Creato da VIETCONG.1973 il 29/06/2013

OTTOBRE ROSSO.

SI RIPRENDE ...

 

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Post n°163 pubblicato il 07 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

La minaccia della deflazione

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Gli economisti dell’Ofce (Francia), dell’Imk (Germania) e dell’Eclm (Danimarca) mettono in guardia: la zona euro non è uscita dalla crisi, malgrado l’ottimismo della Commissione. Il rigore soffoca la ripresa. Se l’austerità continua, ci vorranno almeno 13 anni per tornare ai tassi di disoccupazione del 2007. I deficit diminiscono, ma l’aggiustamento si fa a scapito del lavoro e della povertà.

Mal­grado le dichia­ra­zioni otti­mi­ste della Com­mis­sione, che vede l’Europa uscire dalla crisi gra­zie alla cura di rigore, que­sta con­ti­nua e rischia di entrare in una nuova fase, tra­sfor­man­dosi in defla­zione. Un rischio di defla­zione che potrebbe per­ma­nere fino al 2020–2025. I pro­blemi non sono scom­parsi, ma si sono spo­stati: l’austerità ha por­tato a una ridu­zione dei defi­cit, ma le diver­genze tra le eco­no­mie della zona euro si aggiu­stano con il per­si­stere della disoc­cu­pa­zione di massa, soprat­tutto nei paesi in mag­giore dif­fi­coltà. La crisi viene cosi’ ali­men­tata, fomen­tando la povertà, con la ridu­zione dei salari, già in atto nei paesi peri­fe­rici del sud dell’Europa. La sva­lu­ta­zione non è dell’euro, ma avviene attra­verso i salari. E’ que­sta l’analisi del secondo Sur­vey indi­pen­dente Iags 2014, rea­liz­zato da eco­no­mi­sti dell’Ofce fran­cese, dell’Imk tede­sco e dell’Eclm danese. L’Iags pro­pone, come già l’anno scorso, un’alternativa, nel rispetto dei trat­tati euro­pei: una poli­tica mone­ta­ria più espan­sio­ni­sta, che per­metta un calo signi­fi­ca­tivo dello spread sui tassi di inte­resse; uno sti­molo alla cre­scita con un pro­gramma di inve­sti­menti pub­blici (tra­sporti, ener­gia), con l’adozione di una “regola aurea” che escluda la spesa per inve­sti­menti dal cal­colo del defi­cit; una tra­iet­to­ria di ridu­zione dei defi­cit spal­mata in tempi più lun­ghi; e, infine, delle poli­ti­che attive di lotta con­tro la povertà e le ine­gua­glianze cre­scenti, con freni alla defla­zione salariale.

La cre­scita ha fatto un timido ritorno nella zona euro – non in tutti i paesi – ma resta ancora troppo debole per rove­sciare il trend. La disoc­cu­pa­zione nella zona euro ha ormai supe­rato il 12% e minac­cia di durare per anni. Ci sono quasi 8 milioni di disoc­cu­pati in più alla fine del 2013 rispetto al 2007. E, se il rigore con­ti­nua, avver­tono gli eco­no­mi­sti dell’Iags, ai ritmi di ripresa attuali ci vor­ranno ancora almeno 13 anni per tor­nare alla situa­zione occu­pa­zione del 2007, che non era certo favo­losa. In Spa­gna e in Ita­lia il pil pro capite è desti­nato ancora a calare, men­tre dovrebbe tenere in Fran­cia e aumen­tare un po’ in Ger­ma­nia. Il mol­ti­pli­ca­tore delle scelte di auste­rità non fa che accen­tuare la crisi. Se dal 2011 la zona euro avesse adot­tato una stra­te­gia di più lungo ter­mine per il rien­tro dei defi­cit – una ridu­zione dell’ordine dello 0,5% l’anno – avremmo un tasso di cre­scita intorno al 2,3%, con quasi due milioni di disoc­cu­pati in meno. Invece, il 2013 è stato ancora un anno di reces­sione. Per­ché que­sta scelta di acce­le­rare i tempi? La rispo­sta del rap­porto Iags è che la zona euro ha ceduto alla pres­sione dei mer­cati, sui rischi di non soste­ni­bi­lità dei defi­cit pub­blici. Il risul­tato è che i dubbi su Gre­cia e Spa­gna per­si­stono, e che i rischi di povertà hanno ormai con­ta­giato molti paesi. La guerra sulla com­pe­ti­ti­vità, che si è sca­te­nata tra i paesi della zona euro, finirà con il con­ta­gio della defla­zione, visto che non ci sono mar­gini nel com­mer­cio estero, con l’euro forte e il fatto che la zona euro è già ecce­den­ta­ria nel com­mer­cio estero. I gua­da­gni, cioè, non ver­ranno dall’export, come ci pro­mette la Com­mis­sione con il “modello tede­sco”, ma attra­verso riag­giu­sta­menti all’interno della zona euro.

