TOMMASO MANZILLO

UN RITORNO ALL’ECONOMIA DI MERCATO CIVILE: IL PERSEGUIMENTO DEL BENE COMUNE (1)


Che la politica economica dei governi italiani degli ultimi anni abbia perso la bussola dei veri principi liberali si era già capito da un bel po’, anche durante le tante campagne elettorali, ma la confusione che sta imperversando per il varo della manovra economica, ancora in discussione, è la conferma di un vecchio modo di fare politica, più vicino ad interessi di una parte soltanto, più forte e determinante, piuttosto che al benessere collettivo. Le linee lungo le quali si sta muovendo il provvedimento sono fondate sull’ipocrisia, sull’insulto contro quelli che sono i veri principi ispiratori di uno Stato liberale, privandolo di un serio progetto industriale di crescita e di progresso, senza spirito innovatore che riporti il sistema verso lo sviluppo economico. Manca il coraggio del liberale! Quell’Albero della Libertà piantato nel bel mezzo della Rivoluzione napoletana, che per decenni ha prodotto e continua a produrre frutti succulenti, da noi oggi cresce su di un terreno arido, che abbisogna di nuova linfa e di essere innaffiato da quell’acqua limpida che sgorga dalle sorgenti liberali che erano dei nostri padri.I debiti eccessivi nei bilanci degli Stati, sono certamente frutto di miope scelte del passato, lontane anni luce dalle logiche liberali, improntate sulla crescita generale e della collettività, piuttosto che ispirate da interessi personali, locali, di partito, che hanno prodotto disavanzi esorbitanti. Questa situazione è sicuramente di ostacolo a quelle politiche di cui oggi necessita il sistema, per superare l’attuale fase congiunturale. Come hanno evidenziato studiosi ed economisti, purtroppo, l’indebitamento eccessivo è sempre seguito da almeno un decennio di bassa crescita, in cui i consumi e gli investimenti ristagnano mentre la disoccupazione aumenta. Tutto questo porta ad un ulteriore rallentamento dell’economia e, di conseguenza, ulteriori difficoltà per la copertura del debito. Ed è in questa fase che servono risorse vere per ridare ossigeno al mondo economico, stimolando la produzione ed il lavoro, premiando tutte quelle iniziative che vanno in questa direzione, risorse che non devono essere viste come spese, piuttosto come investimenti per il futuro: pensiamo alle famiglie, alle imprese, alla scuola, alla sanità, alla ricerca scientifica ed universitaria. Nel pensiero dell’abate A. Genovesi, “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”. L’attività politica-amministrativa dei governi degli ultimi venti anni, almeno, è stata caratterizzata dalla mancanza, come hanno sottolineato numerosi economisti negli anni addietro, di quel modo di agire tipico del “buon padre di famiglia”, perché durante gli anni delle cosiddette “vacche grasse”, ossia la crescita, occorreva approntare tutte quelle riforme che liberassero l’economia da lacci e impedimenti di ogni sorta, per la riforma fiscale e previdenziale, la giustizia, il welfare e altro ancora, creando quegli avanzi di bilancio, linfa indispensabile cui attingere durante il periodo delle “vacche magre”, ossia la depressione. Già nel 1967 Paolo VI esortava i governi perché “lo sviluppo esige trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio. A ciascuno l'assumersi generosamente la sua parte, soprattutto a quelli che per la loro educazione, la loro situazione, il loro potere si trovano ad avere grandi possibilità d'azione”. Purtroppo, i provvedimenti di riparazione vengono sempre adottati a ridosso delle catastrofi. Risorse generate dal risparmio, come diverse volte esortava dagli scranni parlamentari G. Fortunato, per incentivare gli investimenti e la crescita, perché la produzione genera ricchezza e quindi lavoro, non le rendite di capitale, che contribuiscono alla propagazione della speculazione. Ma rimase “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1, 1-3)! E il debito divenne zavorra!Lo storico e politico di Rionero in Vulture (PZ) maturò una decisa posizione liberista sul finire del XIX secolo, quando proclamava una politica tesa al risparmio di spese inutili, per poter meglio canalizzare le risorse così liberate verso gli investimenti pubblici, di cui l’Italia Unita aveva necessariamente bisogno, generando ricchezza, lavoro, progresso. “Il cambiamento di rotta andava riportato, semmai, alla convinzione che, date le mutate condizioni del paese, fosse necessario assumere un nuovo indirizzo politico generale” (Griffo M., Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico): dovrebbe diventare il proclama degli attuali governi dei Paesi liberali, per sintonizzare le loro politiche su sentieri caratterizzanti lo sviluppo.  