Creato da senz_amore il 19/04/2007

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Tutta un dono

 

 

INTERNATIONAL P.E.N.

Post n°8 pubblicato il 23 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: KULTUR

Cos’è il P.E.N.

L’INTERNATIONAL P.E.N. (Poets, Essayists, Novelists - Poeti, Saggisti, Narratori) è una associazione mondiale di scrittori, riuniti in club nazionali. Assolutamente apolitica, essa promuove la libertà di espressione in tutto il mondo e si oppone a ogni forma di oppressione delle libertà intellettuali. Inoltre favorisce i contatti tra gli scrittori dei diversi paesi. Fondata a Londra nel 1921, conta ora circa 140 centri in tutto il mondo.

Fanno parte del P.E.N. l’International Foundation Emergency Fund e il Fondo Scrittori in Prigione che porgono aiuto concreto agli scrittori perseguitati per motivi ideologici e alle loro famiglie.
Scopo dell’International P.E.N. è promuovere l’amicizia e l’interscambio culturale. Ogni membro di qualsiasi P.E.N. è membro dell’intera organizzazione.
Al Congresso e alla Conferenza annuali, ospitati a turno dai singolo centri nazionali, prendono la parola autori di fama mondiale e i soci dei vari P.E.N. possono incontrarsi con i colleghi che convengono dai cinque continenti.
I singoli centri del P.E.N. organizzano, durante l’anno, un programma di incontri con scrittori nazionali e stranieri e con personalità del mondo culturale.

Cronistoria dell’International P.E.N.

