo della rete, invece, siamo portati a visualizzare anche contenuti la cui affidabilità è incerta o che, comunque, non apprezziamo molto.

Come dimostrano le ormai usuali polemiche nei confronti di Vittorio Feltri, guardare un video o leggere un articolo non corrisponde necessariamente a un attestato di stima; in molti casi siamo addirittura portati a regalare visualizzazioni a personaggi che detestiamo profondamente, cadendo nella trappola dei professionisti della provocazione.

In linea generale, dando un’occhiata ai contenuti diffusi nel web, possiamo constatare che è facile ottenere visualizzazioni alimentando polemiche sterili, facendo un tipo di informazione sensazionalistica, diffondendo fake news o teorie complottista, seminando odio e intolleranza.

Provare a fare un giornalismo affidabile, corretto, tentare di fornire una visione dei fatti alternativa rispetto a quella dominante non è certamente la via maestra per ottenere facili  risultati, se utilizziamo il metro di giudizio delle visualizzazioni ottenute.

Se un grande giornale, per far fronte alle spese necessarie per garantire un servizio di qualità, ricorre quindi al sostegno finanziario diretto o indiretto (tramite la pubblicità) delle grandi imprese limiterà fortemente la propria autonomia.

Si pone pertanto l’alternativa del ricorso al finanziamento pubblico all’editoria, ma attualmente quest’ultimo è regolato da una normativa molto confusa che finisce per privilegiare i giornali che godono dell’appoggio dei gruppi politici presenti in Parlamento.

Per questo motivo sarebbe opportuno riconsiderare tale normativa cancellando tutte le forme di finanziamento clientelare e permettendo un sistema trasparente che premi l’editoria indipendente, sulla base delle preferenze espresse dagli stessi cittadini.

La libertà di espressione è solo una delle componenti della vita democratica di un Paese perché questa forma di libertà può servire a poco se il modo in cui si forma l’opinione pubblica è influenzato dal potere del grande capitale nazionale ed internazionale.

Per questo motivo l’indipendenza del mondo dell’informazione è un requisito fondamentale per garantire il rispetto dei principi democratici ed è importante sostenere in ogni modo chi cerca di offrire un’informazione autonoma dal potere politico ed economico

 
 
 

MUSIC MADE IN ENGLAND.

Post n°1470 pubblicato il 07 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr

Il primo contatto che molte persone hanno con la lingua inglese viene dal cantare le proprie canzoni preferite alla radio. 

Spesso poi si scopre che il testo della canzone che stavano cantando non era esattamente corretto, ma l’amore per la musica può anche portare a un amore per l’inglese che durerà tutta la vita. 

Dai Beatles a Stormzy, dagli Smiths agli One Direction, la scena musicale del Regno Unito ha qualcosa da offrire a tutti. 

Non è una sorpresa quindi che il Regno Unito abbia dato i natali ad alcuni tra i festival di musica più longevi e più popolari del mondo. La musica è una parte essenziale della cultura britannica.

Se ami la musica e desideri visitare il Regno Unito per rispolverare le tue conoscenze linguistiche, perché non combinare le due cose e fare un viaggio per partecipare a uno tra le centinaia di festival musicali nel Regno Unito? 

Un gran numero di questi eventi musicali si svolge in Inghilterra. I festival musicali in Inghilterra sono conosciuti in tutto il mondo.

Molti dei più grandi festival del Regno Unito si svolgono in località rurali, così da offrire la possibilità di vedere una parte diversa del Paese e, a causa dell’imprevedibile tempo del Regno Unito, quasi tutti hanno luogo durante i mesi estivi. 

Molti festival musicali in Inghilterra includono il campeggio, quindi preparati a notti insonni e ad ogni sorta di meteo: stivali di gomma, un ombrello e un buon senso dell'umorismo sono un must.

Tuttavia, se ti piace la musica, incontrare persone e scoprire nuove band, ecco qui 11 festival che dovrebbero allettare tutti i gusti. Quindi, inizia a organizzarti per la stagione dei festival musicali del prossimo anno!