L’abate Genovesi, strenuo sostenitore delle idee liberali, avrebbe detto che “facilitando lo smercio, si da moto a tutti i prodotti della terra e dell’arte: questo moto, aprendo gli scoli, agevola e accresce il guadagno; e il guadagno è sempre l’esca di coloro che travagliano”. Quindi, una politica che incentivi la produzione e di conseguenza il lavoro, che generi ricchezza attraverso il soddisfacimento dei bisogni, e di conseguenza, la nascita di altri e più complessi bisogni. Lo ha ribadito anche Giovanni Paolo II riprendendo la Sua Lettera Enciclica del 1981 Laborem exercens nel Centesimus Annus (1991) quando afferma che “il lavoro ha una dimensione «sociale» per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, «poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati”.Ma niente di tutto questo avviene. Quella bandiera ormai si è ammainata. Nel corso degli anni, si è sempre attuata una politica di rimando al futuro della soluzione dei debiti di bilancio, e quando l’economia attraversa la fase ciclica della depressione, è duro cercare di risollevarla, se non si intraprendono iniziative che attingano risorse dai bilanci pubblici, le quali, in quel momento, devono essere disponibili per intervenire a sostegno della difficile congiuntura. Ad appesantire la situazione, nel corso del tempo si è imbastita una fitte rete di leggi e strozzature al commercio, tanto che C.A. Broggia afferma: “riposando chi governa nella molteplicità delle leggi, non trascurasse le strade più efficaci, più semplici, e più naturali, per rimediare a i mali, ed alle Contravenzioni, e non causasse nell’istesso tempo un mare di frodi; dal moltiplico delle quali la Polizia in fine si stanca, e lascia che il Mondo vada come sa andare, salvando ogni uno per lo più l’Apparenza”. In questo terreno prende piede la rivoluzione liberale, anche dal fragile tessuto sociale del Sud d’Italia, con illustri protagonisti che hanno portato sempre avanti le istanze della loro gente.Lo stesso G. Fortunato sosteneva che la situazione politica italiana e la stessa questione meridionale erano frutto della scarsa capacità della classe dirigente, imprigionata in logiche e spartizioni locali, mostrando inadeguatezza nella gestione delle risorse pubbliche, senza mettere al centro dei propri fini il benessere economico, sociale e civico della collettività. Diceva, ancora, l’abate Genovesi che “tutti i dritti, de’ quali le persone nascono fornite, non hanno altro fine, salvochè la loro conservazione, e felicità”. C.A. Broggia afferma che “tutti sanno che il Commercio arricchisce i Popoli, e rende forti e robusti gli Stati, e che quanto più i Popoli stessi son ricchi in generale, più stanno contenti, e più di leggieri soffrono i Pesi pubblici, e soddisfano ai Tributi”. Il fine del bene pubblico, la soddisfazione dei bisogni collettivi deve essere il centro catalizzatore di tutta l’attività di ogni governo, che si proclami liberale nelle intenzioni e nei fatti, attraverso un percorso che faciliti la produzione e la commercializzazione della ricchezza di un Paese, premiando chi investe in attività produttive. Liberare l’uomo dallo stato passivo del bisogno, così come affermava K. Menger nei suoi Principi di Economia Politica, deve essere l’obiettivo primario, perché dal suo soddisfacimento deriva benessere e da questo scaturiscono nuovi bisogni cui occorre dare risposte, senza vincoli e legami particolaristici. Occorrerebbe, forse, ritornare ad esaminare e riflettere su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, analizzata da Stefano Zamagni nel suo saggio L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo. Secondo questa chiave di lettura, l’analisi di Zamagni porta a distinguere, così come impostato dalla storia del pensiero economico, l’economia di mercato civile, dall’economia di mercato capitalistica, dove la prima ha come fine il bene comune, da sempre ricercato dall’uomo, “ossia l’etica cattolica, è la logica della reciprocità a preservare il mercato dalle degenerazioni”. La seconda, invece, è caratterizzata dal conseguimento del bene totale, ossia la massimizzazione del profitto, che ha preso piede con l’avvento del capitalismo puro del guadagno facile e nel breve termine, a prescindere da ogni e qualsivoglia patrimonio culturale e di valori morali, largamente inteso. Contro questa logica si schiera Giovanni Paolo II quando afferma, dopo aver riconosciuto la funzione del profitto come buon andamento dell’azienda, che “Scopo dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa”. Si passa così da un economia di mercato civile che aveva la propria mission nel benessere comune, ad una economia di mercato capitalistica, che con la massimizzazione del profitto ha comportato la degenerazione sociale e la perdita di quel bagaglio di valori sociali