Il P.E.N. venne fondato nel 1921 dalla poetessa inglese Dawson-Scott. Fin dal principio le donne furono accolte a piena parità e Violet Hunt, Rebecca West, May Sinclair figurano tra i soci fondatori.
Il primo Presidente fu John Galsworthy, un prestigioso scrittore interessato a ogni iniziativa atta a promuovere la comprensione internazionale e la pace. La sua presidenza si prolungò per 12 anni, durante i quali gli venne assegnato il Nobel per la letteratura. Galsworthy è sempre stato in prima linea nelle battaglie civili: la denuncia di certi eccessi del sistema carcerario inglese, che troviamo nel suo dramma “Justice”, portò a una riforma del codice penale.
Un comitato valutava i requisiti dei candidati prima di accettarli; le loro opere dovevano essere state pubblicate da un editore di sicura reputazione.
L’aspetto internazionale del P.E.N. suscitò vasti consensi e diede notevole impulso all’associazione. Ben presto vi aderirono i maggiori scrittori dell’epoca, come Joseph Conrad e G.B. Chesterton. Già nei primi sei mesi erano nati altri cinque Centri, il primo a Parigi sotto la guida di Benjamin Crémieux.
Il P.E.N. entrò assai presto in crisi d’identità a causa all’atteggiamento militante assunto dal centro di Parigi. Le polemiche che ne seguirono convinsero i responsabili a ribadire il principio che il P.E.N., nato come movimento apolitico, doveva rimanere tale: i singoli membri erano liberi di professare le proprie ideologie, ma non nell’ambito dell’associazione.
Vennero indette riunioni internazionali annuali; al quarto congresso che si svolse a Berlino nel 1926 erano rappresentate 15 nazioni.
Visto il sorgere di centri sempre più numerosi, fu accolto il principio che ogni centro avrebbe rappresentato una lingua e una letteratura, più che una nazione. Così alla Jugoslavia si riconobbero quattro centri, alla Svizzera tre, al Canada due.
Col passare degli anni nuovi centri fiorirono: Bombay e Bolivia, Basco e Catalano, ma l’Internazionale degli scrittori rivoluzionari russi rifiutò di aderire. Un centro P.E.N. a Mosca poté venire aperto solo nel 1989.
Nel gennaio 1932 il P.E.N. lanciò un appello a tutti i governi in favore dei prigionieri religiosi e politici. La mozione venne diffusa attraverso la stampa e, ritenendo che non avesse suscitato un’eco sufficiente, Galsworthy la portò direttamente all’attenzione del Governo inglese.
Nel 1933 muore Galsworthy e il nuovo presidente è H.G. Wells. Giunge la notizia di persecuzioni contro gli intellettuali tedeschi. Il P.E.N. tedesco invita Londra a non credere a tali voci allarmistiche e tendenziose. Londra risponde chiedendo una dichiarazione riguardante Ernst Toller, Heinrich e Thomas Mann, tutti in esilio. Il comitato inglese decide di consultare per telegramma gli altri centri e di informare la stampa della sua iniziativa. Ne consegue una energica protesta corale contro il trattamento degli intellettuali sotto il regime di Hitler e si arriva alla conclusione che, se il P.E.N. tedesco è stato ricostituito secondo idee nazionalistiche, deve venire espulso.
Nel 1933 in Germania si assiste al rogo dei libri indesiderati; il centro tedesco non protesta. Il successivo congresso internazionale, che si svolse a Dubrovnik, risultò fondamentale sia nella storia del P.E.N. che nella cultura europea. In tale occasione, alla presenza di circa quattrocento persone rappresentanti ventisei nazioni, tra cui i delegati della Germania, della Palestina, dei centri Yiddish, apparve chiaro che un convegno di scrittori impegnati a propugnare la libertà di espressione non poteva ignorare, pur volendo evitare la politica, che in Germania i libri venivano messi al rogo e che un grande numero dei più noti scrittori tedeschi viveva in esilio. Al successivo congresso internazionale il P.E.N. tedesco venne espulso dall’organizzazione.
Mentre l’orizzonte internazionale si faceva sempre più oscuro, un numero crescente di scrittori tedeschi esiliati affluiva a Londra. Il P.E.N. si occupò di loro, soccorrendo i più disagiati, e venne costituito il primo centro per esiliati: gli scrittori di lingua tedesca all’estero.
Nel 1934 la situazione si era talmente aggravata che Wells suggerì di istituire un fondo per scrittori perseguitati dai loro governi in qualsiasi nazione.
Nell’aprile 1937 Arthur Koestler venne arrestato in Spagna e il P.E.N., capeggiato da E.M.Forster e Aldous Huxley, intervenne presso il generale Franco, che in giugno fece rilasciare Koestler.
Nel successivo congresso a Praga si discute sui riflessi culturali del conflitto cino-giapponese (il Giappone è invitato preservare la università e i monumenti culturali cinesi) e sulla sorte degli ebrei in Polonia. A Londra si aprono sottoscrizioni per gli scrittori austriaci, cecoslovacchi e catalani.
Durante la guerra i membri del P.E.N. inglese si misero a disposizione dei comitati per i rifugiati. E fu proprio il P.E.N. che venne incaricato di raccogliere le più ampie informazioni sugli internati. Grazie alle sue ricerche si poté disporre delle prove necessarie per rendere la libertà alla grande massa di scrittori tedeschi profughi, che altrimenti sarebbero rimasti internati per tutta la durata del conflitto, nel dubbio fossero spie o appartenenti alla quinta colonna.
Durante la guerra il P.E.N. americano, appoggiato da Somerset Maugham, tentò di organizzare sotto la propria guida un “P.E.N. europeo in America”.
Questo suscitò profondi risentimenti a Londra dove, nonostante i bombardamenti, una gran quantità di centri P.E.N. era attiva. Molti dei loro membri erano sbarcati in Inghilterra portando in salvo gli archivi. Si decise di tenere un congresso a Londra, a cui presero parte i centri catalano, ceco, norvegese, polacco, yddish, austriaco, tedesco, belga, olandese, greco, romeno, ungherese.
Durante la guerra il Comitato del P.E.N. continuò la propria attività, affrontando i problemi della scarsità di carta e di come aiutare gli esuli. Dopo il 1943, quando cominciavano a trapelare notizie di atrocità in Europa, il P.E.N. prese più volte una posizione pubblica.
Dopo la guerra vi fu un’abbondanza di scrittori rifugiati in condizioni di disagio, e il P.E.N. attinse da ogni fondo disponibile per assisterli.
Ricordiamo alcuni di tali avvenimenti. Nel 1947 venne formulato un appello di appoggio agli scrittori greci e venne mandato un messaggio al presidente del Cile per chiedere che Pablo Neruda potesse lasciare il paese. In seguito a questo appello Neruda poté trasferirsi in Uruguay.
Nel 1949 altra protesta indirizzata al governo greco. Nel 1950 contro il maltrattamento dei prigionieri politici in Iran.
Negli anni 50 lo scrittore ungherese Paul Tabori propose la formazione del “Writers in Prison Committee” (Comitato scrittori in prigione), che cominciò a funzionare nel 1960. Amnesty International seguì sulle tracce del P.E.N. nel 1961.
Nel luglio del 1959, su proposta del romanziere austriaco Robert Neumann, nel corso del Congresso di Francoforte veniva presentato ufficialmente il centro P.E.N. della Svizzera Italiana e Retoromancia. Il primo Presidente fu Piero Bianconi, Vice Presidente Francesco Chiesa. I Presidenti successivi furono: Andri Peer, Giovanni Bonalumi, Grytzko Mascioni. Attualmente la carica è retta da Franca Tiberto coadiuvata nella Vice Presidenza da Gilberto Isella ed Alice Moretti.
Nel 1967 Michael Scammell, il traduttore di Solgenitzin, fu fatto Presidente del Comitato. Il Comitato non si limitò solo a formulare proteste, ma si dedicò anche alla raccolta di informazioni. I centri cominciarono a nominare scrittori prigionieri membri onorari e ad adottarli, preoccupandosi di tenere i contatti con loro e con le loro famiglie e di assisterli in modo concreto, sia finanziariamente sia organizzando un patrocinio legale. A tale scopo venne organizzato in Olanda il Fondo di Emergenza Pen, che è costretto a funzionare con la massima segretezza per proteggere i propri corrieri.
Nel 1985 Harold Pinter e Arthur Miller si sono recati in Turchia, dove la situazione degli scrittori incarcerati era particolarmente grave. In conseguenza di quanto i due hanno potuto appurare, alla Turchia è stato negato l’accesso alla comunità europea. Pinter si è anche fatto promotore di ripetute proteste presso il governo israeliano per la chiusura delle scuole nei territori occupati e le continue persecuzioni di cui sono fatti segno intellettuali e giornalisti palestinesi.
Nel 1987 a Lugano, su iniziativa di Grytzko Mascioni, fu organizzato il 50° Congresso Mondiale che vide la presenza di ben 850 scrittori di 70 paesi. In quella occasione si parlò del tema “Scrittori e letteratura di frontiera”. Il Congresso si concluse con la “Dichiarazione di Lugano”, che faceva appello alla libertà d’espressione e al diritto di ogni minoranza di affermarsi in quanto tale.
L’INTERNATIONAL P.E.N. ha al suo interno diversi Comitati che operano su tematiche specifiche: il Comitato Scrittori in Prigione (WiPC), il Comitato per la Pace (WfPC), il Comitato per le Traduzioni e i Diritti Linguistici (CfTLR) e il Comitato delle Donne Scrittrici (IPWW).
Il Comitato Scrittori in Prigione, che è quello di maggior rilievo, pubblica periodicamente un fascicolo (Caselist) contenente i nomi e le accuse incriminanti di tutti gli scrittori incarcerati di cui si sia riusciti ad avere notizia.
Nel 1999, è stato fondato, in seno al Centro P.E.N. della Svizzera Italiana e Retoromancia, il Comitato Scrittori in Prigione , ora Presieduto da Chiara Macconi.
Con le sue risoluzioni, presentate puntualmente ai congressi mondiali, è uno dei più attivi
in seno all’organizzazione internazionale.
Il P.E.N. della Svizzera italiana e retoromancia ha adottato nello spirito del PEN due scrittori: il poeta cinese Xue Deyun, recentemente liberato e la scrittrice Sihem Ben Sedrine, che ha lasciato la Tunisia per motivi di costrizione alla libertà d’espressione da lei espressa con varie pubblicazioni. In Europa, gode attualmente della protezione di Amnesty International e del WiP del PEN International.