 


 

Per i fan del pop, del rock e della musica elettronica:
  • Glastonbury: molti ritengono che questo sia il padre di tutti i festival musicali? A partire dal 1970, quando i biglietti costavano solo £1 e i T-Rex erano gli artisti principali, questo festival è cresciuto fino a diventare quello che molti considerano essere la più importante manifestazione musicale nel Regno Unito. 
    Al giorno d’oggi, aspettati di dover pagare circa £250 per un biglietto per 5 giorni! Tuttavia, nel corso degli anni questo festival ha richiamato artisti come David Bowie, Beyonce, The Who, Radiohead e migliaia di altri cantanti, e moltissimi inglesi avranno un aneddoto o due su Glastonbury da raccontare.
    Attenzione però: il festival si svolge in una fattoria e richiama così tante persone che a intervalli di pochi anni ci si prende un anno di pausa in modo che la terra riesca a riprendersi: il 2018 è stato uno di quegli anni, quindi il festival si è tenuto nel 2019. Poi nel 2020 e 2021, a causa della pandemia, questo evento è stato cancellato. I fan di Glastonbury stanno aspettando con impazienza l'edizione del 2022.

 

  • V festival: questo festival si svolge in due giorni in due luoghi diversi, uno nel nord e uno nel sud dell'Inghilterra, perché l'idea è che i fan provenienti da diverse parti del Paese possano riuscire a vedere le loro band preferite con facilità.
    Sicuramente ha un aspetto più commerciale (la V sta per 'Virgin Media'), ma a molti piace il fatto che le code siano brevi, che si svolga solo nel lasso di un fine settimana e che attiri dei nomi top tra band e artisti del Regno Unito e internazionali, come Pink, Jay-Z e Sean Paul, che si sono esibiti tutti nel corso di una unica edizione.

 

  • Latitude: questo festival di dimensioni più piccole viene organizzato dal 2006 ed è un evento più per famiglie che unisce la musica (un eclettico mix di indie, pop, rock e musica elettronica come Goldfrapp, Fleet Foxes e Mumford & Sons), le arti, la poesia, la comicità e la politica. Si svolge nelle aree rurali del Sussex a luglio, ed è perfetto per fare campeggio con i bambini.
Per gli amanti dell'ambiente e della musica
  • Greenman: anche questo festival unisce una grande varietà di musica a cinema, letteratura e arti. Si svolge in Galles, ed è noto per il suo approccio alternativo, etico e consapevole rispetto alle tematiche ambientali. L'edizione del 2017 ha incluso le esibizioni di PJ Harvey, Sleaford Mods, Kate Tempest e Ryan Adams.
Per gli appassionati di jazz:
  • Love Supreme: se sei un amante del jazz, riconoscerai che il nome di questo festival è tratto da un album fondamentale di John Coltrane. Questo festival relativamente nuovo (è iniziato nel 2013) è dedicato al jazz in tutte le sue forme. Anch’esso si svolge nel Sussex alla fine di giugno e attira artisti vecchi e nuovi. Nel 2017, gli artisti di punta sono stati Herbie Hancock, The Jacksons e George Benson.

 

  • Edinburgh Jazz & Blues festival questo è uno dei più antichi festival di jazz del Regno Unito e si svolge prima del più famoso Edinburgh International Festival. Ha visto presenze quali Jools Holland, Dumpstaphunk e Sarah McKenzie. Ogni anno la città ospita oltre 100 concerti, quindi puoi combinare il tuo viaggio con una visita turistica di Edimburgo!
Per gli amanti della musica classica:
  • Glyndebourne: se preferisci un evento di più alta classe, pacato e sei un amante dell'Opera, allora questo è il festival per te. Poiché si svolge presso uno dei teatri lirici più prestigiosi del Regno Unito nella campagna del Sussex, il festival offre la possibilità di vedere spettacoli d'opera di fama mondiale
    Attenzione: l’abbigliamento richiesto impone una cravatta nera e i biglietti vanno da £10 - £250. Richiama molti londinesi benestanti, e durante gli spettacoli ci sono intervalli in modo da potersi godere un picnic con champagne.

 

  • The Promssi tratta di un festival di otto settimane che ha luogo principalmente presso la Royal Albert Hall e offre concerti di alcune delle migliori orchestre del mondo.
    Il nome deriva dall’epoca in cui i concerti si svolgevano all’aperto e il pubblico 'passeggiava' (promenaded) tutto attorno per ascoltarli.
    Si tratta di una questione britannica estremamente patriottica, e l'ultima serata dei Proms viene sempre trasmessa dalla BBC con un sacco di bandiere con la Union Jack che sventolano.
Per qualcosa di un po’ diverso:
  • Creamfieldsl’evento è iniziato come una diramazione del Cream, famosa discoteca di Liverpool, nel 2006 e ora si svolge a Daresbury, nel nord dell'Inghilterra.
    È stato uno dei primi festival dedicati alla musica dance e continua a richiamare i migliori artisti e DJ internazionali quali Stormzy, Loco Dice e Deadamau5, con un’intera gamma di stili di musica dance su quattro giorni nel mese di agosto.