Il rap­porto è sul sito: www​.iags​-pro​ject​.org

Anna Maria Merlo - il manifesto

 
 
 

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Post n°162 pubblicato il 06 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Mandela, l’uomo che seppe lasciare il potere

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La morte di Nelson, icona dell’anti apartheid, ha lasciato il mondo nella tristezza. Sebbene se ne sia andato all’età di 95 anni, che già in sé è una rarità per qualcuno che ha passato 27 anni in carcere, la sua eredità rimarrà per anni. Poche persone nel pianeta potrebbero eguagliare la sua immagine straordinaria ed è per questo motivo che il mondo sta celebrando la sua vita invece di essere in lutto. Senza dubbio sarà ricordato come uno degli uomini più grandi della storia.

La ricca eredità che Mandela si lascia alle spalle è impareggiabile . Oltre ai suoi risultati politici, ha combattuto per una società giusta che è culminata nella demolizione del regime dell’apartheid. Ha abbandonato il palcoscenico della politica dopo aver servito solo un mandato, preparando la strada per le generazioni più giovani che prenderanno il comando. Molti leader africani sono noti per tenere il potere fino alla morte. Dittatori come Robert Mugabe in Zimbabwe vengono subito in mente. Al potere da quando lo Zimbabwe è diventato indipendente nel 1980, Mugabe ha continuato a rimanere attaccato alla sua posizione.

“Se c’è qualcosa per cui l’Africa dovrebbe ricordare Mandela, è la sua determinazione a liberare i sudafricani dall’oppressivo regime dell’apartheid e dalla credenza che non si deve essere per sempre al potere per diventare popolare . È questo il motivo per cui ha servito soltanto un mandato e poi ha lasciato. Questa è una cosa che altri leaders africani dovrebbero imitare”, afferma il Adams Oloo, presidente del Dipartimento delle politiche e delle relazioni Internazionali all’università di Nairobi.

L’ex procuratore generale del Kenya Charles Njonjo, un vecchio amico di Mandela che è stato suo compagno di classe all’università di Fort Hare in Sud Africa, parla di un uomo che era molto intelligente ma rimaneva sempre umile. “Era uno studente infaticabile ma sempre pronto ad assistere gli studenti meno veloci con i loro compiti. Ha mostrato questa umiltà e senso di comprensione quando ha accettato di lavorare con lo stesso regime che lo aveva imprigionato per il bene della ripresa nazionale e della riconciliazione ”, afferma Njonjo.

La straordinaria levatura di Mandela è esemplificata dai 250 premi che ha ricevuto nella sua vita, incluso il premio Nobel per la pace nel 1993. Con il tipo di affetto che il mondo mostra nei suoi confronti, Madiba, come era noto al suo clan, attrarrà molto probabilmente anche premi postumi.

Un grande uomo che era sempre a suo agio con i giornalisti durante le interviste, Mandela ha ispirato molti leaders mondiali, incluso il presidente degli Stati Uniti Barack Obama che ha visitato il Sud Africa quando Mandela era gravemente malato in ospedale. “Voglio rendere omaggio a questo grande uomo Nelson Mandela per la sua ispirazione. L’Africa dovrebbe accogliere la democrazia e scrollarsi di dosso la cultura della dipendenza dagli aiuti umanitari”, aveva affermato Obama durante la sua visita, ricordandolo poi ieri tra le lacrime dopo la notizia della morte.

