Messaggi di Febbraio 2014
Post n°283 pubblicato il 26 Febbraio 2014 da lab79
La consuetudine alla ore notturne, dopo un paio di anni consecutivi di pratica, lascia ormai dei sintomi piuttosto evidenti. Al di là dei sogni curiosi come quello descritto nel post precedente, e che posso classificare tranquillamente tra le curiosità, è nei piccoli segni di tutti i giorni, che mi rendo conto della cosa. Dal momento che il lavoro notturno (almeno, il mio lavoro notturno) non è fisicamente stancante, non di rado commetto l'errore di non considerarlo faticoso. Piccole distrazioni sono lì a ricordarmi che è vero invece il contrario, ma il più delle volte non do loro molta importanza. Sbagliando. Perché è proprio nell'innaturale ripetitività dei gesti che si nascondono le insidie peggiori, nel effettuare le stesse azioni in un verso e poi ripeterle al contrario: aprire gli occhi quando cala la sera, e richiuderli quando si fa giorno, per esempio. Nel tornare a casa stanco, mentre il resto del mondo inizia isterico il proprio giorno, condividendo lo stesso tratto di strada. Più volte mi sono ritrovato a mettere alla prova i miei riflessi per evitare un automobilista particolarmente in ritardo, oppure correggere l'impostazione di una curva, perché in un dato momento sembro aver perso la traiettoria che avevo scelto di percorrere. A volte queste distrazioni sono più banali ancora, persino comiche. Come quella volta che, a colazione, ho iniziato a preparare una spremuta senza mettere il bicchiere sotto lo spremiagrumi. O le tante volte in cui mi ritrovo a zuccherare più volte lo stesso caffè. Altre volte ancora sono gli stessi miei pensieri a confondere i propri binari, per poi scoprirsi disorientati. Come mi è successo qualche sera fa, mentre preparando la cena, mi sono sorpreso ad apprezzare la similitudine del profumo del pollo al curry e vino rosso, con l'odore curioso che esce dai pannolini sporchi di mio figlio. Senza riuscire a decidermi se tale similitudine fosse disgustosa o meno. Se questi sintomi non bastassero a dare la misura dei danni che questo mestiere mi sta arreccando, posso sempre contare sul palese istupidimento a cui la mia mente sta andando incontro. Al di là delle occasioni in cui, durante le conversazioni, non trovo le parole, sono proprio i concetti e le conoscenze a sparire dalla mia memoria. In poche parole, dimentico. Si formano dei vuoti nel filo logico dei miei pensieri, e persino nella memoria a breve termine. Vuoti che non di rado mi costringono a ripetere più volte lo stesso gesto, dato che spesso dimentico la ragione per cui lo sto effettuando. A volte riguardo sgomento il riflesso di me stesso che invecchia mentre ripete i propri gesti una volta e una volta ancora ma al contrario, una vita chiusa nell'assurdo palindromo del proprio quotidiano, senza coglierne il senso, e mi chiedo se non sia una vita insensata e futile, come quella delle falene.