 

  • WOMAD: Womad sta per World of Music, Arts and Dance, che è esattamente ciò che questo festival rappresenta. Il suo obiettivo è abbracciare stili musicali diversi provenienti da tutto il mondo, quindi dovrebbe c'è sempre qualcosa per tutti i gusti.
  • Artisti più disparati come Emir Kusturica, Goat, Seu Jorge e Roy Ayers e Seun Kuti si sono esibiti. Si svolge tutti gli anni ad agosto nel Wiltshire.

 

  • Wireless: questo festival richiama artisti hip hop e grime (garage rap) sia dal Regno Unito che dagli Stati Uniti quali Skepta, Nas e Wizkid.
    Poiché si svolge in un fine settimana a Finsbury Park nel centro di Londra, è un’ottima opzione per combinare un weekend di musica con un viaggio alla volta della capitale.

Questi sono solo un piccolo esempio delle centinaia di festival in programma... Il British Council organizza centinaia di eventi artistici (inclusi eventi musicali) nel Regno Unito. 

Quindi, se ti piace la musica dal vivo in un grande scenario all'aperto, perché non comprare un biglietto, migliorare un po' il tuo inglese, sia con i testi musicali dei tuoi gruppi britannici preferiti sia attraverso l'apprendimento pratico dell'inglese online, e prepararti per gli eventi del prossimo anno?

 
 
 

LA RUSSIA È DIVENTATA ABILE AD AGGIRARE LE SANZIONI.

Post n°1469 pubblicato il 06 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr

Secondo nuove stime del Fondo Monetario Internazionale il Prodotto Interno Lordo (PIL) della Russia potrebbe nel 2023 crescere dello 0,3 per cento, contro le previsioni di ottobre che lo vedevano in calo del 2,3 per cento a causa delle conseguenze delle pesanti sanzioni economiche che l’Occidente le ha imposto. Sempre secondo l’FMI l’economia sovietica  è tenuta in piedi dalle esportazioni di petrolio, che continuano a garantirle notevoli guadagni, e dal fatto che la Russia sta aggirando le sanzioni commerciali.

Molte inchieste hanno effettivamente dimostrato che la Russia è riuscita nel tempo ad aggirare le sanzioni, anche grazie alla complicità di alcuni paesi, come Cina, India e Turchia. Non vuol dire che le sanzioni siano inutili: nel 2022 il PIL russo si è comunque contratto del 2,2 per cento. Non tanto quanto ci si attendesse, ma le sanzioni ci mettono tempo a produrre effetti, soprattutto quelle più efficaci, come il divieto di esportazione di tecnologia strategica.

Le sanzioni che l’Occidente ha imposto alla Russia sono tantissime – soltanto l’Unione europea ne ha approvati nove pacchetti – e sono riconducibili grossomodo a quattro tipologie.

La prima riguarda le sanzioni individuali contro membri dell’élite russa e del governo, e contro i cosiddetti oligarchi: consistono nel divieto di viaggio nei territori da cui arrivano le sanzioni e nel congelamento dei beni presenti in quei territori e appartenenti alle persone colpite, come conti correnti, immobili e yacht. L’obiettivo è di compromettere lo stile di vita di queste persone, ma anche di infliggere loro seri danni economici.

Un secondo tipo di sanzioni comprende quelle misure che hanno ridotto lo spostamento di persone e merci da e verso la Russia, come il divieto di sorvolo di tutti gli aerei russi su Stati Uniti e Unione europea, e la chiusura dei porti all’intera flotta mercantile russa.

Ci sono poi le sanzioni che colpiscono il sistema finanziario. L’Unione europea, gli Stati Uniti e altri paesi hanno adottato misure specifiche per limitare l’accesso di alcune banche russe ai mercati finanziari occidentali e per bloccare totalmente le transazioni della Banca centrale russa, congelando anche tutte le riserve di denaro che deteneva all’estero presso altre banche centrali o istituzioni.

Infine ci sono le sanzioni commerciali. Riguardano il divieto di esportazione in Russia di varie tecnologie, come microprocessori, software e varie tecnologie militari che renderanno difficile per l’esercito russo aggiornare e potenziare le proprie capacità. È stata anche vietata l’esportazione di tecnologie che riguardano la raffinazione e la fornitura di petrolio. Sono sanzioni che hanno un notevole potenziale e potrebbero danneggiare vari settori dell’economia russa, ma richiedono tempo per far sentire davvero il loro effetto.

