Tutta la vita.

PURPESCINNE, II PARTE


                             Ricordo ancor ora la paura, il terrore, l’istantanea consapevolezza di averla fatta grossa veramente, in pericolo di vita, il buio, l’acqua, le mie gambe prese da dietro da una lastra di cemento che mi bloccava sul fondo di quella cisterna. Venimmo poi a sapere che serviva a distribuire equamente l’acqua ai canali d’irrigazione che andavano in tutta la villa, era coperta da una sottile lastra di cemento, che non aveva retto l’urto e si era sfondata cadendoci poi addosso ad entrambe.                              E’ strano, come in una frazione di tempo infinitamente piccola , feci un ragionamento del tipo: pensai ai miei genitori ai miei nonni alla zia di Mattone, alle botte che avrei preso, stavolta ci ammazzano, ma prima cerchiamo di restar vivi, dopo si vedrà. E reagii, come riuscii a sfilare le gambe da sotto la lastra, è uno dei misteri della mia vita, credo semplicemente che, non era la mia ora, tutto lì, ma soprattutto come misi la faccia all’aria, non vedendo Mattone vicino a me ebbi la certezza di una tragedia incombente. Guardai Cita chiedendo a lui, ma mi fece una smorfia del tipo, non lo so.Aveva due occhi come quelli di un toro. Subito Cita lesto come un furetto prese la scala sotto la ciliegia, e io mi buttai nell’acqua a cercar Mattone. Emotivo come sono, ora come allora piangevo, allora disperato, ora emozionato al ricordo di quei brutti momenti, gridavo disperato e terrorizzato il suo nome di battesimo, non c’era nessun scherno a spazio per offendere, scherzare?. A un certo punto lo sentii sotto di me nel fondo della vasca, non so come ho fatto a trovarlo in mezzo al fango e c’erano pure un metro e mezzo buono d’acqua, lo tirai per i capelli, poi le braccia, affondavo nel fango, senz’aria, sotto choc, sottacqua, ma non l’avrei mollato mai, sentii il tonfo di qualcosa in acqua, erano Cita e Cavallo e insieme tirammo fuori Mattone da quel cazzo di buco, era come morto. Eravamo disperati, ma con i denti serrati e il cuore in una morsa. Sull’erba lo scrollammo come un tappeto, lo prendemmo a calci a schiaffi, niente, nessuno conosceva tecniche di rianimazione. Eravamo soli sotto un sole impietoso e indifferente, eravamo pieni di sanguisughe, ci avremmo pensato dopo e a forza di scrollarlo e pestarlo urlando come impazziti, si mise a tossire e poi vomitò, Acqua, fango, foglie marce e poi le ciliegie e le fragole, sputo e scatarrò ogni schifezza per dieci minuti, era suonato come un tamburo, sembrava un zombie, non stava in piedi, era imbambolato completo, un vero mattone, vomitai anche io quelle cazzo di ciliege, eravamo tutti li, Mattone, Cavallo, Cita, Scion, Mezzo e Panzer, (che ero io), la banda al completo, come ci intendevamo con gli occhi, con i soli sguardi, gli altri tre erano venuti subito in soccorso ognuno aveva fatto la loro parte, avevano visto tutto e ci stavamo guardando sorridendo, come se il peggio fosse passato, come tante altre volte, Mattone era a terra che sorrideva anche lui, aveva un bernoccolo in fronte che divento poi un arancio e su quel capoccione grosso come un’anguria aveva  una sula colossale, dove lo avevo tirato per i capelli, sembrava un berretto, le sanguisughe dappertutto, quei vermi neri/rosso, ci sembravano ridicoli. Credo che esista veramente un Dio, quella volta ci pose le mani a protezione, il sole ci scaldava piacevolmente, mi sentivo esausto, tutti ci sentivamo esausti e ci sedemmo a terra, nessuno pensava a nulla, eravamo in fase di resuscito, poi Mattone cerco di alzarsi, ma si abbatté di fianco dando un’altra facciata in terra. All’istante partimmo prendendolo polsi sul collo davanti e ginocchia a gomito dietro, in quattro, uno per arto, mentre scendevamo a ritroso il tragitto dell’andata, qualcuno si mise ad urlare dalla Villa, ma vaffanculo pensai, ci mancate solo voi  a rompere…. attraversammo i biancospini come missili, ci riempimmo di quelle spine cilindriche di legno, che le togli solo con la lametta da barba, se si spezzano lunghe, senno vai al P.S. a fartele togliere, la sera tra le spine e le sanguisughe…..                       Ci avevano quasi raggiunto Gaitan e i suoi sgherri, così quasi buttammo Mattone giù dal muro nel fiume, se non l’abbiamo ammazzato a quel giro……credo che l’ultima acqua che aveva in corpo la data lì, dopo un'altra facciata in terra……poveretto, cadde come un sacco di patate.                        