e morali posseduto dagli individui. Avrebbe risposto Karl William Kapp che “non la massimizzazione del piacere, ma la soddisfazione delle basilari necessità umane o la minimizzazione dell’umana sofferenza a me sembra debbano costituire il principio cardine che guidi le politiche e serva come goniometro dell’efficienza sociale”. Nel 1925 fu Keynes ad affermare che “il capitalismo moderno è assolutamente irreligioso” (Berselli, 2010). Giovanni Paolo II sosteneva che persino l’economia del benessere, dopo aver vinto il marxismo, poggiata sul consumismo sfrenato, mostra “come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali”, portando a “ridurre totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali”. Per questo occorre un ritorno ad un’economia liberale impostata secondo lo schema del libero mercato, attraverso un sistema di regole ben definite, ispirate dal proprio patrimonio storico, valoriale di un popolo, o di una comunità, ripensando il benessere collettivo e ristabilendo quell’equilibrio tipico dei grandi pensatori dell’economia di mercato civile (A. Genovesi, M. Palmieri, P. Palmieri, P. Verri, C.A. Broggia, solo per citare qualcuno). Sono forti e scuotono le coscienze dei più intelligenti le parole, nella  Populorum Progressio, di Paolo VI quando afferma che i popoli privati del minimo materiale soffrono delle carenze materiali, mentre coloro che vivono nell’egoismo, chiusi in se stessi, soffrono più intensamente la carenza morale.Nel pieno dell’era dell’Illuminismo, fu proprio l’abate Genovesi a gettare le basi per le sue lezioni liberali, in un’opera magna, piuttosto che un vero e proprio trattato di scienze sociali, economiche, civiche e politiche, secondo un’impostazione antropologica della missione dell’economia, cui attinse anche il nostro G. Palmieri. Per poter governare, rifletteva Genovesi, “si richiede il Filosofo, ed il Filosofo Politico, e innamorato delle vere cagioni della pubblica opulenza, e prosperità, che sono le Virtù, e l’Arti”. In questa visione, la politica diviene servizio al cittadino, una vera e propria missione che deve svolgere chi si presenta quale servitore del bene pubblico. La straordinarietà del pensiero di Genovesi sta nello stravolgere, ma diremmo pure nel prendere le distanze dal pensiero di A. Smith, nel senso che si passa dal considerare il motore dell’economia quegli spiriti egoistici dell’uomo, che tende all’appagamento dei suoi bisogni, all’idea di uomo come “un animale naturalmente socievole […] per natura compagnevole”, pertanto “ogni membro di una comunità è come ogni membro del proprio corpo, tutti devono soggiacere alla legge per poter garantire la personale conservazione”. Secondo questo pensiero (“ogni uomo è membro della società”, nelle parole di Paolo VI), G. Palmieri introduce il concetto di Amore sociale nell’economia, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello degli altri” (Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli), che fa da sfondo, successivamente, al pensiero della Progressio Populorum “Lo sviluppo integrale dell'uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell'umanità”. E qui ritorna il pensiero di S. Zamagni, quando afferma che i valori del Cristianesimo possono divenire fondamenta del nuovo percorso dell’economia, ispirando l’azione produttrice del bene comune, che era l’obiettivo dei padri del pensiero liberale. Lo affermava Paolo VI (1967): “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d'angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. Valori cristiani che lo stesso pontefice invocava come dovere sulle famiglie, sulle organizzazioni multilaterali ed internazionali in genere. Secondo questa interpretazione, G. Palmieri e A. Smith ci offrono, così, due diverse chiave di lettura, concatenate tra loro, perché l’uomo, perseguendo il proprio fine egoistico, in perfetto stile smithiano, inconsapevolmente, porta tutta la società di cui fa parte verso il benessere diffuso, procurando, in tal modo, il bene degli altri. Questo certamente avrà ripercussioni positive sulle proprie condizioni e sulla sfera personale di ciascuno, nel senso che se gli altri stanno bene, certamente ci sarà anche il tornaconto individuale. Le parole di Paolo VI indicano, in modo chiaro e diretto, nell’ottica della Sua visione antropologica, la strada maestra su cui muoversi, perché “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev'essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo”, nel senso che la visione dell’economia non deve essere separata o considerata distinta dal suo attore principale, ossia l’uomo, come il progresso dalla civiltà in cui si inserisce, piuttosto occorre prendere in esame l’umanità nella sua completezza e interezza. Tommaso Manzillo