C’è poi il divieto di importazione di petrolio russo, che gli Stati Uniti hanno adottato da tempo. Nell’Unione europea è in vigore da inizio dicembre per il petrolio greggio, mentre per il petrolio raffinato sarà in vigore dal 5 febbraio. Da inizio dicembre, quel poco petrolio russo che è ancora acquistato dall’Occidente è soggetto a un tetto di prezzo pari a 60 dollari al barile, concordato dai paesi del G7, dall’Unione europea e dall’Australia. Tale cifra è piuttosto inferiore al prezzo di mercato (intorno agli 80 dollari al barile), quindi la Russia è costretta a venderlo riducendo molto i guadagni.

Tuttavia è ormai noto che la Russia ha trovato il modo di adattarsi a queste sanzioni, innanzitutto aggirando in parte quelle commerciali, grazie alla complicità, come dicevo, di altri paesi.

Un’inchiesta del New York Times racconta per esempio che la scorsa estate in Armenia è arrivato un volume spropositato di telefoni cellulari, circa 10 volte quanto importato nei mesi precedenti. Erano davvero troppi cellulari per un paese così piccolo, ma è poi emerso che sono stati esportati a loro volta in Russia, a cui gli occidentali si rifiutano di vendere tecnologia che potrebbe applicare allo sviluppo delle tecniche militari.

La stessa cosa è avvenuta per prodotti come lavatrici e chip per computer, arrivati in Russia attraverso altri paesi. I dati sui flussi commerciali internazionali mostrano chiaramente che alcuni paesi stanno aiutando la Russia a rifornirsi: Turchia, Cina, Bielorussia, Kazakistan e Kirghizistan fanno transitare merci sul loro territorio per poi farle arrivare in Russia. Queste pratiche si vedono anche dalle decisioni di alcune aziende di trasporti russe che stanno potenziando rotte alternative: per esempio Fesco, l’azienda russa di trasporti, ha aggiunto svariate navi sulla rotta tra Istanbul e Novorossijsk.

La Russia ha smesso da tempo di pubblicare dati sul commercio internazionale, ma gli analisti e gli economisti riescono comunque a ricostruirli tramite i dati che pubblicano gli altri paesi sulle loro esportazioni verso la Russia: non è chiaro quanta parte di questi scambi violino le sanzioni imposte dall’Occidente, ma una buona parte sembra sospetta. Un’analisi del centro di ricerca statunitense Silverado Policy Accelerator stima che le importazioni della Russia dal resto del mondo (esclusi Stati Uniti e Unione europea) siano notevolmente più alte rispetto ai flussi di prima della guerra.

Il commercio si è particolarmente intensificato con la Cina: secondo un rapporto di Free Russia Foundation il commercio tra Russia e Cina è aumentato di circa 27 miliardi di dollari tra marzo e settembre dello scorso anno, rispetto allo stesso periodo del 2021, fino a raggiungere i 99 miliardi di dollari. Non solo la Russia ha aumentato le importazioni di semiconduttori e microchip dalla Cina, ma ha anche dirottato lì quantità ingenti di gas e petrolio, che ha compensato in parte il calo delle esportazioni verso l’Occidente.

Il motivo principale per cui l’economia russa è ancora in piedi è legato al fatto che la Russia è comunque riuscita a esportare la sua più grande fonte di ricchezza, ossia l’energia. L’Unione europea è riuscita a liberarsi solo gradualmente dal gas russo, da cui era particolarmente dipendente prima della guerra. Nel corso dello scorso anno ha continuato ad acquistarlo, seppur in misura ridotta, contribuendo così a far guadagnare ancora la Russia.

Non è neanche chiaro quanto siano davvero efficaci il tetto al prezzo e in generale l’embargo al petrolio russo imposti dall’Occidente. Il tetto al prezzo del petrolio costituisce sostanzialmente una deroga all’embargo generale e consente di spedire il petrolio russo a livello globale utilizzando navi cisterna del G7 e dell’Unione europea, ma solo se il petrolio viene acquistato a un prezzo entro i 60 dollari fissati dal tetto. Questa eccezione è stata pensata per mantenere il flusso di petrolio sui mercati globali, evitando così una carenza e l’aumento eccessivo del prezzo, ma limitando al tempo stesso le entrate del governo russo.

Tuttavia in molti pensano che la Russia stia trovando il modo di aggirare queste regole utilizzando altre navi. Questo benché il governo russo abbia espressamente dichiarato di non avere più intenzione di vendere il proprio petrolio a un prezzo così basso.