Mandela credeva nell’approccio non violento di Mahatma Gandhi per risolvere i conflitti , al quale perciò rendeva omaggio: “Osava esortare la non violenza in un periodo in cui la volenza di Hiroshima e Nagasaki erano esplose su di noi; esortava alla moralità quando la scienza, la tecnologia e l’ordine capitalista l’avevano resa ridondante ; ha sostituito i propri interessi con quelli del gruppo senza minimizzare l’importanza del sé. L’India é il paese di nascita di Gandhi; il Sud Africa è il suo paese di adozione”. Di fatto, Mandela e Gandhi erano uomini con idee simili.

La pandemia di Hiv/Aids senza dubbio è rimasta la principale prioritá di Mandela durante la sua presidenza ed il suo pensionamento. Nel continente africano dimora la maggior parte delle persone malate di Hiv/Aids e Mandela decise che bisognava fare qualcosa per arginare la pandemia. In primo luogo, decise di lottare in prima linea ammettendo che uno dei suoi figli era morto di Aids. Qualcosa di inaudito in Africa fino ad allora. Nessuna famiglia, in particolare una famiglia illustre come i Mandela, avrebbe infatti ammesso di aver perso uno dei propri cari a causa dell’Hiv/Aids. Forse prendendo spunto da Mandela, anche l’ex Presidente dello Zambia Kenneth Kaunda ha ammesso in pubblico la morte di uno dei suoi figli per Hiv/Aids. È questo il tipo di leadership per cui l’Africa dovrebbe ricordare Mandela.

Attraverso la sua fondazione Nelson Mandela, che ha lo scopo di promuovere una societá giusta ed imparziale, libera da discriminazioni, egli ha visto l’Hiv/Aids come un’altra guerra che doveva essere combattuta e vinta. Dal 2003, ha sostenuto i concerti “46664” (nome che deriva dal suo numero di identificazione in prigione) che avevano lo scopo di raccogliere fondi e consapevolezza riguardo all’Hiv/Aids.

Pochissime leggende viventi hanno delle giornate internazionali dedicate a loro. Ma per Mandela, il 18 luglio è stato dichiarato Giornata internazionale per Nelson Mandela sin da quando era ancora vivo. La giornata, che coincide con la sua data di nascita, è caratterizzato da atti di carità e gentilezza per dimostrare i valori che lui rappresentava.

Oltre alla fondazione, c’è il Fondo per l’infanzia Nelson Mandela, che supporta i bambini del Sud Africa con la visione di cambiare il modo in cui la societá tratta i propri bambini e ragazzi. Il Progetto Hillbrow Theatre, ad esempio, è un luogo in cui bambini svantaggiati possono esprimersi attraverso l’arte. Attraverso le loro produzioni, gli studenti apprendono importanti capacitá di lavoro di squadra, rispetto reciproco e tolleranza.

Riposa in pace, Tata.

(Traduzione di Sara Marilungo)

Zachary Ochieng - News from Africa

 
 
 

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Post n°161 pubblicato il 05 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Arriva la Cina?

