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UN RITORNO ALL’ECONOMIA DI MERCATO CIVILE: IL PERSEGUIMENTO DEL BENE COMUNE (2)

Post n°37 pubblicato il 02 Settembre 2011 da tommaso.mt

Come G. Fortunato, anche l’aristocratico salentino de Viti de Marco diede un importante spinta alla diffusione del pensiero liberale e liberista. De Viti subì inizialmente l’influsso del pensiero economico germanico, ossia quello dominante nel periodo noto come ‘socialismo di cattedra’, in cui l’elemento prevalente era la politica della Nazione. In Germania, un importante esponente di questo pensiero fu il padre del filosofo Weber, Max, sostenitore della politica di Bismarck, creando una profonda distanza politica e culturale con il figlio Max. Ma durante gli anni degli studi universitari, de Viti ne prese le distanze, affascinato dal pensiero liberale anglosassone (agevolato soprattutto dalle origini familiari), che difendeva l’individuo, contro quello germanico, che era dalla parte dello Stato contro l’individuo. Lo stesso G. Salvemini in un suo scritto afferma che “nell'Italia unificata i “liberali-moderati" furono “conservatori" delle istituzioni monarchico-costituzionali e della unità nazionale. Il loro ideale era una monarchia secondo il modello prussiano. In essa dovevano predominare le classi superiori coll'aiuto di un solido esercito e di una disciplinata burocrazia”. De Viti voleva sovvertire l’ordine delle cose.

Oltre all’influsso delle origini familiari, figlio dell’aristocrazia che riteneva fosse compito loro quello di guidare la vita politica, vi sono anche gli studi giovanili di de Viti, riguardo il marginalismo, a coltivare in lui quella posizione liberale che assunse fino alla fine e fino alla rinuncia alla cattedra romana, pur di non prestare giuramento al regime fascista. Studi incentrati sul marginalismo basato sugli insegnamenti di Stanley Jevon, che andavano nella direzione della libera concorrenza contro ogni forma di monopolio: e qui si vede come il liberismo di de Viti si allontana dalla concezione del socialismo di cattedra in voga in quegli anni. Nella concezione del pensiero liberale di de Viti, che anche noi sosteniamo, il compito dello Stato è quella di definire le regole in difesa della libera e leale concorrenza, contro il monopolio. Difatti, la politica di de Viti piuttosto che antistatalista, combatte i poteri economici che sfruttano il potere politico dello Stato, creando inefficienze e sperequazione diffusa. “In America è "liberale" chiunque non è conservatore. Anche a un comunista può accadere di essere chiamato e di chiamarsi "liberale", avrebbe ancora detto G. Salvemini, quasi a volere sostenere l’impostazione anglosassone del marchese di Casamassella. Le intenzioni andavano nella direzione di creare una democrazia, e quindi anche un mercato, basati sulla libera e leale concorrenza (a cui Paolo VI aggiungeva le parole “giusto e morale, e dunque umano”) in difesa anche delle classi meno fortunate, contro ogni forma di dittatura che sfrutta il monopolio per salvaguardare i pochi poteri forti di tipo economico. La sintesi della nuova impostazione liberale, che diedero questi illustri pensatori, è riassunta dal pensiero di De Viti De Marco, ad opera di Manuela Mosca: “assicurare alla società una crescita che non umili i ceti più bassi, che devono essere naturalmente sostenuti, però in modo che questo sostegno  ai ceti meno fortunati non sia a svantaggio, a danno di quelli che vogliono emergere”. La concezione dello Stato secondo la Chiesa, nelle parole di Giovanni Paolo II, nella rilettura della Rerum Novarum, “non può limitarsi a «provvedere ad una parte dei cittadini», cioè a quella ricca e prospera, e non può «trascurare l'altra», che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suoCentesimus Annus, 1991). Volendo con ciò ribadire che, davanti a difficili situazioni umane e sociali, una funzione importante deve assumere lo Stato, che non può e non deve rimanere sordo alle tante richieste avanzate dalle sue membra bisognose e tradite dall’economia di mercato capitalistica, della massimizzazione del profitto a tutti i costi, nelle logiche del breve ed immediato periodo, le quali istanze sociali non rappresentano, però, quell’interesse personale che il governante di oggi va in cerca, per propri tornaconti elettorali.