Nell’ambito del Congresso Mondiale di Berlino (maggio 2006) è stato eletto il nuovo Search Committee in appoggio al Comitato Executivo che vede tra i membri Hector H. L. Banda, Zambia, Emile Martel, Quebec, Lucy Popescu, England, Judith Rodriguez, Australia, ed è presieduto da Franca Tiberto, Presidente del nostro centro.
Presidente internazionale è stato riconfermato lo scrittore slovacco Jirii Grusa. 

31.03.2003 - Riflessione sulle nostre libertà - Daniele Dell’Agnola da “il biaschese” riflessioni

Fu la scrittrice londinese Amy Dawson Scott che nel 1921 fondò un club denominato Poets, Essayists, Novelists. Ne aveva fondati altri, ma questo avrebbe conosciuto un’importante continuità nella storia del ventesimo secolo. Sono membro del PEN da poco e mi accorgo che questa associazione è importante. Infatti il PEN si impegna anche a difendere i diritti di scrittori che sono rinchiusi in un carcere o condannati a morte.
Questo grande club di poeti, saggisti, narratori, drammaturghi e curatori ha sempre agito su un territorio internazionale. L’opinione pubblica è abituata alle organizzazioni internazionali. I mass media hanno abituato i destinatari ad un linguaggio di parole e immagini “mondializzato”. È possibile che i giornali dimentichino alcune notizie economicamente poco determinanti? Quanti paesi sono “dimenticati” nelle loro guerre e nei loro drammi?
Ieri l’altro un tizio mi ha fatto notare che un’associazione di scrittori internazionale può impegnarsi per liberare uno scrittore messo a tacere in una cella, condannato a morte, ma in realtà la cosa non fa sensazione, non fa notizia.
Allora credo vada fatta una riflessione. In un momento nel quale la globalizzazione significa anche assenza di un vero territorio di appartenenza sociale, di riferimento culturale, dove le leggi sono sempre più dettate dall’economia e meno dalle usanze dei popoli, dalla loro cultura, il PEN agisce a livello internazionale toccando quei micro-territori nei quali uno Stato totalitario delimita ingiustamente le libertà di espressione e di azione, laddove i poeti e i prosatori del ventunesimo secolo sono messi a tacere in una cella, condannati a morte.
Nel 1921 era eccezionale pensare ad un club internazionale, nel momento in cui la prima guerra mondiale aveva lasciato nazionalismi precursori di un secolo orrendo. Oggi tutto è più marasma, miscuglio e poltiglia. È utile focalizzare l’attenzione su quei territori delimitati in cui l’ingiustizia prende corpo.
Ho sott’occhio Scrittori dal carcere, antologia PEN di testimonianze edite e inedite, prefazione di Josif Brodskij, a c. Siobhan Dowd, ed. Feltrinelli, Milano 1998. Leggo alcuni brani scritti da queste menti dentro ad un tempo e ad uno spazio che non è il nostro. Uno scrittore deve fare i conti con il tempo, con lo spazio, con la memoria, a volte con le relazioni.
“Il letto, il lavandino, il W.C., la finestra con le sbarre … poi ci si accorge di non avere nessun pezzo di carta”. 1937. Arthur Koestler. Siamo in Spagna. La distruzione di un prigioniero inizialmente non è materiale, ma psicologica, ed è proprio nella mente che lo scrittore agisce.
Ci sono due elementi fondamentali, negli scritti contenuti in questo libro. Si tratta del tempo e dello spazio. Nello spazio lo scrittore vede la chiusura e pochi oggetti. C’è il cemento, una luce gialla, il muro grigio (Dennis Brutus, Sudafrica, 1963), il letto, la finestrella con le sbarre. Dentro a questo spazio limitato c’è una vastità di tempo. Un tempo infinito dentro allo spazio piccolo. “Le cose dovranno continuare nei minuti seguenti, nelle ore, nei giorni, nelle settimane, negli anni. Per quanto tempo è già stato nella cella? Guarda l’orologio: esattamente tre minuti.”(Koestler) La contrapposizione è forte e terribile. Nello spazio sentiamo l’ambiente furente di Mikuyu, dove troviamo “celle sfatte che fetono di merda/ e vomito nel pitale e dell’urina acre d’anni passati … chi avrebbe mai pensato che mi sarei trovato a fissare i soffitti / polverosi di ragnatele della prigione di Mikuyu”. Questo testo di Jack Mapanje, dell’1987 circa, trasmette anche in traduzioni suoni forti, spazi minuscoli e tempi lunghissimi. Continuo la lettura e scopro un tempo “destinato a durare” gettato “nei barattoli” (Irina Ratusinskaja, Ex URSS, 1982-1986). Sei metri quadri, quattordici uomini, per mesi e mesi. “Tempo, quel tempo dilatato che incombe sopra di me nella cella, opprimendomi. Il tempo, pericoloso nemico dell’uomo quando la sua esistenza, durata ed eternità sono quasi impalpabili”. E così, potrei continuare, a cercare questi suoni lunghi, chiusi, dentro all’angosciante spazio piccolo della vita di un prigioniero, giaciglio di scrittura e speranza.
Mi chiedo quanti scrittori sono riusciti a scrivere dentro al carcere, quanti sono riusciti a scrivere anche senza scrivere, ma pensando, quanti invece si sono svuotati completamente, nel pensiero e nella materia.
Lo scrittore in carcere può essere solo, e la solitudine è forse l’arma del poeta. Il motivo della scrittura può essere rintracciata in una sofferente solitudine. Lo scrittore in carcere può essere circondato da suoi simili, e allora il motivo di vita e di narrazione diventa la relazione con questi compagni di cella, sofferenti quanto lui. La salvezza può annidarsi nella vena narrativa dello scrittore, che racconta e si fa raccontare. Uno dei molti brani che accentuano questa relazione è quello di Aleksàndr Solzenicyn (ex URSS, 1945-1953) dal titolo Prima cella, primo amore.
Il poeta e il prosatore possono forse distinguersi all’interno di questi spazi terribili. È un’ipotesi che Josif Brodskij formula nella prefazione al libro.
Oltre a questo annotiamo l’assenza dei mezzi per la scrittura. In prigione non ho carta e penna. La sola risorsa può essere la memoria. La memoria e il pensiero possono contenere messaggi sognati, ondeggiati, pensati all’infinito nel tempo, maturati dentro. Allora, se il PEN riesce a salvare questi scrittori, la loro memoria tradurrà finalmente su carta queste verità. La memoria. Mi chiedo quanti scrittori hanno trovato strategie mnemoniche per ricordare le loro creazioni. Ritmo, rime, sequenze. Strutture. Giochi di forza che mantengono in vita.
Leggo una poesia dal titolo Castigo, scritta da un certo Ahmad Shamloo e tratta da un libro pubblicato nel 1959: The Garden of Mirrors (traduzione italiana di Damiano Abeni). Ahmad Shamloo è un poeta iraniano nato nel 1928. Prima della caduta dello Scià, nel 1979 ha pubblicato la poesia Il gioco è finito. Ricordiamo anche Una poesia, cioè la vita. È uno scrittore che si è trovato nei guai prima e dopo la rivoluzione che ha portato al potere l’ayatollah Khomeni. È stato arrestato, è stato costretto a fuggire. Oggi vive a Teheran. Con Reza Baraheni, altro intellettuale iraniano nato nel 1935 e professore di inglese all’università di Teheran, ha firmato un appello per la fine della censura. (Pensate che la poesia Colombe, di Baraheni, è stata incisa sulle pareti della cella, nel 1973, perché carta e penna non erano disponibili. Baraheni rimase centodue giorni in cella d’isolamento!)

