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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO

Post n°555 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

...E nelle 2 ore (moltiplicatoxinfinito) di una partita lavora, scrive, legge, sta con gli amici, gioca, sta con il proprio figlio etc etc.

Quello che segue è una parte di un tentativo di romanzo mai finito (non per mancanza di volontà, ma perchè non credo di essere in grado) che solo una persona ha letto.

Come in tutta la narrativa si mescolano fatti realmente accaduti con fatti fantasia. C'è da dire che io non ho una grande fantasia e, in generale, penso che si possa parlare, anche se in maniera trasversale, indiretta, coperta, metaforica etc etc, solo di cose che attengono a chi scrive.

Nessuno (forse solo qualche gruppo di fedelissimi) ci crederà, inoltre, ma in questo abbozzo di lavoro ci sono tutti gli elementi che ispireranno le storie cosentine di Dylan Dog (c'è una scena che è proprio uguale), Martin Mystere (Alarico) e Tex Willer (l'entrata a cavallo).

Considerate che io l'ho scritto nel 2010. Arriveranno altre cose. Vi risparmio quello scritto (oltre a tutto quello fatto per orale, corsi, lezioni), tesi e progetti, perchè sono cose noiose e oltretutto vi intaserebbero i pc vista la mole.

Sinceramente non so se la stesura (considerate che è una bozza) che sto per incollare sia leggibile, ma capire quale sia la più "finita" e comprensibile mi costerebbe troppo tempo. Cominciamo con quello che si può considerare il primo capitolo.

Il protagonista si chiama Stefano (da qui il mio nome su fb e anche per distinguermi dall'omonimo), ma tutti lo chiamano Cet come Cet Baker, proprio perché suona la tromba come lui.

*le parti evidenziate o colorate sarebbero parti da finire. c'erano dei commenti a fianco che ho cancellato.


Cap. 1

Quando vidi per la prima volta Johann Baltis, ricordo che pensai che era il tipico uomo che non avrei mai conosciuto in vita mia e, soprattutto, che non avrei avuto nessun interesse a conoscere. Figurarsi se avrei mai pensato di vederlo in una città del profondo sud d’Italia come Cosenza. Già allora, Baltis era uno dei tre uomini più ricchi del mondo, uno per cui la parola “impero” non riusciva a esprimere del tutto quello che aveva costruito partendo da zero, passando per tutti i gradini della scala e compiendo tutti i passaggi della mitologia del self made man, dallo strillone all’uomo hamburger, dal lavapiatti all’uomo dell’ascensore. Ed era uno capace di sotterrarti con il solo suono della sua voce.

Quel poco che si sapeva del suo passato era la versione che ne riportavano i rotocalchi e le riviste finanziarie e scandalistiche di tutto il mondo e stava tutto in un cognome di origine rumena, della più pura nobiltà rumena, i Balti, la comunità più importante fra quelle di origine celtica che nel corso dei secoli erano migrati dalla regione scandinava fino alle pianure dell’Ucraina.  I suoi antenati, finiti in disgrazia dopo la prima guerra mondiale, preferirono emigrare nel nuovo continente piuttosto che subire l’umiliazione di essere costretti a lavorare per vivere nel paese di cui si consideravano fondatori e a cui avevano dato grandi e illustri regnanti. Almeno questa è la versione che il padre di Johann ha sempre dato a suo figlio e quella che suo figlio, una volta diventato uno degli uomini più ricchi e potenti del globo, ha tenuto ad accreditare come vera. Un giovinetto, biondo e magro come un giunco, che, fra stenti e privazioni, sogna di antenati che fieri su cavalli bianchi costeggiano il grande Danubio alla conquista del mondo, ecco quello che era stato Johann Baltis. Che fosse l’ennesimo riccone alla ricerca di quarti di nobiltà o la semplice verità, era con quella versione che bisognava fare i conti e con tutto quello che ne discendeva, a cominciare dal fatto che tutti quelli che avevano a che fare con lui si accorgevano immediatamente di avere di fronte un uomo con un sogno, inventato o reale che fosse. Un sogno colorato del blu del Danubio, il sogno di tornare a cavalcare fianco a fianco a quel fiume, di nuovo da imperatore. Anzi, da padrone del mondo, questa volta.