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Un paio di giorni fa su quasi tutti i giornali economici, ma anche su quelli generalisti, è rimbalzata la notizia che lo yuan ha superato l’euro come seconda moneta più usata negli scambi internazionali. Shock immediato, l’Europa scavalcata dalla Cina, lo spostamento di potere che tutti percepiamo confermato dai dati concreti dell’economia internazionale.
In realtà la situazione è un poco diversa. Lo yuan ha superato sì l’euro, ma non come moneta usata nelle transazioni commerciali, quanto piuttosto nella finanza del commercio internazionale – le lettere di credito delle banche, tanto per capirci – una parte assai minuta del mercato delle valute. Per avere un ordine di grandezza adeguato, basta rendersi conto che il mercato valutario ha una portata di 5.3 migliaia di miliardi di dollari al giorno, mentre gli yuan scambiati giornalmente sono all’incirca 120 miliardi di dollari.
Nel mercato globale della valuta, la moneta cinese rimane al dodicesimo posto, mentre l’Euro è ancora saldamente secondo. Insomma, non è ancora il caso di allarmarsi. Ciò premesso, sarebbe però poco saggio non tenere in conto i cambiamenti in corso nell’economia globale. Il fatto che nel giro di un anno nell’ambito della finanza commerciale, il peso cinese sia quintuplicato e abbia rubato quote di mercato a Euro, yen e anche a dollaro, qualcosa vorrà pur dire. Pechino ha un peso sempre più rilevante e dunque alcune aziende che cercano di avere accesso allo spazio economico cinese, in particolare quelle australiane e tedesche, hanno provato ad aumentare la propria attrattività offrendo contratti già fatti in yuan. Un trend che, probabilmente, sarà destinato a confermarsi nel futuro.
Inoltre la Cina non fa mistero che nel medio periodo vorrebbe un riequilibrio dell’architettura economico-finanziaria internazionale. Il mercato valutario è ancora largamente dominato dal dollaro, il che permette agli Stati Uniti un utilizzo – ed una produzione – pressoché illimitato del biglietto verde (prova ne sono i quantitative easing degli ultimi anni, presto assorbiti dai mercati internazionali), un diritto di signoraggio globale – ogni dollaro stampato ad un costo di pochi cents, viene pagato dal resto del mondo con l’equivalente in beni e servizi del valore dell’intero dollaro –, ed un aiuto concreto per le banche e le imprese americane, che non sono soggette al rischio del tasso di cambio.
A Pechino hanno capito che questa situazione è paradossale e rischia di bloccare gli sforzi di crescita cinese. Inizialmente avevano pensato di usare l’Euro come contro-altare alla forza del dollaro, ma dati i problemi dell’Eurozona questo progetto sembra quantomeno ardito e la Cina potrebbe cercare di giocare questa partita in prima persona. Almeno così potrebbe lasciar pensare la recentemente progettata liberalizzazione del mercato finanziario cinese. Con dei rischi seri, però. La Cina e la sua moneta sono, al momento, sottorappresentate come peso commerciale e finanziario, proprio per scelta di Pechino che mantiene un rigido controllo sulla propria valuta – che non è liberamente scambiata internazionalmente, ma viene gestita direttamente dalla Banca Centrale. Allo stesso tempo i movimenti di capitale, in Cina, sono severamente ristretti, proprio per evitare quella speculazione finanziaria che per due decenni ha messo a repentaglio la crescita di tanti paesi in via di sviluppo, e non solo. Due misure prudenti, che però, ovviamente, hanno limitato il peso finanziario cinese su mercati internazionali. Pian piano, Pechino è ora pronta ad aprirsi alle forze della finanza globale per riaffermare la propria importanza e per limitare il peso del dollaro. Questo però vorrà dire giocare con le regole degli altri, proprio ciò che la Cina ha è sempre cercato di evitare.
Rimane dunque da capire quanto, quando ed in che modi la leadership cinese deciderà di entrare in forza nel mercato globale. Al momento si parla di piccoli passi, che si rifletteranno senza dubbio su alcuni aspetti della finanza internazionale, senza però alterarne la struttura americano-centrica. Trent’anni di riforme ci hanno insegnato che i cinesi sono alquanto restii a brusche manovre che possono compromettere l’equilibrio così difficilmente raggiunto. Ma con la crescita della propria economia e del proprio peso politico, è ovvio che, prima o poi, Pechino dovrà prendersi anche più responsabilità e più rischi, soprattutto in presenza di una crisi dell’Occidente che sembra destinata a protrarsi.

Nicola Melloni - Liberazione

 
 
 

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Post n°160 pubblicato il 03 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Lavoro nero