Castigo

Qui c’è un labirinto di prigioni
in ogni prigione miriadi di sotterranei
in ogni sotterraneo innumerevoli celle
in ogni cella schiere d’uomini in catene.


Uno di questi uomini
convinto dell’infedeltà della moglie
affondò profonda la daga


Un altro di questi uomini
in cerca disperata di pane per i figli,
fece una carneficina
nella calura infocata del mezzogiorno estivo.


Alcuni di questi uomini
un giorno quieto di pioggia
assalirono l’usuraio.


Altri, nel silenzio del vicolo,
si mossero furtivi sui tetti.
Altri ancora
razziarono denti d’oro da tombe fresche
a mezzanotte.


Ma io, io nessuno ho assassinato
In una notte scura e tempestosa.
Ma io, io mai ho assalito l’usuraio.
Ma io, io non mi sono mosso furtivo sui tetti.


Qui c’è un labirinto di prigioni
in ogni prigione miriadi di sotterranei
in ogni sotterraneo innumerevoli celle
in ogni cella schiere d’uomini in catene.


Ma io, assorto in fantasticherie,
non porgo mai loro orecchio. No,
cerco invece di ascoltare fuori l’eco flebile
della canzone infinita: l’erba del deserto
che spunta, avvizzisce, si secca,
si disperde nei venti.


E io, non fossi un uomo in catene,
un giorno all’alba,
come un ricordo vago quasi sepolto,
lascerei questo luogo freddo, spregevole.

E questo,
questo è il mio delitto.

Ahmad Shamloo, Iran, circa 1959

La situazione pare infinita e senza vie d’uscita. Il tempo dei peccati, commessi nel mezzogiorno caldo, nel giorno di pioggia, nella silenziosa o tempestosa notte, a mezzanotte, è scandito lungo la poesia. Questi umani sono in castigo perché, spinti dalla miseria nel corpo e della mente, hanno commesso degli errori. Il poeta, invece, ha camminato per le vie della fantasia e del pensiero, ha ascoltato fuori l’eco flebile della canzone infinita. Canta e sconta il suo castigo perché, spinto dal pensiero, ha detto, ribadito, scritto le sue opinioni: questo è il suo delitto. Un giorno, all’alba, lascerà la cella fredda e spregevole.

Daniele Dell’Agnola

http://www.pensvizzeraitaliana.org/sezioni.php?id=1

 
 
 

Basquiat, oltre i graffiti

Post n°7 pubblicato il 23 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: ARTE

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Jean Michel Basquiat non fu soltanto un graffitista. Jean Michel Basquiat ebbe la capacità di andare oltre le mode, oltre i movimenti che negli anni ’80 affollavano le gallerie borghesi della New York sempre alla moda e sempre alla ricerca di qualcosa che potesse divenire uno status symbol. Che l’oggetto del “culto” fosse artistico oppure no, ad un tratto, non ebbe più importanza. In un mondo completamente trasformato dal capitalismo, in un mondo in cui anche l’arte divenne fonte di denaro e di nient’altro, emerse la figura di un artista a dir poco geniale, di un poeta della pittura, di uno scrittore di immagini. Basquiat giocava con i colori, giocava con le forme modellandole velocemente, come in una danza tribale. Giocava anche con la vita e, morendo, si prese gioco di quella gente che voleva la sua creatività, che pensava di poter comprare le sue idee e la sua fantasia.