Nessuno si sarebbe aspettato di vedere lui e il suo sogno annegare nello stesso posto dove una leggenda vuole si fosse fermato quella di Alarico, re dei Goti, suo più illustre predecessore, seppellito con tutto il suo tesoro, circostanza che già da sola basterebbe a rendere inverosimile quanto è stato tramandato.

 

Sono rimasto in quella azienda fino a tre mesi fa: la mia esperienza lavorativa con la Mundus si è conclusa infatti la mattina del 21 novembre dello scorso anno, il 2005. Ormai arrivavo in ufficio sempre più incazzato, sapevo già che mi sarei imbattuto prima in un Team Leader e poi in un Trainer Motivazionale. O viceversa,  tanto era lo stesso: li odiavo tutti, quegli imbecilli che pensavano che stavano dando il 110%, non ce n’era uno che mi fosse non dico simpatico, ma almeno indifferente. Il mio umore diventava ancora peggiore quando incontravo Mancuso, il campione delle vendite. Era un tipo basso con gli occhiali e quattro peli sul mento, che lisciava in continuazione, così pochi da non meritare l’appellativo di pizzetto, peli che facevano pendant con i pochi capelli rimasti che gli stavano impennati sul cranio di ragguardevoli dimensioni. Nonostante il suo aspetto, Mancuso sarebbe riuscito a vendere il prodotto anche a un moribondo, magari spiegandogli che sarebbe servito per tenere pulita la bara. L’orgoglio dell’azienda, il primo della classe, quello che fa notare al professore che l’esercizio è sbagliato, ma solo al professore che è in una situazione di debolezza come ero io quando ero il suo diretto superiore. E servile, come un esercito di camerieri in livrea, con i potenti. Un tipo da strozzare con fil di ferro insomma, un tipo che, ahimè, faceva anche proseliti.

Ma a parte Mancuso e i suoi epigoni, fin dal primo giorno avevo avuto strane sensazioni, come quando ti presentano uno e ti fa una cattiva impressione. E l’esperienza mi aveva insegnato a fidarmi della prima impressione. Non riuscivo a definirlo, ma c’era qualcosa di strano. Dopotutto, ci sono aziende di sigarette, chi vende superalcolici, c’è chi scarica materiali radioattivi, chi traffica in armi, c’è insomma chi fa le peggiori porcherie, quelli volevano soltanto aiutare le massaie a pulire meglio le loro case, ma ogni volta che parlavo con uno di loro mi sentivo come se avessi un palo ficcato nel culo.

All’inizio mi avevano messo alle vendite, ma dopo un po’ si sono accorti che “non credevo abbastanza nel prodotto”. La verità era che non ero invasato come gli altri. Nel momento in cui sono successi i fatti che sto per raccontarvi, mi avevano messo alle risorse umane. Selezionavo i futuri invasati. Ma neanche qui corrispondevo alle esigenze dell’azienda, non andavo bene perché tendevo a prendere quelli più sani di mente. Quelli che non erano pronti a vedere il lavoro come una missione, quelli che avevano dubbi, quelli che nei test, alla domanda su chi erano le persone più importanti della tua vita, non mettevano la X su quel cazzo di robottino. Persone non cose.

