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Un momento prima di poggiare la matita sul foglio

Post n°530 pubblicato il 01 Marzo 2018 da lab79

Ho atteso involontariamente la neve, per tornare a scrivere. Forse perché nella quiete soffice mi sembrava di poter pensare più serenamente. Ma così non è stato. Mi sono dilungato più di quanto volessi nelle incombenze del lavoro, le piccolezze che fanno svanire le mezz'ore. E mi ritrovo all'alba dell'alba (In quel momento vago e quieto che in spagnolo chiamiamo Madrugada), a cercare di mettere in fila i pensieri e intuizioni che ricordo di aver avuto ad un certo punto dei giorni scorsi.

Ma queste impressioni cadono disordinatamente sul foglio, come i fiocchi sottili come farina che imbiancano appena e soltanto oggi i tetti delle case, e il bosco.

Pennellate impressionistiche di parole. Nient'altro.

Il pensiero che mi preme invece è molto più significativo, nella sua retorica concretezza. E parlo, si: parlo proprio delle elezioni che ormai incombono e di certo, a differenza di me, non vi colgono impreparati. Benché impreparati sia un termine errato: è da non prima di dicembre che meditiamo sul da farsi, ascoltiamo proposte e mettiamo in pratica pregiudizi e ragioni, onde ritrovare infine il campo in cui piantare il nostro piccolo seme di un voto, e uno soltanto.

Ma a quale conclusione siamo giunti? Ci siamo lasciati asfissiare dall'aria mefitica di una campagna elettorale anomala, e particolarmente velenosa. E' diversa da quelle precedenti? No, ovviamente: i protagonisti sono più o meno gli stessi, le stesse posizioni sulla scacchiera, le stesse "ridondanze" e approssimazioni, le stesse volgarità e promesse. Lo stesso disincanto? Di quest'ultimo sono meno sicuro. Qualcosa ha infine raggiunto le radici della "gente". Un veleno, un odio ideologico piuttosto che un'ideologia. Un pregiudizio nei confronti degli "altri" che è impermeabile al buon senso. E ha malamente corroso il legno duro del sano cinismo di cui gli italiani facevano vanto, quell'applaudire o fischiare il politico di turno sapendo di non fare mai del tutto sul serio. E il politico di turno che a sua volta rispondeva indignato e stupito, perché questo prevedeva la sua maschera di pulcinella, ma dietro il teatro sapeva anche lui che un po' tutto questo agitarsi ed indignarsi era finto. Questi valori e principi, l'italianità e la democrazia, l'entusiasmo e la libertà, l'uguaglianza e il senso dello stato erano le parole rimaste come incastrate nella memoria da tanto ripeterli ad ogni liturgia della democrazia, ad ogni tornata elettorale, ad ogni domenica all'uscita della chiesa e all'ingresso dello stadio.

Ci avrebbe pensato poi l'aperitivo del lunedì al bar, a scacciarle via. Nessuno diceva davvero sul serio.

Ora però qualcosa ha davvero penetrato in angoli recònditi dell'anima, e ha svegliato quell'animale che il cinismo nazionale teneva inconsciamente sotto scacco. E la vergogna del chiamarsi fascisti è sparita, e l'odio nei confronti delle persone per quello che sono, e non più nei confronti di quello che fanno è riemerso nelle parole di chi manifesta, convinto di essere nel giusto, e apparentemente libero di minacciare ed insultare chi lavora in quello Stato alieno e ottuso, come se anche questi fossero lo Stato. Ma non lo sono: sono persone che come noi ne sono vittime, anche quando lavorano nella pancia del Moloch.

E come nei decenni passati ciclicamente si è ripetuto, spuntano i coltelli, i cameratismi complici, le parole d'ordine ed i distinguo minacciosi perché non prevedono più piazze comuni, né ponti a tenerle insieme. E l'altro diventa nemico, e sembrano armarsi tutti ad una guerra che sono convinti di saper combattere, vincere e dominare.

(Ma la Guerra è una madre che non si domina. Genera figli disabili nell'animo, incapaci di crescere in uomini liberi e rinfrancati da tanto passato. La Guerra è Madre assoluta, dalle cui braccia nessuno esce vivo.)

Intanto chi ha spinto per anni lo stantuffo ora si rende conto che la siringa è vuota. Basta attendere che siano le persone ebbre di veleno a chiederne ancora. Non c'è più bisogno di lavorare, creare, spiegare, proporre. Non c'è bisogno di soluzioni, bastano le illusioni: come i tossicodipendenti dell'odio ne chiediamo ancora, di parole rabbiose, che suonino bene nelle nostre bocche. Vogliamo sentire che qualcuno ci dica di aver ragione, che la nostra rabbia è buona e sacra. E noi in attesa del duello finale nelle urne, come fosse l'anticipo di un funerale, mentre i mercanti di opinioni si chiedono tutto questo dove porterà.

Da nessuna parte.

Chi ci chiede il nostro voto sa che questa tornata è inutile. E allora partecipa al gioco sapendo di perdere in partenza, ma sperando di perdere meno peggio degli altri. Si aggrappa dunque a promesse che non solo sa di non poter mantenere, ma sa anche che nessuno pretenderà che le mantenga. E allora via, in un via-vai di promesse stellari e inattendibili, pigolano che "noi faremo!" "noi riusciremo!" e sottovoce ripetono " se qualcuno si vuole unire a noi..." perché sanno che non avranno i numeri per governare. Si affideranno alla provvidenza e rimetteranno il tutto nelle mani del Presidente della Repubblica, che affiderà le redini a chi ormai le ha in mano, e tutti urleranno soddisfatti al complotto, contenti di aver schivato la responsabilità di mettere mano nel sacco delle proprie promesse fassulle.

Se voterò?

Certo. Mal volentieri, eppure lo farò. Convinto che in questa particolare occasione conti poco, e disgustato non tanto dalla puzza delle putride promesse esposte sul bancone, quanto del famelico grigno di chi viene a comprare tale merce, e gioioso ne fa scorta.

 
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