L’artista era solito dipingere una miriade di simboli difficilmente interpretabili, perché così era il mondo come lui lo vedeva. Nessuna delle sue figure ha una personalità, perché nessun essere umano da lui incontrato e conosciuto ne aveva una, secondo lui. Nessuno dei volti da lui dipinti ha uno sguardo perché, se lo avessero, sarebbe immediatamente percepibile l’assenza di un’anima. Basquiat l’aveva un’anima ma la tenne nascosta per non farsi rubare anche quella, e la mandò via, dolcemente, per non farle patire i dolori del materialismo, dell’indifferenza, e dello sfruttamento.

Camilla Cannarsa, rivista  IL PENDOLO

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http://www.triennale.it/triennale/sito_html/basquiat/sito/index.html

 
 
 

Alberto Giacometti

Post n°6 pubblicato il 22 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: ARTE

"Un giorno quando stavo disegnando una giovane ragazza, all'improvviso ho notato che tutto ciò che era vivo in lei era il suo sguardo. Il resto della sua testa, non era per me che il cranio di un uomo morto. Uno vorrebbe scolpire una persona vivente, ma ciò che la rende realmente viva è senza dubbio il suo sguardo... Tutto il resto non ne è che la cornice"

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Il disegno, per Giacometti, era l'atto fondatore della sua stessa scultura; lo strumento mentale più efficace di una ricerca incessante volta a scavare nell'oggetto fino a catturarne l'essenza. Tentativo che l'artista definiva immancabilmente fallito, ma che ai nostri occhi appare come un miracoloso labirinto di linee nervose e contorte, incerte tra la distruzione del pieno e la costruzione del vuoto.

Mi sembra di ricordare perfettamente bene la mia faccia tosta quando, dopo aver guardato una sua scultura, dissi a Giacometti che a me piacevano i suoi disegni.
"E i quadri?", chiese Alberto.
"Oh, certo. Non dimentico i quadri. Ma i tuoi quadri sono sempre dei disegni. C'è il quadro, ma tutto l'insieme, la traccia, sta nel disegno. Non so se mi sono spiegato".
"Ti sei spiegato benissimo, ma non capisco perché resti abbastanza assente di fronte alle mie sculture".
Risposi che non c'era un perché. Ma restava quell'idea, per me ben fissa nella testa, che il suo modo di disegnare fosse unico. Tanto è vero che in molti gli sono andati dietro. Come Cartier Bresson, che sa disegnare e forse vede l'aria sui fogli, come la vedeva Giacometti. E Balthus, che non copia minimamente il suo grande amico Alberto Giacometti ma ne tiene conto. E non a caso, nello studio della sua casa svizzera di Rossinière, poco lontano da Gstaad, Balthus tiene appesa una sola fotografia, grande, ben visibile: quella di Alberto Giacometti.
E adesso cosa racconto, di nuovo, sui suoi disegni? E ne sarò capace? Posso dire che la prima, o le prime, cose che ho acquistato di Giacometti sono state tre acqueforti: il ritratto di Rimbaud, e le altre due sono figurine nello spazio. Non avevo denaro e non potevo fare di più: perché un'acquaforte, o una lito, sono pur sempre il ritratto dei suoi disegni. E Alberto difficilmente si muoveva senza carta e matita litografica perché la necessità di disegnare il ritratto dello spazio lo teneva sveglio. L'ho visto lavorare, a Parigi come a Stampa o al ristorante, o quando stava al telefono.

Disegnava l'aria su qualsiasi pezzo di carta, sulle buste delle lettere che gli erano appena arrivate: ma poiché tra le sue dita c'era una matita a mina dura o una biro, quell'aria diventava una stanza, un tavolo, un lume sospeso, la montagna appena sopra il villaggio di Stampa, le mele in un piattino, l'albero e la figura di un uomo che guarda in su - questi disegni dell'uomo che guarda in su sono stati fatti con le matite colorate -, o sua moglie Annette che se ne sta semisdraiata su una brandina.
Il risultato era non tanto la fragilità di quel segno, che spesso era attraversato da altri segni, ma le correnti d'aria che davano all'interno dei suoi fogli la leggerezza più resistente che si fosse mai vista.
Non dimentico che quando Picasso inventava la sua Suite Vollard aveva un segno sottile, perfettamente lineare che andava a chiudersi intorno alla figura, ai capelli, agli occhi, al viso: ma la sottigliezza inventata da Giacometti aveva un altro spessore. Per esempio non era classica, non era greca, come fatalmente Picasso intendeva che fossero le sue acqueforti della Suite Vollard. Giacometti, nei disegni, ha inventato - credo di averlo già detto ma mi ripeto volentieri - i fantasmi più resistenti della storia dell'arte, gli unici fantasmi con i quali possiamo fare conversazione.

E la conversazione con Alberto era delle più emozionanti perché Alberto era ingordo di sapere. Era anche ingordo di come fossero l'aria e la luce quando usciva dallo studio e si guardava intorno. Guardava l'aria, ne traeva profitto, infilava nella memoria quei dati, e li teneva stretti perché non si perdessero. I poeti hanno sempre fatto così. Eugenio Montale se non aveva uno spazio libero sul cartoncino dei fiammiferi Minerva era perduto. Come si fa a ricordare se la memoria sta già rincorrendo un'altra cosa? Bisogna sempre scrivere, prendere appunti. Giacometti prendeva appunti che, molto spesso, diventavano delle conversazioni con chi stava disegnando. La memoria faceva conversazione con lui: e lui disegnava, tracciava...
La grazia di un artista ha a che fare con la sua bravura? Può esserle parente?
Me lo chiedo adesso perché mi sono tornati in mente i ritratti che Giacometti ha fatto ai figli di un grande personaggio londinese, sir Robert Sainsbury, un collezionista e appassionato d'arte che si è concesso il lusso di finanziare la costruzione della New Wing della National Gallery di Londra.
Be', sotto uno di quei disegni c'è scritto come dedica, cito a memoria: "Mi dispiace di non aver saputo fare di meglio e sono convinto di aver fallito, ma posso ritentare alla prossima occasione e spero di migliorare: ma in questo momento sono incapace di disegnare" (segue la data del 3 dicembre 1955, e la firma: Alberto Giacometti).
Ecco questa dedica è il lato, il versante della grazia nella quale Giacometti sapeva muoversi. Figuriamoci se quei disegni non erano belli, lo erano; e io li ho visti in casa di Sainsbury, guardandoli con grande attenzione perché tutto quello che è stato disegnato nella testa di quella ragazza Sainsbury è il romanzo dei pensieri che le passano per la testa.

