TheNesT

In nome di niente


Un bicchiere e poi un altro poggiano affiancati sul bancone del bar. I nostri sguardi si incrociano annebbiati dalla stanchezza, e le nostre parole si posano quasi silenziose come carte di un gioco le cui regole sappiamo assurde, e contraddittorie. A turno riveliamo all'altro e a noi stessi una carta per volta: quelle che scartiamo, in cui non crediamo, per prime. E le ultime, quelle a cui tenevamo di più, e che non sapevamo sacrificabili. Tutto, alla fine, sembra sacrificabile.  Ci sappiamo bugiardi e irrimediabili, ma non sappiamo perché. Condanniamo un mostro perché ha ucciso, e in fondo temiamo d'essere anche noi quel mostro, e che non basti metterlo al confino dell'umano consorzio per potercene liberare. Un altro sorso scende zuccherino a bruciare le parole prima che escano dalla gola in un rantolo, il rantolo orribile che è la voce del dubbio: che giustizia può essere quella che priva un uomo della sua vita e della sua morte, soltanto perché ha privato della vita un altro uomo? Che sia vendetta, che sia un paliativo del dolore che è stato causato, non possiamo negarlo. Che al torto ponga rimedio e compensi col prezzo di una vita una vita persa, non credo che possiamo dimostrarlo. Quindi a cosa serve, questa giustizia? Se di sottrarre il male dal mondo non è capace, né di portare conforto, a cosa serve? La legge è un meccanismo automatico della macchina dello stato, la cui sola esistenza intimidatoria segnala il confine oltre il quale non siamo più protetti: il faro al di là del quale non troveremo riparo. La giustizia è il cannone ai piedi del faro, che punta verso il mare: se ai suoi colpi risponderemo rinunciando al nostro ardire, verremo un giorno perdonati. Altrimenti, se saremo colpiti, affonderemo senza trovare altra pietà di quella dei pesci per le nostre carcasse.E' questa la giustizia in cui io credo?Il bicchiere si posa e un'altra carta ancora viene voltata. E' il busto del re che, consumato dalle dita che in mille partite ne hanno decolorato i contorni, mi guarda intristito e capovolto, stanco del peso del proprio ruolo.No. Non è questa la giustizia in cui io credo.Sposto lo sguardo verso il bicchiere svuotato, e non riesco a fare a meno di sentirmi deriso. L'ultima mano dall'altro lato del tavolo si svela a ventaglio rivelando la mia sconfitta, ma è una sconfitta da niente. Nessuno esce vincitore da questa partita.Mi resta soltanto l'amaro di una notte sprecata a intuire che non c'è vittoria, né tantomeno salvezza. Soltanto una mano appoggiata alle mie spalle, a conforto della mia resa.Eppure i fatti mi contraddicono, se persino in quest'angolo insignificante del giorno dove svolgo le mie mansioni riesco a trovare un essere umano, con parole che sono state scaldate tra le mani prima d'essere pronunciate.   Disamistade - DeAndré, 1996