Pandora fu una donna mortale creata da Efesto per ordine di Giove, che voleva punire l'umanità per il dono del fuoco fattole da Prometeo.
A lei tutte le divinità dell'Olimpo donarono ogni sorta di pregi e virtù; da qui il nome: Pandora, tutta un dono.
Dal maligno Mercurio, però, le fu donata anche la curiosità, quell'invincibile forza che la spinse ad aprire lo scrigno (il vaso di Pandora) che le aveva donato Giove, e dal quale scaturirono poi sulla Terra tutti i mali da cui venne afflitto il genere umano.
Cos’è il P.E.N. 31.03.2003 - Riflessione sulle nostre libertà - Daniele Dell’Agnola da “il biaschese” riflessioni Fu la scrittrice londinese Amy Dawson Scott che nel 1921 fondò un club denominato Poets, Essayists, Novelists. Ne aveva fondati altri, ma questo avrebbe conosciuto un’importante continuità nella storia del ventesimo secolo. Sono membro del PEN da poco e mi accorgo che questa associazione è importante. Infatti il PEN si impegna anche a difendere i diritti di scrittori che sono rinchiusi in un carcere o condannati a morte. Daniele Dell’Agnola http://www.pensvizzeraitaliana.org/sezioni.php?id=1 |
Jean Michel Basquiat non fu soltanto un graffitista. Jean Michel Basquiat ebbe la capacità di andare oltre le mode, oltre i movimenti che negli anni ’80 affollavano le gallerie borghesi della New York sempre alla moda e sempre alla ricerca di qualcosa che potesse divenire uno status symbol. Che l’oggetto del “culto” fosse artistico oppure no, ad un tratto, non ebbe più importanza. In un mondo completamente trasformato dal capitalismo, in un mondo in cui anche l’arte divenne fonte di denaro e di nient’altro, emerse la figura di un artista a dir poco geniale, di un poeta della pittura, di uno scrittore di immagini. Basquiat giocava con i colori, giocava con le forme modellandole velocemente, come in una danza tribale. Giocava anche con la vita e, morendo, si prese gioco di quella gente che voleva la sua creatività, che pensava di poter comprare le sue idee e la sua fantasia. L’artista era solito dipingere una miriade di simboli difficilmente interpretabili, perché così era il mondo come lui lo vedeva. Nessuna delle sue figure ha una personalità, perché nessun essere umano da lui incontrato e conosciuto ne aveva una, secondo lui. Nessuno dei volti da lui dipinti ha uno sguardo perché, se lo avessero, sarebbe immediatamente percepibile l’assenza di un’anima. Basquiat l’aveva un’anima ma la tenne nascosta per non farsi rubare anche quella, e la mandò via, dolcemente, per non farle patire i dolori del materialismo, dell’indifferenza, e dello sfruttamento. Camilla Cannarsa, rivista IL PENDOLO http://www.triennale.it/triennale/sito_html/basquiat/sito/index.html |
"Un giorno quando stavo disegnando una giovane ragazza, all'improvviso ho notato che tutto ciò che era vivo in lei era il suo sguardo. Il resto della sua testa, non era per me che il cranio di un uomo morto. Uno vorrebbe scolpire una persona vivente, ma ciò che la rende realmente viva è senza dubbio il suo sguardo... Tutto il resto non ne è che la cornice" Il disegno, per Giacometti, era l'atto fondatore della sua stessa scultura; lo strumento mentale più efficace di una ricerca incessante volta a scavare nell'oggetto fino a catturarne l'essenza. Tentativo che l'artista definiva immancabilmente fallito, ma che ai nostri occhi appare come un miracoloso labirinto di linee nervose e contorte, incerte tra la distruzione del pieno e la costruzione del vuoto. Disegnava l'aria su qualsiasi pezzo di carta, sulle buste delle lettere che gli erano appena arrivate: ma poiché tra le sue dita c'era una matita a mina dura o una biro, quell'aria diventava una stanza, un tavolo, un lume sospeso, la montagna appena sopra il villaggio di Stampa, le mele in un piattino, l'albero e la figura di un uomo che guarda in su - questi disegni dell'uomo che guarda in su sono stati fatti con le matite colorate -, o sua moglie Annette che se ne sta semisdraiata su una brandina. E la conversazione con Alberto era delle più emozionanti perché Alberto era ingordo di sapere. Era anche ingordo di come fossero l'aria e la luce quando usciva dallo studio e si guardava intorno. Guardava l'aria, ne traeva profitto, infilava nella memoria quei dati, e li teneva stretti perché non si perdessero. I poeti hanno sempre fatto così. Eugenio Montale se non aveva uno spazio libero sul cartoncino dei fiammiferi Minerva era perduto. Come si fa a ricordare se la memoria sta già rincorrendo un'altra cosa? Bisogna sempre scrivere, prendere appunti. Giacometti prendeva appunti che, molto spesso, diventavano delle conversazioni con chi stava disegnando. La memoria faceva conversazione con lui: e lui disegnava, tracciava... Giorgio Soavi |