Alcuni operatori del trasporto marittimo da mesi segnalano tantissimi casi sospetti in cui sembrava che gli spedizionieri stessero aggirando le sanzioni. Come quelli raccontati al New York Times da Ami Daniel, l’amministratore delegato dell’azienda di trasporti Windward Maritime: ha notato varie volte trasferimenti di petrolio russo tra navi in ​​alto mare, che avvenivano in acque internazionali e quindi fuori dalla giurisdizione di un paese specifico, e tentativi da parte delle navi di operare nell’ombra disattivando i localizzatori satellitari o trasmettendo coordinate false.

Queste pratiche consentono all’economia russa di sopravvivere, ma non certo di crescere e prosperare: le industrie risentono tantissimo di tutti i componenti che non possono più ricevere dagli altri paesi e allo stesso tempo non possono più vendere loro le proprie merci, una condizione che ha portato a un calo della produzione industriale.

Nonostante i dati sull’economia russa non abbondino, si può però riportare qualche aneddoto per far capire come stiano andando le cose.

La compagnia aerea russa Aeroflot ha iniziato a smontare i suoi aerei che coprivano tratte extra nazionali per trovare pezzi di ricambio. A causa della mancanza di auto occidentali Yandex, il più diffuso servizio di taxi, ha dovuto rifornirsi di auto Lada, prodotte in Russia e considerate meno comode e sicure, chiedendo un aumento delle forniture. Ma la produzione ormai è ferma e almeno dieci grandi aziende automobilistiche si sono bloccate, un pessimo segnale dato che questo settore è uno degli indici più affidabili su come stia andando l’economia.

È innegabile però che la Russia stia reagendo meglio di quanto previsto all’inizio della guerra.

Secondo molti la sua resilienza è legata alla storia e alle caratteristiche dell’economia russa. Questa è la quinta crisi economica che la Russia deve affrontare nel giro di 25 anni, dopo quelle del 1998, 2008, 2014 e 2020. La popolazione russa è quindi in un certo senso abituata alle difficoltà economiche e si sa adattare con relativa facilità.

Inoltre, l’economia russa è molto più isolata rispetto ai paesi occidentali, che al contrario sono fortemente interconnessi. Nel 2019 gli investimenti diretti stranieri valevano circa il 30 per cento del PIL, contro una media globale del 49 per cento. Solo lo 0,3 per cento dei lavoratori russi lavorava in una multinazionale americana, contro una media del 2 per cento negli altri paesi avanzati. L’essere ulteriormente isolata dalla comunità internazionale non ha quindi avuto un effetto dirompente, perché di fatto la Russia era un paese già più isolato rispetto agli altri. E anche a livello di materie prime, energetiche e non, è piuttosto autonoma.

In più, per dire se le sanzioni siano efficaci oppure no bisogna chiarire qual è il loro l’obiettivo.

Quello di breve termine, almeno all’inizio, era di creare una crisi di liquidità in Russia, che le avrebbe reso difficile finanziare la guerra in Ucraina e il sostegno che il governo avrebbe dovuto fornire all’economia per evitare una recessione. Nel lungo termine, l’obiettivo è di compromettere la capacità produttiva e tecnologica della Russia, così da ridurre le risorse che in futuro Vladimir Putin potrebbe usare per continuare ed estendere la guerra, magari ad altri paesi. Inoltre le sanzioni, se efficaci, funzionano anche da deterrente generale verso tutti quei paesi che potrebbero avere in mente di iniziare una guerra.

Secondo l’Economist le sanzioni più efficaci sono i divieti all’esportazione di tecnologia alla Russia, che sono quelle di cui si discute meno anche perché ci mettono molto tempo a produrre effetti.

 
 
 

How wonderful life is while you're in the world...

Post n°1468 pubblicato il 04 Febbraio 2023 da scricciolo68lbr

Ogni tuo pensiero, ogni singolo movimento, ogni tuo silenzio ogni giorno di più, io trovo
in tutto quel che fai, io vedo in tutto quel che sei, la ragazza che da sempre è stata nei sogni miei
E tutto quanto il mondo intorno è più blu, non c'è neanche una salita quando ci sei tu
Tu che sei la perfezione, per fortuna che ci sei, apro le mie braccia al cielo e penso...
“How wonderful life is while you're in the world”.

 
 
 

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                       I

Le parole contano
dille piano...
tante volte rimangono
fanno male anche se dette per rabbia
si ricordano
In qualche modo restano.
Le parole, quante volte rimangono
le parole feriscono
le parole ti cambiano
le parole confortano.
Le parole fanno danni invisibili
sono note che aiutano
e che la notte confortano.
                                  i
 
 

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