A metà mattinata di quel 21 novembre, il capo mi convocò nella sua stanza. Alberto Sesti, per la verità, non era come gli altri. Si era laureato alla Bocconi a pieni voti ed era destinato ad una brillante carriera di manager, se non fosse rimasto coinvolto in una storia poco chiara di molestie sessuali con una dipendente, qualche mese dopo aver cominciato a lavorare a New York, nella sede centrale della stessa multinazionale. Solo grazie all’intervento del padre, un famoso e potentissimo neurochirurgo di Milano, la storia fu messa a tacere e Sesti fu trasferito in una filiale con sede nel profondo sud dell’Italia. Ovviamente, tutto lascia tracce ed è per questo che riuscivo a salvare il lavoro, nonostante ne combinassi di grosse. Il mio amico Ale, giornalista di una piccola testata locale, ma per anni ad un grosso quotidiano nazionale, conosceva il suo segreto e lo teneva un po’ per le palle.

Immaginate come può essere carogna il tipo ‘giovane rampante’ quando sa che non ha più niente da ‘rampare’. Più che altro mi dava l’idea di un rampicante. Su un muro fatto di corpi umani. Uno di quello che per il successo, non solo ucciderebbe la mamma, ma ci salterebbe pure di sopra con la trombetta e i coriandoli. Ogni volta che lo vedevo mi ricordava la spocchia di quegli atleti reduci da un grave infortunio, o per qualsiasi altro motivo, costretti a giocare in squadre di categorie inferiori al loro valore.

Entrai nel suo ufficio e lo trovai, come al solito, dietro al tavolo, ampio, in noce, che usava come scrivania. Dietro di lui una libreria bianca, al muro, sul lato destro, delle riproduzioni di Pollock. Avvertii nell’aria un profumo di mela verde che non avevo mai sentito in quella stanza, profumo che però non riusciva a coprire completamente l’odore di sudore e di tabacco, un pugno nello stomaco nell’ufficio di uno come Sesti. Il capo si accorse dell’aria soddisfatta che assunsi dopo aver constatato la presenza di quel tanfo nel suo ufficio e non riuscì a trattenere un leggera smorfia di disappunto. Sarebbe stata impercettibile per tutti quella smorfia ma non per me.

Come al solito, non mi guardava mentre parlava. Faceva sempre finta di scrivere o di leggere qualcosa. “Senta, Biondi, vengo subito al punto, come lei sa, odio perdere tempo. Lei non mi piace e io so di non piacerle. Ma, come lei avrà ormai imparato, io non mi faccio condizionare dalle mie preferenze e simpatie personali: l’azienda ha bisogno di persone valide e lei lo è. Solo questo conta. Lei è con noi da due anni e l’azienda le riconosce delle qualità di molto superiori alla media in termini di capacità di, chiamiamola ‘comprensione psicologica delle persone da selezionare’, ma non può continuare ad usare queste sue indubbie capacità contro l’azienda stessa. Le avevamo già detto che era l’ultima volta che avremmo tollerato i suoi comportamenti disfattisti nonché stravaganti”.

Come sempre, aveva parlato come un libro stampato. Uno di quei libri per manager del tipo ‘Come aver successo in 10 mosse’ o ‘Come inculare il tuo collega di lavoro in una settimana’. Roba da squali con lo stomaco vuoto, insomma.

In effetti l’avevo combinata più grossa del solito: nel giro di una settimana, avevo selezionato i tre individui forse più luridi della città. Anzi, senza forse. Dei tipi che l’ultima goccia d’acqua che avevano visto era stata quella del battesimo. Che per una società che doveva vendere un apparecchio per la pulizia non era proprio quella che si dice una buona idea. Avrei dato anche un tasto della mia tromba per esserci quando si erano presentati nell’ufficio di Sesti.

Tentai una difesa d’ufficio poco convinta del tipo sparando la prima cazzata che mi venne: “Ma il mio è stato uno scherzo”.