Staràlfur - Sigur Ròs (Agaetis Byrjun, 1999) |
Poso sul pavimento le poche parole che mi sono rimaste, cercando di non far rumore. Con la punta delle dita le trascino, e il fruscìo lieve delle parole contro la superficie liscia delle cose innonda la stanza, nella stessa assordante frequenza della Risonanza di Schumann. Il mio riflesso nello specchio sorride, ma non io. Dietro le sue spalle camminano sul posto coloro che mi furono cari, ma non vedo altro che le loro spalle che ondeggiano avanti e indietro, come a risalire una scala senza fine, e non vedo il loro volto. Intanto le mie dita si allungano e si moltiplicano, trascinando ognuna una parola fino a formare una frase con un senso: ma non dura che un istante, e già il senso delle parole è svanito, e le mie dita riprendono a trascinare le parole in giro per la stanza. La stanza è bianca, e si restringe. Lentamente attraversa l'apparente rettangolo dello specchio e passa dall'altra parte, dove il mio riflesso raccoglie le parole che intanto io ho perso, e ne ricompone l'ordine ma non il senso. E sorride. Sollevo le palpebre e con esse lo sguardo verso il soffitto, soltanto per scoprire che anche lassù c'è uno specchio identico al primo, che riflette la mia stanza e in essa anche me stesso; e come questa stanza, anche quella si riversa in questa lentamente, e la stessa cosa si ripete ad ogni lato della stanza. Richiudo le mie palpebre e rivolgo le mie pupille verso il fondo del mio cranio, e lo scopro cambiato. Non più una calotta a volta, come quella apparente del cielo, bensì un ipercubo, con al centro un iperottaedro , ed entrambi ruotano in direzioni opposte intorno ad un punto fisso, che riconosco come la mia coscienza. Appoggio il mio sguardo su uno dei piani in movimento, e lo lascio trasportare dopo infinite rotazioni sul lato opposto a quello da cui è partito, ed infine apro gli occhi. La stanza è bianca, e si allarga: lentamente vi si riversa quella riflessa, attraversando l'apparente rettangolo dello specchio; e come quella stanza, anche questa si riversa lentamente in quelle riflesse in ogni lato della stanza. E la stanza risuona del fruscìo delle parole che il mio riflesso disperde, e che io intanto trascino con la punta delle dita sulla superficie liscia delle cose, ricomponendone l'ordine ma non il senso. Sorrido, ma non il mio riflesso. Dietro le sue spalle camminano sul posto coloro che mi saranno cari, ma non vedo altro che le loro spalle che ondeggiano avanti e indietro, come a scendere una scala senza fine, e non vedo il loro volto. Intanto le mie dita si allungano e si moltiplicano, trascinando ognuna una parola fino a formare una frase con un ordine: ma non dura che un istante, e già l'ordine è svanito, e le mie dita riprendono a trascinare le parole in giro per la stanza.
Is there anybody out there? - Pink Floyd (The Wall, 1979) |
Post n°281 pubblicato il 15 Febbraio 2014 da lab79
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Post n°280 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da lab79
Mi sono posto il dubbio molte volte, di dove le mie azioni (e beninteso: non azioni) mi avrebbero potuto portare. Mi sono chiesto spesso in quale posto sarei finito, in conseguenza alle mie decisioni. La risposta è semplice. Qui. Mi ergo in piedi sul mucchio crescente dei miei rimpianti, e da quest'altura vedo la sconfinata valle che mi circonda. Come tutti voi, cerco di convincermi che si: devo essere orgoglioso di quanto fatto, e di quel poco che ho raggiunto. Che ho poco o nulla di cui rimproverarmi. Forse è vero. Certo, quel poco che ho fatto avrei potuto farlo meglio, ma alla fine dei conti: a chi importa? Mi consolo pensando che in fondo non sarei andato tanto più lontano, ho le gambe troppo molli, e il fiato troppo corto, per immaginare di arrivare tanto più in là. E invece, no. Sono ancorato a questa terra dal peso dei miei rimpianti, più che dalle loro conseguenze. E sono tanto più colpevole dei chilometri che non ho percorso, piuttosto che delle volte che sono caduto in quelli che ho attraversato. Ad un certo punto, bisogna pur ammetterlo. Bisogna pur smettere di coltivare tanto autolesionismo. E chissà. Magari diventare un tantino più saggi. Semplicemente vivendo.
Wise up - Aimée Mann ("Magnolia" Original Soundtrack, 1999) (In qualche modo, questo post vuole essere il mio piccolo personale pensiero, dedicato a Philipp Seymour Hoffmann.) |
Post n°279 pubblicato il 07 Febbraio 2014 da lab79
Che cosa sono le parole, per me? Che significato ha per me questo scrivermi addosso? Quali scopi intendo raggiungere? Quali bisogni pretendo di soddisfare? Chi è il protagonista di questo racconto? Chi è il destinatario di questi pensieri? A quali porte tento di bussare? Chi mi aspetto che mi venga a cercare? Quanto a lungo intendo aspettare?
The world is our____ - This will destroy you (Young mountain, 2006) |
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