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LA VOLPE


Chissà perché tutti i cani rabbiosi della contrada venivano a crepare da noi. Nell'estate dell '88 la doppietta di mio padre lavorò a pieno regime. Lavorò a pieno regime anche mia madre. Quando un cane ammalato si busca una cartuccia in fronte il suo cranio si apre come un pacco delle Brigate Rosse e il suo contenuto arriva a distanze inimmaginabili. Il sangue infetto andava pur lavato via. I cani ammazzati da mio padre non erano animali: erano simboli. Un cane randagio è una creatura che ha perso il suo scopo nella vita e non ha cosa più sensata da fare che andare a farsi sparare tra i filari di Sangiovese. Qualche anno dopo mio padre buttò giù i filari. I cani sparirono e cominciarono a venire i maiali. Anche la volpe era un simbolo, ma un simbolo più cazzuto. Il fatto che se ne parlasse solo al singolare era indicativo. Già le dava una dignità diversa. Mio padre mi chiamò in disparte e fece cenno al campo del vicino. "La vedi ?" C'era solo il grano che s'alzava e s' abbassava lento come il petto d'un dormiente. Con una certa esitazione risposi di no. "Guarda". Raccolse un sasso e lo lanciò dritto in mezzo al grano. Mio padre era un eroe. Una bestiola fulva schizzò fuori dalle spighe. Come cacchio aveva fatto a vederla? La volpe era la bestia stronza. Estranea ad ogni possibile legame civile, preoccupata soltanto dei suoi appetiti, col suo finissimo ingegno rivolto unicamente alla loro soddisfazione. La volpe non aveva padroni, come i cani randagi. Solo che lei se ne fregava e viveva felice. Non si poteva far ragionare la volpe: alla volpe si sparava e basta. Però non vidi mai mio padre pigliare la doppietta contro di lei. I cani invece crepavano come mosche. "Bisognerà sgozzare le galline", disse in ultimo. ULFSTEINN Puglia, anni '80