Finalmente Mario Cavaglieri. Una vera retrospettiva su di lui mancava da molti anni e a colmare la clamorosa lacuna provvede la città in cui è nato, Rovigo, con una mostra ampia in cui i suoi selvaggi “colori primordiali”, che sconvolgono ancora i sensi raccontando di belle donne e di salotti mondani, si confronteranno con i toni più morbidi delle tele con cui nel suo rifugio di Peyloubère descriveva la pacata bellezza della natura. A Mario Cavaglieri non sono certo mancati riconoscimenti autorevoli, si pensi per esempio l’attenzione che dedicò all’artista il grande critico d’arte Roberto Longhi, ma mancava un monografica veramente completa. Quella curata da Vittorio Sgarbi e coordinata di Alessia Vedova presenta centosessantadue opere dell’artista, fra cui un numero consistente di tele che provengono dalla Francia. Ad ospitare la mostra, voluta dal Comune, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dall’Accademia dei Concordi, sono gli spazi recentemente recuperati di Palazzo Roverella. Il percorso artistico di Cavaglieri è interamente documentato: dagli esordi padovani insieme a Felice Casorati, alla grande stagione di Ca’ Pesaro e delle Biennali veneziane che consacrarono la preziosa ricercatezza della sua arte, fino ai lunghi anni della suo ritiro nella campagna francese. L’evento è anche una preziosa occasione per rileggere attraverso il fascino e il mistero della sua pittura la storia, le contraddizioni e le diverse influenze dell’arte dei primi del Novecento. Cavaglieri fu certamente un pittore di raro edonismo, attratto dall’intrinseca eleganza degli salotti mondani fin de siècle; si potrebbe quasi affermare che la sua pittura possiede un incanto letterario: stoffe, cappelli, arredi, orologi, resi con opulenza barocca, sembrano quasi affiorare da pagine dei romanzi dannunziani. Le opere dei primi soggiorni parigini risentono dell’intima ricchezza degli interni di Vuillard e di Bonnard e degli accordi coloristici del primo Matisse. Quando invece si vanno a considerare i dipinti nati nella sua lunga permanenza nella residenza francese di Peyloubère, si nota che il pittore, quasi inebriato dalla libertà e ormai lontano dalla mondanità degli aristocratici salotti cittadini, si è dedicato a dipingere e disegnare instancabilmente la campagna, gli alberi in fiore, la sua dimora… fondendo bagliori di luci e colori veneti alla pittura di paesaggio dell’amico ferrarese De Pisis. In tutte le opere colpisce comunque la grande padronanza tecnica e materica dell’artista, capace di rendere quasi in maniera tattile sia gli arredi, che i paesaggi, avvalendosi sempre di quella che Longhi ha definito una tavolozza ricca di “colori primordiali”. La rassegna è anche un’ imperdibile occasione per scoprire numerosi dipinti inediti dell’artista. http://www.palazzoroverella.com/ |
Il dipinto, un olio su tela (73 x 92 cm) del 1892, oggi custodito a Oslo, al Nasjonalmuseet for Kunst, fa parte, come il celebre "Il grido",di un grande ciclo pittorico, "Il fregio della vita" (1893-1918), un gruppo di opere centrate sul tema del ciclo vita, morte e amore ("Il grido", "Il bacio", "Gli occhi negli occhi", "Vampiro", "Danza della vita"), all'interno del quale compare una tematica più volte ripresa da Munch, quella del rapporto e dell'attrazione tra uomo e donna, interpretata secondo il modulo della sua personale poetica dell'angoscia. | ||||
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Le due figure, tema dominante dell'opera, sono nettamente decentrate, contro ogni canone compositivo tradizionale, letteralmente sospinte verso il margine destro del quadro, ad accentuare un senso di furtività che tutto l'insieme sottolinea ed esaspera: l'ambiente non è certo un contesto romantico, è un locale modesto e disadorno, quasi che l'incontro sia casuale o clandestino, oltre i vetri della finestra si intravvede una via come tante, con vetrine illuminate, qualche passante, probabilmente l'ora tende alla sera, i colori sono piuttosto scuri, le tonalità fredde, tipicamente nordiche, dietro la tenda biancastra le forme indistinte delle due figure avvinte sfumano dal blu al nero verso una zona d'ombra assoluta che si perde oltre il limite della tela.
La perdita di identità che consegue all'impossibilità di distinguere separatamente le due figure strettamente abbracciate esprime sia l'essenza dell'amore, la con-fusione di due corpi, oltre che di due anime, sia il turbamento dei sensi, vissuto come una minacciosa possibilità di perdizione, in senso morale ma anche letterale.
Il rapporto tra uomo e donna si configura così come una tensione bipolare tra desiderio di amore e paura di amare, un rapporto ambiguo espresso dalla fusione fisica tra i due protagonisti non già sull'onda di uno slancio passionale, ma di un reciproco tentativo di annullamento ed assimiliazione (o dissoluzione): solo così Munch può trasferire in un tema ad alto contenuto emotivo, che presuppone uno stretto rapporto interpersonale a lui sempre negato, il doloroso senso di solitudine non solo psicologica o metaforica, ma tragicamente reale in un vissuto personale drammatico e traumatizzante.
Abbandonata la sinuosa eleganza della linea dell'Art Nouveau, che ritroviamo soprattutto nelle numerose acqueforti, Munch adotta un segno sommario e quasi frettoloso, sia per l'ambiente che per le figure, sotto una forte spinta espressionista che preme verso un impellente desiderio di esprimersi, con ansia, con furia, senza il filtro dell'analisi e della ragione: ma, se si tratta di Munch, "L'arte è completa quando l' artista ha detto tutto quello che doveve dire veramente.... " così scrive di lui l'amico e pittore Christian Krohg, e tutto il resto non ha importanza.
di Vilma Torselli
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il 27/11/2010 alle 02:01
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il 27/04/2007 alle 15:36
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il 27/04/2007 alle 15:10
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il 27/04/2007 alle 15:09
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il 27/04/2007 alle 15:04