Giorgio Soavi

 
 
 

"L'arte è una bellissima donna", Giuliano Grittini

Post n°5 pubblicato il 21 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: MOSTRE

immagineSPAZIOTINDACI ospita per la prima volta a Padova la personale di Giuliano Grittini “L’arte è una bellissima donna”. Questa mostra, che comprende circa una ventina di opere, vuole essere un omaggio alla Poetessa Alda Merini che a Grittini è legata da un rapporto di profonda amicizia.

Giuliano Grittini nasce e vive a Milano dove ha frequentato la scuola di Disegno Grafico ed alcuni studi di importanti artisti, apprende la tecnica della litografia, serigrafia ed acquaforte , nella quale si specializza. Approfondisce l’arte della stampa e realizza e stampa opere di grandi artisti tra i quali: Baj, Fiume, Sassu, Guttuso, Scanalino, Tadini, Warhol, Vasarely, Rotella, Chia, Cucchi, Ugo Nespolo ed altri. Appassionato di fotografia, frequenta studi di artisti e li fotografa in varie fasi del loro lavoro e durante le mostre in gallerie d’arte.

Proprio la passione per la fotografia spinge l’artista a catturare e documentare ogni cosa che colpisca la sua instancabile attenzione, e da ciò nasce l’immensa carica espressiva dei suoi ritratti.

L’amicizia tra Grittini e Alda Merini nasce con una serie di 12 foto di nudo scattate dall’artista alla Poetessa con l’intento di “dare scandalo”, come spiega Lei stessa, “uno scandalo più cupo dei manicomi”, per documentarne la tragedia e la tortura . Da allora Grittini non la lasciò più.

“Il fotografo rivaluta la figura . La differenza tra un fotografo e un comune artista sta nel fatto che un qualsiasi soggetto può diventare alter ego dello stesso soggetto dando vita a un personaggio al quale il soggetto stesso deve rimanere fedele. E’ questa la grande fatica dell’immagine che sta esattamente alla divina sapienza come il sospiro sta all’amore. Niente è più deleterio dell’immagine e niente è più resistente. Il fotografo consegnerà ai posteri una sua interiorizzazione, una realtà che spesso sfugge alla persona stessa. E’ questo il mistero della fotografia che ha reso celebri molti poeti e molti artisti.”In questo modo Alda Merini, parlando dell’amico Grittini, comprende e disvela perfettamente il senso della sua opera. L’Artista attraverso le fotografie e le tecniche miste ruba l’anima dei suoi soggetti, ne racconta sensazioni e stati d’animo spesso inconsci, creando così quel nuovo personaggio che, come dice la Poetessa , vive di vita propria.

Grittini narra emozioni vere, che vengono dalla parte più profonda ed autentica del cuore, perché è la stessa del sogno, ci regala piccoli pezzetti di vita e di poesia di Alda Merini, ed è per condividere con la città queste emozioni che SPAZIOTINDACI ospita la mostra il cui titolo, “L’arte è una bellissima donna”, è tratto da una aforisma che la Poetessa ha dedicato all’Artista.

Arti visive e poesia sanno parlare all’anima delle persone per mezzo di un meta-linguaggio universale. Alda Merini e Giuliano Grittini riescono a cogliere l’essenza della realtà e attraverso la loro opera rappresentano in qualche modo la Storia, possono fermare il flusso del tempo e trasformare la poesia, la fotografia, il ritratto in qualcosa di eterno e immortale.

spaziotindaci@tindaci.com 

 
 
 

Mario CaviglieriRovigo, Palazzo Roverella - 11 Febbraio - 1 Luglio 2007

Post n°4 pubblicato il 21 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: MOSTRE

immagineFinalmente Mario Cavaglieri. Una vera retrospettiva su di lui mancava da molti anni e a colmare la clamorosa lacuna provvede la città in cui è nato, Rovigo, con una mostra ampia in cui i suoi selvaggi “colori primordiali”, che sconvolgono ancora i sensi raccontando di belle donne e di salotti mondani, si confronteranno con i toni più morbidi delle tele con cui nel suo rifugio di Peyloubère descriveva la pacata  bellezza della natura.

A Mario Cavaglieri non sono certo mancati riconoscimenti autorevoli, si pensi per esempio l’attenzione che dedicò all’artista il grande critico d’arte Roberto Longhi, ma mancava un monografica veramente completa. Quella curata da Vittorio Sgarbi e coordinata di Alessia Vedova presenta centosessantadue opere dell’artista, fra cui  un numero consistente di tele che provengono dalla Francia.

Ad ospitare la mostra, voluta dal Comune, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dall’Accademia dei Concordi, sono gli spazi recentemente recuperati di Palazzo Roverella.

Il percorso artistico di Cavaglieri è interamente documentato: dagli esordi padovani insieme a Felice Casorati, alla grande stagione di Ca’ Pesaro e delle Biennali veneziane che consacrarono la preziosa ricercatezza della sua arte, fino ai lunghi anni della suo ritiro nella campagna francese. L’evento è anche una preziosa occasione per rileggere attraverso il fascino e il mistero della sua pittura la storia, le contraddizioni e le diverse influenze dell’arte dei primi del Novecento.

Cavaglieri fu certamente un pittore di raro edonismo, attratto dall’intrinseca eleganza degli salotti mondani fin de siècle; si potrebbe quasi affermare che la sua pittura possiede un incanto letterario: stoffe, cappelli, arredi, orologi, resi con opulenza barocca, sembrano quasi affiorare da pagine dei romanzi dannunziani.