Per far prima, ci portammo nelle vie del paese, portando sempre Mattone polsi-caviglie, la gente ci guardava con relativo interesse, erano abituati alle nostre “imprese”……                       Lo portammo (al solito come quella volta che si era rotto il polso a camminare sul pergolato dell’uva di Serra, cadendo ovviamente e rovinosamente a terra), da sua zia, una zoppetta che era stata infermiera tutta la vita. Quasi svenne quando ci vide entrare, per primo vide Cita che scavalcò il cancello come un ladro ed entrò nel minuscolo giardino da zanzare nel vicolo e poi ci aprì da dentro ed entrammo, si mise a gridare la parente, Cita le disse “Dopo dopo dopo”. Per primo dovevamo nasconderci. Mattone era senza padre e la madre la vedeva ogni tanto… Era sua zia e suo marito, che l’accudivano. Lo mettemmo sul tavolo in cucina, lo stronzo faceva il finto svenuto, lo conoscevo bene io, ma così stava fuori dai giochi, capito il tontolone…Le dissi, vado a chiamare mio nonno, lui sa come togliere le sanguisughe, almeno credevo, meno male che lo sapeva veramente. Arrivai a casa dai nonni che erano a un tiro di schioppo per fortuna e doppiamente fortuna mio nonno c’era, come entrai in baracca, ancora un pò e ci rimaneva secco, vedendomi conciato com’ero. Le sanguisughe, la maglia strappata, tutto graffiato, le gambe e braccia piene di sangue e di spine di biancospino, senza scarpe, gli dissi, “zitto zitto, che la nonna se ne accorge, vieni andiamo, andiamo” e lo tiravo per la mano e lui solo per l’immenso bene che mi voleva mi segui. Spense la Centauro e andammo. Lo portai dalla zia di Mattone e subito capì che ne avevamo combinato una delle nostre, le facce che fece, ma senza dir nulla si accese una Alfa, con le braci scottava le sanguisughe che mollavano la pelle staccandosi, se le strappi, le sanguisughe lasciano nella carne sotto la pelle, tutta la bocca, che resta attaccata per via di denti a sciabola, ricurvi come ami, così facendo dopo marcisce e ti viene un’infezione non da poco, cosa che ci venne a quattro di noi, comunque.                       La zia piangeva disperata e Mattone faceva ancora lo svenuto, figlio di sua madre, nell’orecchio senza farmene accorgere, gli dissi “ svegliati o ti strappo le palle” e allora il marotto (malato) rinvenne. La zia poveretta che se non le è venuto anche a lei un colpo quel giorno, non le viene mai più, smise di piangere e si attaccò al telefono. La macchina dei guai si era già messa in moto, cazzo.                      Ci ripulirono e bendarono tutti, arrivo persino il medico del paese e arrivo la mia nonnetta, che tanto era piccola e dolce da calma, tanto era gigantesca e feroce da arrabbiata, solo un’altra volta la vidi così, quando tornai a casa con un chiodo piantato in fronte con tutta una tavola attaccata, le sue labbra creole fremevano di rabbia, sapeva già tutto, mi sembra di vederla, mi fissava silenziosa e feroce come una belva, per fortuna le mie ferite, le sanguisughe, le spine di biancospino gli altri reduci e mio nonno la ammansirono e rientro nella parte che amavo di lei, la abbracciai col pianto in gola. Ero già più alto di lei, ma mi sembrò di abbracciare un colosso, lei mi strinse con il suo modo dolce e forte e di totale affetto, senza remore o vincoli, mi voleva bene e basta, ero salvo, nessuno le teneva testa, il mio potentissimo alleato era di nuovo dalla mia parte. Avrei mangiato da lei e per la sera ero quasi salvo, le chiesi subito, se avessi potuto anche dormire e lei mi disse di si. Non salvo, salvissimo. Nessuno poteva modificare di fatto la serata.                      Arrivarono i parenti di tutti noi e cominciarono a volare i ceffoni, e la mia dose me la presi da mia madre, ma ormai il peggio era alle spalle, Mattone, il mio Mattone, il mio servente alla fionda, il mio delfino e protetto, il fratello che non ho mai avuto, lo avevo visto perso e morto dentro quel fango, ora stava bene ed  era vivo, anche se per miracolo. Sogno ancor oggi quella cisterna, modificata, più grande e piena di morti, ma è quella. La paura che mi presi quel giorno è nei miei recessi mentali e non se ne andrà mai più.                      Passammo a letto malati o finti malati un paio di giorni e dopo varie cure di antibiotici, le solite minacce  e di più da parte di mio padre e mia madre, ci fù un epilogo inatteso a questa vicenda.                       Mio padre, conosceva l’avvocato e si recò alla villa, per pagare i danni che avevamo fatto. L’avvocato da far suo, non volle nulla e addirittura si scusò per quello che era successo, poteva finire in una tragedia, (giusto, aveva ragione), anzi fece molto di più, ci invitò nella Villa ad una di quelle merende famose e tutti e sei ci andammo, scortati da mia madre e dalla zia di Mattone, passando per il cancello e mi scaccolai nelle anfore, persino Gaitan ci sorrideva un po’ spaventato, aveva visto cosa sapevamo fare e un pò ci temeva. Facemmo onore al banchetto, come solo noi sapevamo fare, mangiammo tutto. Fu una cosa da sogno, per noi per lo meno, mangiammo con le posate d’argento massiccio.                      Quando ci invitarono ad andare a mangiare le ultime ciliegie, tra l’altro già raccolte e nei vassoi d’argento anche quelli, nessuno di noi le mangiò, non ci piacevano più, preferimmo andare nell’orto, c’erano i primi pendini, li divorammo col sale e l’olio d’oliva, naturalmente.