“Lo so. Uno stupido, puerile, inutile, scherzo che danneggerà la nostra azienda mettendola sulla bocca di tutti. Lei ancora non ha capito che ha tutto da perdere a fare lo stronzo con noi. Quindi lei dice che è stato uno scherzo. Non ci piacciono i suoi scherzi, non ci sono mai piaciuti, forse pecchiamo di mancanza di humour, ma li troviamo poco divertenti e pericolosi. Lei dice che era solo uno scherzo, a noi qualche dubbio rimane, perché anche gli scherzi più innocenti quasi sempre hanno un fine. E lei fa un’offesa alla sua intelligenza se organizza uno scherzo senza scopo alla sua azienda e ne fa un’altra ancora più grave se continua a ripeterlo per difendersi. Ma se così le piace continuare a sostenere allora sappia che anche il mio lo è. Solo che il mio durerà tutta la vita, almeno per quanto riguarda la Mundus. Se lei ha qualcosa contro l’azienda parli una volta per tutte, così mettiamo il punto finale su questa storia che si è protratta ben oltre il tempo suo. In via del tutto eccezionale, le concediamo un’altra possibilità, rispettiamo il suo diritto di replica. Tre risposte alle nostre tre domande. Perché fa queste stronzate? Che cosa pensa di ottenere? Lei sa di essere disoccupato? E non divaghi come al solito, per favore”.

Si alzò e, con lentezza studiata, si versò del whisky. Stava giocando con me, assaporava il suo trionfo, finalmente gli avevo dato la possibilità di sbattermi fuori. E si concedeva i suoi giochetti; aveva questo vizio di fare le domandine, non ho mai capito se erano frutto di sadismo o se erano l’espressione del suo raffinato humor così diverso e superiore al mio. Fui tentato dal fornirgli una spiegazione raziocinante del tipo che quei tre sarebbero potuti diventare i testimonial dell’efficienza del prodotto, un prima e dopo la cura, ma non volevo dargli una ulteriore soddisfazione. Mi limitai a dire che quella sera avevo bevuto tanto, rimarcando di averlo fatto di sera e non di primo mattino come stava facendo lui. 

“Non ci aspettavamo molto dalle sue risposte. Sapevamo che non ci avrebbero soddisfatto. Lei persevera nel suo errore di mantenere un atteggiamento poco collaborativo e senza senso. Siamo sicuri, lo siamo sempre stati, che lei, con le sue capacità, le sue indubbie qualità, non farebbe fatica a trovare un altro lavoro. Ma crediamo anche che, con l’idea che si ha di lei, che lei ha contribuito a creare dando sempre l’impressione di uno di cui non ci si può fidare, i lavori che le verrebbero forniti sarebbero occasionali e poco soddisfacenti. Ancora meno soddisfacenti di quanto lei consideri questo alla Mundus.

Noi, con lei, siamo sempre stati leali, aldilà della nostra convenienza e contro ogni logica, atteggiamento che ci ha danneggiato in diverse occasioni. Quella che le avevamo offerto era l’ultima occasione, lei ha fatto finta di nulla, non credendoci o infischiandosene, e ha continuato ad agire seguendo una strada che, sinceramente, vede solo lei. Il suo errore consiste, secondo me, proprio in questo: è che lei agisce come se esistesse o potrebbe esistere, un giorno, questa strada. Provi a ragionare diversamente: la strada non esiste, esiste un giorno dopo giorno fatto di gioie e dolori, di ricerca della felicità e di presa d’atto di una inevitabile infelicità, esiste che non si può avere sempre quello che si vuole e si deve accettare la sconfitta. Forse, se lei cambiasse la sua prospettiva, eviterebbe di continuare a fare errori così grossolani, che lei attribuisce, credo, ai suoi sentimenti, ma che secondo noi, invece, nulla hanno a che fare con la sua parte irrazionale, ma sono solo frutto di calcolo, di calcoli, ripeto, errati e anche in maniera grossolana. Talmente marchiani sono i suoi sbagli che, non le nascondiamo, lei ci ha portato spesso a interrogarci sui motivi che la inducevano a farli. Fra le diverse interpretazioni, quella prevalente, contrariamente a quanto farebbe pensare il suo atteggiamento, è che lei pecchi di eccesso di sicurezza, di fiducia nei propri mezzi, caratteristica che le farebbe trascurare le conseguenze del suo operare, anche di fronte alle continue avvertenze e ai recenti ultimatum. Tutto perché risiede in lei la certezza di trovare una soluzione per tutto”.