Le opere dei primi soggiorni parigini risentono dell’intima ricchezza degli interni di Vuillard e di Bonnard e degli accordi coloristici del primo Matisse. Quando invece si vanno a considerare i dipinti nati nella sua lunga permanenza nella residenza francese di Peyloubère, si nota che il pittore, quasi inebriato dalla libertà e ormai lontano dalla mondanità degli aristocratici salotti cittadini, si è dedicato a dipingere e disegnare instancabilmente la campagna, gli alberi in fiore, la sua dimora… fondendo bagliori di luci e colori veneti alla pittura di paesaggio dell’amico ferrarese De Pisis.

In tutte le opere colpisce comunque la grande padronanza tecnica e materica dell’artista, capace di rendere quasi in maniera tattile sia gli arredi, che i paesaggi, avvalendosi sempre di quella che Longhi ha definito una tavolozza ricca di “colori primordiali”.

La rassegna è anche un’ imperdibile occasione per scoprire numerosi dipinti inediti dell’artista.

http://www.palazzoroverella.com/

 
 
 

Berangere HaegyEros, Thanatos, Perasma

Post n°3 pubblicato il 20 Aprile 2007 da senz_amore
 

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immagineArtista in residenza all’Istituto Francese, la fotografa plastica di Bérangère Haegy, grazie ad un periodo di permanenza a Palazzo Lenzi in Firenze, ha potuto lavorare sulla collezione di cere anatomiche de “La Specola” (Museo di Storia Naturale di Firenze).
Il risultato è Eros–Thanatos–Perasma, esposizione di immagini inedite che non lasciano indifferenti... 

Seguendo il fil rouge dell’erotismo l’artista ha affrontato il rapporto vivente-inanimato, assemblando immagini realizzate in due tempi. Incrociando i corpi con alcuni campioni di cere anatomiche ispirate a Vésale (famoso anatomista francese del XVI secolo), le nudità castamente fotografate da Bérengère ci rinviano ironicamente al nostro sguardo: “volevi vedermi nuda ...è abbastanza?”

Bérangère Haegy, fotografa plastica e “maquilleuse de l’image” ha esposto a Parigi, Grenoble ed a Napoli, con la personale “Spaccanapoli” 

Bio di Bérangère Haegy

Da ormai molti anni Bérangère Haegy compone le sue immagini digitali attraverso la fusione ed il “maquillage”, a partire da elementi tratti dalla realtà. Elabora così dei complessi montaggi, in cui il reale si confronta al suo immaginario di creatrice, alla sua sensibilità ed ai suoi fantasmi.

Fino ad oggi, la ricerca dell’artista ha portato essenzialmente a delle bambole disarticolate/articolate con inserti di corpi viventi (seni, pancia, gambe, labbra, sguardi…), approfondendo così il tema della femminilità.

Bérangère Haegy pratica ciò che lei chiama “fusione”: grazie a dei sistemi informatici, mischia, assembla, trasforma delle immagini eteroclite. Crea così delle opere provocatorie, che chiamano in causa l’inconscio, il suo così come quello dello spettatore. Da questa vertigine, sgorga l’emozione ed una strana bellezza.
A Napoli l’artista ha lavorato sui volti delle Madonne o su dei Cristi in legno, rivelando così una parte di mistero legata alle credenze popolari partenopee.
L’opportunità che le è stata offerta di poter fotografare le cere anatomiche del Museo della Specola di Firenze, le ha permesso di far evolvere il suo lavoro e di poter cambiare registro. Di fronte alle cere anatomiche, già toccanti in se stesse, non era più possibile praticare la fusione tra «carne e materia». L’artista plastica ha perciò avvicinato esplicitamente il legame che unisce la vita e la morte. Legame che passa attraverso il desiderio e l’erotismo. Eros e Thanatos.

Le opere nate con questa procedura, di grande bellezza formale, creano un effetto sorprendente, che riporta alla domanda essenziale. 

Streaptease
Testo di Daniel Bougnoux 
Professore emerito di Teorie della comunicazione presso 
l’Institut de la Communication et des Médias (Université Stendhal – Grenoble 3)
La frase enigmatica di Georges Bataille, “l’erotismo è l’approvazione della vita anche nella morte”, punta il dito sulla tragedia di un desiderio che può arrivare, a forza di volere il proprio oggetto, fino a distruggerlo. Eros, forza che collega gli opposti o i contrari (il mio corpo è separato dal tuo), dovrà prima o poi affrontare Thanatos, suo specchio crudele, suo smorfioso gemello.

La meditazione dello scorticato o dello scheletro è un luogo comune dell’edificazione religiosa – memento mori e rappresentazione di “vanità”, giustifica la saggezza sarcastica del vecchio – Corneille avvertiva la Marchesa della prossima estinzione dei suoi fuochi. Ma simili anticipazioni possono al contrario eccitare la frenesia degli amanti – non aspettate a giacere, cogliete subito l’eros della vita !

Gran parte dell’amore si gioca a fior di pelle. Erotismo superficiale? Le carezze, lo scivolare del tessuto sulla carne eccitano più della banale nudità. L’uomo è l’unico animale che gode dello strip-tease, ma fin dove condurlo? Uno spogliarello eccessivo finisce per suscitare disgusto. Io amo alla follia la curva delle tue reni, non le interiora, la forma dei tuoi seni, non la ghiandola mammaria… 

I desideri tuttavia non si fermano alla pelle, alla lingua, al sesso, lo sguardo vuole penetrare, addentrarsi in una profondo intrecciarsi. Ed ogni abbraccio oscilla tra le ricerche contraddittorie della superficie e della profondità. Si può amare fino all’osso ? Incrociando i corpi con alcuni campioni di cere anatomiche ispirate a Vésale (famoso anatomista del 1.500), le nudità castamente fotografate da Bérengère ci rinviano ironicamente il nostro sguardo: volevi vedermi nuda ...è abbastanza? E poi ?

di Stefano Scipioni



 
 
 

Edvard Munch, Il bacio Desiderio di amore e paura di amare.