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La tragedia operaia dei cinesi di Prato illumina, per qualche ora, le condizioni di vita e di lavoro in un pezzo d’Asia italiana, «la più vasta area di lavoro nero d’Europa» – parole del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi – in quell’«Italia di mezzo» generalmente additata come modello di buen vivir nostrano. La Grande Crisi europea e la recessione c’entrano poco o niente, in questo caso: nei capannoni della Chinatown toscana, a lavorare per sottomarche low cost e grandi griffe del mercato globale, sono passate due generazioni di cinesi, senza che la politica, i sindacati, la società civile muovessero un dito non per arginare il fenomeno, come piacerebbe a vecchie e nuove destre, bensì per portarlo nell’alveo del riconoscimento di diritti e protezione sociale. Della cittadinanza, in buona sostanza.
Quello toscano non è l’unico caso e neppure un’eccezione. Il «terzo mondo» di casa nostra è una realtà che colpevolmente facciamo finta di non vedere. Tutte le mattine nella piazza principale di Villa Literno si svolge un mercanteggiamento che ha per oggetto una merce particolare: braccia umane, africane soprattutto ma da qualche tempo anche rumene, da sfruttare in agricoltura come i ragazzini messi in vendita ogni 15 agosto nella piazza del Duomo di Benevento e raccontati da Corrado Alvaro. Nella cittadina del casertano la chiamano «piazza degli schiavi», e mai come in questo caso la vox populi è riuscita a trovare le parole giuste per descrivere la realtà.
Nella Terra di lavoro campana vive e lavora in condizioni terribili la più ampia comunità africana d’Italia. L’Italia si indignò solo quando, nel 2008, un commando dei Casalesi sterminò sette persone in una rappresaglia di stampo nazista.
Chi si trovasse a percorrere, sul far dell’alba, la via Pontina dalle parti di Sabaudia, potrà incrociare centinaia di ciclisti con i turbanti. Sono i bufalari sikh della «little India», dove le bufale non si chiamano più cantando, come faceva il Cosimo Montefusco incontrato da Rocco Scotellaro in Contadini del sud. «Un’immigrazione silenziosa e operosa», come l’ha definita il sociologo Marco Omizzolo, che fa notizia solo quando qualcuno di loro finisce vittima di un pirata della strada, meritandosi al massimo una breve nelle cronache locali.
Qualche giorno fa, a Rosarno, un africano è morto di stenti. Nelle campagne calabresi i raccoglitori di arance e mandarini vivono e lavorano in condizioni disumane, come ai tempi di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. La situazione è talmente precaria che Emergency ha aperto per loro un ambulatorio come in Afghanistan o in Sudan. Neppure la rivolta del 2010 è riuscita a modificare la loro condizione: quando le acque si sono calmate, sono tornati invisibili come il Garabombo di Manuel Scorza.
Si potrebbe continuare menzionando i «clandestini» dell’industria del falso che alimentano i roghi della Terra dei fuochi, o ricordare come, mentre si festeggiava la vittoria dell’Italia ai mondiali del 2006, un rogo in un materassificio ricavato in uno scantinato, in provincia di Salerno, uccise due operaie italiane che lavoravano al nero per due euro l’ora. Una di loro era anche minorenne e per questo la politica si commosse per qualche ora e poi passò a parlar d’altro.
I morti di Prato sono cinesi e non votano neppure alle primarie del Pd, ma come gli africani di Rosarno e i bufalari pontini sono indispensabili a far girare la ruota di un sistema economico che nessuno si sogna di mettere in discussione dalle fondamenta. Se ne parlerà meno e forse è persino preferibile. Almeno evitiamo eccessive ipocrisie.

Angelo Mastrandrea - il manifesto

 
 
 

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Post n°159 pubblicato il 02 Dicembre 2013 da VIETCONG.1973

Il virus dalle uova d’oro

Contrariamente agli annunci trionfalistici che si ripetono da oltre 15 anni, l’unica cura esistente è la prevenzione. E i malati sono in crescita