“Mi risparmi il pistolotto, dottor Sesti, il ruolo di pastore di anime non fa per lei. Le riesce male, lei non vede l’ora che io mi alzi da questa sedia e chiuda quella porta levandole per sempre il fastidio di avermi davanti”.

Fece finta di non sentire la mia provocazione e continuò da dove si era interrotto. Come se avesse deciso di dire in ogni caso quello che si era preparato a dire, sebbene tutto si poteva dire tranne che fosse un uomo schematico. Era solo che aveva deciso di non volermi concedere niente di più di quello che aveva preventivato ed era anche un modo per ignorare le mie osservazioni.

“Ovviamente, siccome un’azienda non può andare costantemente contro i propri interessi, tale cambiamento di prospettiva avverrà, se lei ci riuscirà, all’interno di un’altra azienda. Credo di essere stato chiaro e che non occorrano altre parole, perché vede, non servirebbero, altre parole, caro Biondi, o preferisce Stefano?”.

 Indugiò un attimo, sorseggiando il whisky, forse aspettando la mia reazione, che, contrariamente forse a quanto si era immaginato, non arrivò.

“Lei è fatto così, ha qualcosa dentro di sé che la porta sempre a fare gli stessi errori, come un po’ tutti d’altronde. Lei, in fondo, non riesce a credere che ci siano persone che la vedano diversamente da lei e a cui danno fastidio i suoi modi di fare, anche quando siano indirizzati a non si capisce quale scopo salvifico. A meno che il suo scopo non sia proprio quello di farsi sbattere fuori dalla nostra azienda. Se era questo, ci è riuscito perfettamente e le facciamo le nostre scuse per aver sottovalutato, ancora una volta, la sua abilità. Per una volta allora lei sarà contento della riuscita dei suoi piani e, anche se so che questo le preme di meno, di trovarci pienamente in sintonia con il suo obbiettivo. Ha diritto a una sola replica. L’ultima sigaretta, chiamiamola così”.

Ancora il suo humor del cazzo. Non mi aveva mai permesso di fumare in azienda. “Non mi piace Stefano, ecco tutto”, risposi.

“Che risposta del cazzo. In linea con la sua errata convinzione. Quasi quasi gliene darei un’altra per sentirle dire e fare finalmente una cosa intelligente. Lei è convinto di essere un oppositore del regime, un sovvertitore del sistema. Anche se sono ancora giovane ne ho visti tanti come lei, sa, non creda di essere unico. Ma, mi creda, lei è solo uno che, come tutti, ha le sue ferite. Lei è uno che infrange le regole non perché non creda nel sistema, ma solo per il suo piacere o per i suoi dispiaceri. E quando vuole sa come usare il sistema che dice di aver combattuto e di combattere. Si ritenga libero”.

Sulla porta, prima di uscire, gli dissi: “Ah, dottor Sesti, quasi dimenticavo: Stefano, solo per gli amici”.

Me ne andai senza nemmeno passare dalla mia stanza a prendere le mie cose. Avrei preferito rinunciare a tutto quello che avevo nei miei cassetti, se mi avessero in seguito impedito di rientrare nella mia stanza, ma non stare un secondo in più in quel posto.

“Ancora tempi grigi per te, caro Stefano”, fu il mio primo pensiero uscito in strada, guardando il cielo, un cielo che più di novembre non si poteva. Ma mi venne da pensare che anche il cielo più grigio prima o poi se ne va.

“Ci vuole un colpo di vento, ecco che ci vuole, proprio un bel colpo di vento.


 

 
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