Post n°2 pubblicato il 20 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: ARTE

immagineIl dipinto, un olio su tela (73 x 92 cm) del 1892, oggi custodito a Oslo, al Nasjonalmuseet for Kunst, fa parte, come il celebre "Il grido",di un grande ciclo pittorico, "Il fregio della vita" (1893-1918), un gruppo di opere centrate sul tema del ciclo vita, morte e amore ("Il grido", "Il bacio", "Gli occhi negli occhi", "Vampiro", "Danza della vita"), all'interno del quale compare una tematica più volte ripresa da Munch, quella del rapporto e dell'attrazione tra uomo e donna, interpretata secondo il modulo della sua personale poetica dell'angoscia.

Difficile trovare

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">l'amore, in questo bacio, come del resto in altri 'baci' più volte riproposti dall'artista con variazioni anche nella tecnica utilizzata (olio, matita, acquaforte, xilografia, puntasecca), difficile trovare un sentimento di tenerezza o complicità in questa coppia misteriosa, dove i volti sono nascosti nell'ombra di un abbraccio sensuale ma non gioioso, i corpi avvolti su sè stessi, indistinguibili l'uno dall'altro, avvinghiati in quella che pare più una lotta che un contatto amoroso, in preda ad una passione struggente e malinconica.
Le due figure, tema dominante dell'opera, sono nettamente decentrate, contro ogni canone compositivo tradizionale, letteralmente sospinte verso il margine destro del quadro, ad accentuare un senso di furtività che tutto l'insieme sottolinea ed esaspera: l'ambiente non è certo un contesto romantico, è un locale modesto e disadorno, quasi che l'incontro sia casuale o clandestino, oltre i vetri della finestra si intravvede una via come tante, con vetrine illuminate, qualche passante, probabilmente l'ora tende alla sera, i colori sono piuttosto scuri, le tonalità fredde, tipicamente nordiche, dietro la tenda biancastra le forme indistinte delle due figure avvinte sfumano dal blu al nero verso una zona d'ombra assoluta che si perde oltre il limite della tela.
La perdita di identità che consegue all'impossibilità di distinguere separatamente le due figure strettamente abbracciate esprime sia l'essenza dell'amore, la con-fusione di due corpi, oltre che di due anime, sia il turbamento dei sensi, vissuto come una minacciosa possibilità di perdizione, in senso morale ma anche letterale.

Il rapporto tra uomo e donna si configura così come una tensione bipolare tra desiderio di amore e paura di amare, un rapporto ambiguo espresso dalla fusione fisica tra i due protagonisti non già sull'onda di uno slancio passionale, ma di un reciproco tentativo di annullamento ed assimiliazione (o dissoluzione): solo così Munch può trasferire in un tema ad alto contenuto emotivo, che presuppone uno stretto rapporto interpersonale a lui sempre negato, il doloroso senso di solitudine non solo psicologica o metaforica, ma tragicamente reale in un vissuto personale drammatico e traumatizzante.

Abbandonata la sinuosa eleganza della linea dell'Art Nouveau, che ritroviamo soprattutto nelle numerose acqueforti, Munch adotta un segno sommario e quasi frettoloso, sia per l'ambiente che per le figure, sotto una forte spinta espressionista che preme verso un impellente desiderio di esprimersi, con ansia, con furia, senza il filtro dell'analisi e della ragione: ma, se si tratta di Munch, "L'arte è completa quando l' artista ha detto tutto quello che doveve dire veramente.... " così scrive di lui l'amico e pittore Christian Krohg, e tutto il resto non ha importanza.

di Vilma Torselli

 
 
 

Pandora

Post n°1 pubblicato il 20 Aprile 2007 da senz_amore
 
Tag: MITI

immagineSecondo il mito, nell’età dell’Oro, la donna non esisteva. E non esisteva nemmeno la Morte. Con la creazione della donna, da Pandora in poi, l’età dell’oro si è dissolta. Peraltro anche nella cultura ebraica è una donna a causare la fine dell’Eden. Questo viene irrimediabilmente a dire che, mitologicamente, femminilità e morte sono nate insieme. Già in Esiodo troviamo l’idea che esista una complicità tra le forze notturne della donna e le doti di seduttrice che la donna ha insite nella sua natura. Si sente, nell’elemento femminile, una forza che, emergendo dai suoi occhi umidi, come quelli di vacca, e dal suo sguardo, è in grado di infiacchire o addirittura paralizzare la virilità dell’uomo. Sono i tratti di Medusa presenti naturalmente in ogni donna, che agiscono come arma annichilente, propriamente di morte, secondo le bellissime parole di Alcmane: “ Attraverso il desiderio che scioglie le membra ella ha uno sguardo più dissolvente di Sonno e Morte”. Qui la donna, pur avendo valenza gorgonica, utilizza non più l’arma della mostruosità, bensì, al contrario, quella di una sconvolgente e seducente bellezza. Infatti, la donna che, nell’epica greca maggiormente è simbolo di ciò, è Elena, “assassina di uomini”, il cui epiteto più ricorrente è “boopis”, letteralmente “dagli occhi di vacca”, ossia grandi e languidi, capaci di creare un lago in cui l’uomo annega. Proprio alla bellezza dei suoi occhi, Ecuba e Andromaca imputano la colpa della distruzione di Troia.

Nella mitologia, poi, sono tanti i mostri alati, dal petto e dal volto di donna che, a partire dall’età arcaica, i Greci e i Romani hanno rappresentato sulle loro tombe perché facessero la guardia ai defunti, impedendo la profanazione del sepolcro. Questi mostri sono rappresentati con artigli da rapace e volto inequivocabilmente femminile.

 
 
 

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