Giornata-Mondiale-AIDS-2012

«È italiano il primo vaccino terapeutico testato con successo su 20 bambini» così venerdì 29 novembre titolava uno dei maggiori quotidiani del nostro paese, notizia subito rilanciata dai principali tg ma del tutto ignorata da qualunque mezzo d’informazione collocato oltre Chiasso, aldilà di Trieste e oltre Ventimiglia. Nel frattempo tra sms e telefonate rimbalzava sempre la stessa domanda: «Ma hai visto? C’è il vaccino contro l’Aids per i bambini».
L’illusione mediatica
Purtroppo la realtà è ben diversa, non c’è alcun vaccino, né per grandi né per bambini; per chi ha avuto la pazienza di scorrere tutto l’articolo, oltre il titolo, avrebbe potuto leggere: «La nuova vaccinazione, abbinata alla terapia antiretrovirale, controlla potenzialmente la replicazione del virus». In sintesi: all’Ospedale Bambin Gesù di Roma hanno sperimentato una nuova terapia che associata agli antiretrovirali potrebbe controllare la replicazione dell’Hiv. Si tratta quindi di una cura più efficace per bambini già infettati dal virus ma nulla ha a che vedere con un vaccino che, come si sa, si somministra a persone sane affinché non si infettino quando eventualmente dovessero venire in contatto con l’agente infettivo. Il titolista del quotidiano potrebbe difendersi dicendo di aver scritto «vaccino terapeutico», ma come spiega il prof. Robert Gallo nella prefazione a «Aids, lo scandalo del vaccino italiano»(il libro che ho scritto con Carlo Gnetti e pubblicato con Feltrinelli), il termine vaccino terapeutico non andrebbe utilizzato «in modo da evitare confusione con un vero vaccino che previene l’infezione», a meno che si cerchi il sensazionalismo, la notizia ad effetto, destinata, in questo caso, a creare una pericolosa confusione.
In concomitanza con il 1° dicembre, l’odierna giornata mondiale di lotta contro l’Aids, le più importanti riviste scientifiche internazionali hanno pubblicato diversi articoli che, passando in rassegna le principali sperimentazioni sui vaccini sinora avviate nel mondo, ribadiscono che ad oggi non c’è all’orizzonte alcun vaccino contro l’Aids e che per evitare l’infezione la prevenzione rimane l’unico strumento valido.
Il vaccino desaparecido
Il 28 novembre 2012 usciva il nostro libro inchiesta sul vaccino contro il virus Hiv basato sulla proteina-TAT, un progetto diretto dalla dott.ssa Barbara Ensoli e finanziato dall’Istituto Superiore di Sanità; dalla nostra indagine, condotta tra medici, scienziati e politici emergeva una realtà segnata da paure, interessi economici, protezioni politiche, intrecci familiari e affari internazionali. Ad un anno di distanza tutto tace, nessuno ha risposto alle nostre domande, né i responsabili del progetto hanno rilasciato dichiarazioni in grado di spiegare ai cittadini italiani, che sono i finanziatori di questa ricerca, a che punto è quel progetto annunciato con grande enfasi oltre quindici anni fa, il 28 ottobre 1998 e celebrato dai media con titoli come : «Aids, funziona il vaccino italiano» o «Il mio vaccino batterà l’Aids»; qualcuno arrivò persino a proporre il Nobel per la responsabile della ricerca. Io mi accontenterei più umilmente di sapere cosa stia accadendo in Sud Africa, dove dovevano svolgersi alcune fasi della ricerca, e che fine abbiano fatto i circa 30 milioni del ministero degli Esteri sottratti alla cooperazione per finanziare la sperimentazione e la costruzione in Sud Africa di un laboratorio che avrebbe dovuto analizzare i risultati della ricerca. L’impressione è che dopo anni di annunci trionfalistici, si cerchi di far perdere le tracce dell’intera vicenda, senza che nessuno debba spiegare l’uso fatto del denaro pubblico, né rispondere alle attese suscitate tra la gente e tra le persone malate.
Big Pharma ringrazia
L’Aids, nonostante sia scomparso dalle cronache, è tutt’altro che una realtà del passato: le persone viventi, infettate dal virus nel mondo sono 34 milioni, nel 2012 vi sono stati 2,5 milioni di nuovi contagi e 1,6 milioni di decessi. Le persone sieropositive viventi in Italia sono circa 160-180.000 di cui un terzo non sanno di esserlo e circa 60.000 sono in terapia; nel 2012 nel nostro paese vi sono state 3.850 nuove infezioni soprattutto per via eterosessuale; sono coinvolte tutte le età con un picco tra i 30 e i 45 anni. Un anno di terapia ed esami di controllo può costare allo stato anche 6-7000 euro a persona, alcune regioni hanno già preannunciato che non riusciranno a lungo a garantire le terapie. Eppure ormai da diversi anni non c’è traccia di alcuna campagna di prevenzione, ministri ed assessori alla sanità si comportano come se l’Aids sia stato definitivamente sconfitto. Le multinazionali del farmaco ringraziano commosse, possono continuare a contare per i prossimi decenni su decine di migliaia di «clienti italiani affezionati e fidelizzati» che per tutta la vita dipenderanno da loro e dal prezzo delle loro terapie, finché lo stato potrà pagarle.

Vittorio Agnoletto - il manifesto

 
 
 

 

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