Nella logica del raggiungimento del bene comune, riprendendo le ultime parole di de Viti de Marco, obiettivo che fu dell’economia di mercato civile, snodo cruciale diventa la riduzione delle diseguaglianze sociali, economiche, politiche, civili, perché il progresso possa raggiungere ogni fascia della popolazione e non restare a vantaggio dei soliti pochi privilegiati. In questo senso, vi è un interessante lavoro del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya K. Sen, dal titolo La diseguaglianza (2000), in cui l’economista va all’affannosa ricerca di una risposta alla domanda “diseguaglianza di che cosa?”. In particolare, nelle sue meditazioni mette subito in evidenza come il tema della diseguaglianza affonda le sue radici nella sostanziale differenza interpersonale, basata sul sesso, sull’età, sulle capacità fisiche, sul carattere e le sue determinazioni psicologiche e altro ancora. In questo, una equa distribuzione del reddito, ispirata da politiche tese a ridurre e a combattere la forte differenza nel tessuto sociale, potrebbe portare a profonde diseguaglianze dovute alle diversità personali, al diverso approccio e nella diversa capacità dell’individuo di trasformare le risorse e i mezzi a disposizione in appagamento dei bisogni, soprattutto per il differente livello di libertà di cui ogni uomo può godere. Diviene, a questo punto, riduttivo pensare alla diseguaglianza, e quindi anche alla povertà, soltanto in termini di reddito e di reddito minimo di sussistenza, quando è presente una molteplicità di fattori che possono influenzare la diseguaglianza. Paolo VI parlava dello “scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell'esercizio del potere”. Con l’affacciarsi dell’attuale pesante congiuntura economica, le diseguaglianze stanno divenendo sempre più croniche e sanabili con molta difficoltà, come è stato riconosciuto da Benedetto XVI nella Sua Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009), denunciando l’”erosione del <>, ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”. Il lassismo da parte delle pubbliche istituzioni abilitate al controllo dei sistemi economici, a cui abbiamo assistito prima della crisi del 2008, sono state le principali artefici del degrado sociale in cui oggi versa l’uomo, vittima del suo stesso operare affannoso, alla ricerca del facile guadagno nell’ottica del breve periodo, piuttosto che mirare alle prospettive future: colpevole di miopia e causa dei suoi stessi mali. E. Berselli afferma che “la grande recessione non è semplicemente una questione tecnica e di regole, né soltanto di autorità deficitarie nel controllo, bensì è un problema anche questo <> di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri” (2010). Il tema della diseguaglianza è stata affrontata agli albori dell’era industriale nell’Europa continentale, da Leone XIII e ripresa da Giovanni Paolo II in Centesimus Annus, nell’anniversario della stessa Enciclica leoniana Rerum Novarum, allarmando sulla grave situazione di dissesto sociale provocata da un capitalismo eccessivamente spinto e senza regole, ma ancora nella sua fase embrionale, che oggi si manifesta quotidianamente nella speculazione di borsa, dimostrando con quanta facilità si può comprare e vendere denaro, anche allo scoperto, provocando catastrofi sociali e umani inimmaginabili, di cui lo stesso uomo è il reo colpevole.

Per cercare tirare le fila del discorso e tessere una linea difensiva nella direzione della visione liberale dell’economia, i Governi degli Stati devono ispirarsi ai principi dei nostri padri, tornando ad occuparsi degli interessi collettivi, in una economia in cui i deficit eccessivi assorbono le risorse pubbliche, sottraendole dal mondo produttivo. Come osserva S. Zamagni, occorre riprendere nelle proprie mani l’idea del benessere comune, ritornare a quella che era l’economia liberale di ispirazione civile, di Genovesi, Verri, Palmieri, Broggia, e altri. Le politiche economiche di questi ultimi anni sono state, invece, lontane dalle logiche liberali, quando hanno imposto eccessive tasse senza crescita, dimostrandosi sorde davanti alle istanze di libertà e attente nell’ascolto del grido di aiuto che veniva dai pochi poteri forti del mondo capitalista. Oltre al pareggio di bilancio, compito dei governi è anche quello di stimolare la crescita economica e il benessere collettivo, attingendo dalle risorse di bilancio, che ogni buon padre di famiglia dovrebbe aver creato nei periodi floridi, per far fronte alle necessità improvvise, a quegli avvenimenti che non ti danno il preavviso. Era ed è sostanzialmente il pensiero economico che maturò e portò avanti nella sua battaglia liberale G. Fortunato, con lo sguardo sempre rivolto alla questione meridionale. Sul tema, lo stesso storico polemizzava che il denaro presente nelle ricche casse del Regno di Napoli, al momento dell’Unità italiana, era il segno evidente che la moneta non circolava abbastanza all’interno dello Stato, e l’economia ristagnava, in quanto gli investimenti erano piuttosto assenti nella politica borbonica dell’ultimo periodo. Risparmiare per investire: questa la ricetta proposta.

In merito alla eccessiva turbolenza dei mercati, provocata dai deficit eccessivi dei Paese più industrializzati, dovrebbe aver imparato a tutti una lezione importante, da riportare, in futuro, sui testi scolastici di economia, ossia che la politica del debito eccessivo alla fine non paga. O meglio, impostare le proprie scelte economiche su di un orizzonte temporale di breve periodo è sintomo di ignoranza, avrebbero detto Genovesi e gli altri, perché manca quella visione del futuro, ingrediente degli esseri savi. Messi alle strette, o si risana il bilancio o si rilancia la crescita, ma la seconda ha come base di appoggio importante il perseguimento del primo obiettivo. Si possono fare entrambe le cose, e pure bene. Tagliare la spesa superflua, i privilegi di pochi, che nel corso del tempo i fantomatici governi liberali hanno accumulato, e premiare quell’imprenditore, giovane e talentuoso, studioso, pieno di iniziativa, che reinveste il proprio guadagno generando produzione, lavoro e ricchezza, invece che assicurarsi rendite di posizione. In questo modo si generano a sua volta nuove entrate per le casse dello Stato, innescando un circolo virtuoso, sulla strada dell’equa distribuzione delle ricchezze. “La prima molla motrice dell’Arti, dell’opulenza, della felicità di ogni nazione, è il buon costume, e la virtù” (A. Genovesi). Le politiche dei governi rimarranno sempre all’ombra del futuro, prive di slancio e ricche di impedimenti e di interessi collusivi, fintantoché la loro funzione non sia orientata verso la riduzione delle diseguaglianze, combattendo le discriminazioni, per “liberare l’uomo dalle sue schiavitù”, rendendolo “capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale” (Paolo VI, 1967).

Tommaso Manzillo

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