Don Luigino è stato il primo prete che ho conosciuto nella mia parrocchia, i sacri Cuori di Gesù e Maria, circa 30 anni fa. Sono stato fortunato. E' un prete in gamba. Dinamico, colto, intelligente, di mentalità aperta, ma rigoroso nella dottrina e nella pastorale. Parla in modo chiaro, semplice e sintetico e ha un gran senso dell’umorismo. E' stato il mio padre spirituale. Determinante per il mio cammino di fede, non esente da tormenti.
Ora Luigino ha 55 anni e dal gennaio scorso ha scoperto di soffrire di una grave forma di tumore ai polmoni. Lui che non aveva mai toccato una sigaretta. Apprenderlo è stato uno shock per tutti noi che siamo suoi amici. Lui resiste, lucido, consapevole della gravità del male che gli cova dentro, spaventato dai bollettini medici che si fa spiegare e memorizza con la solita meticolosità, ma incredibilmente sereno. Fino ad ora ha continuato la sua attività di parroco con un’intensità e un’energia persino superiori a quelle abituali. Quest’estate, testardo, ha voluto addirittura tornare in Bolivia, per stare ancora una volta accanto alle suore Missionarie della Dottrina Cristiana e aiutare i poveri del villaggio di Hardeman, adottati a distanza dalle famiglie della sua parrocchia. Poi è stato in Terra Santa, sottoponendosi a un altro viaggio che sarebbe stato faticoso anche per una persona che non è nelle sue condizioni. Ma nessuno poteva fermarlo. Noi che siamo suoi amici stiamo ricevendo, con autentico strazio, ma anche con commozione, un’ennesima, nuova, grande testimonianza di fede.
Domenica sono andato a trovarlo in ospedale. Un flusso continuo di visitatori. C’erano altri suoi vecchi amici, parrocchiani di ieri e di oggi. Il suo fisico è provato, ma lo sguardo è vivo. Parla con un filo di voce ma ha un’energia spirituale, che ti trascina. ‘Sono un raccomandato da Dio’ ci ha detto interrompendo l’aerosol. ‘Ho potuto contare sulla miglior assistenza medica possibile, grazie ai tanti amici medici. So bene che me li ha mandati il Signore perché mi aiutassero’. E poi, meravigliato, aggiungeva: ‘Ricevo più di cento messaggi al cellulare, da tutto il mondo. Non ho neppure la forza di rispondere!’. E ancora ci diceva sorridendo: ‘Non ho dolori particolari. Ho potuto continuare la mia attività pastorale e poi fare i viaggi che volevo. Ora soffro solo perché non ho più la mia voce squillante. E pensare che cantare è sempre stata la mia passione! Era il primo talento che Dio mi aveva dato, e ora è il primo che si è portato via. Mi piace Dio, perché è spiritoso!”. “Ora spero di continuare le terapie in day-hospital perché ho tanto da fare in parrocchia. Nelle mie condizioni – ha aggiunto – capisci quali sono le priorità nella vita. Capisci che noi non siamo niente e che ciò che conta è solo il perdono. E’ solo l’amore che Dio Nostro Signore ci dona. Completamente gratis. Noi non meritiamo nulla. Così come non meritavano nulla gli apostoli che Gesù amava. In fondo Pietro, Tommaso, Matteo, anche Giovanni, erano tutti peccatori deboli, come noi”. Ci ha poi confidato un altro cruccio: non poter celebrare la Santa Messa tutti i giorni. “Però posso partecipare all’Eucaristia quando i miei amici sacerdoti vengono a celebrarla nella mia stanza di ospedale. E allora che bei pianti mi faccio! Vado in estasi!”. Sentirgli dire queste parole, mentre sorride nel suo letto d’ospedale, dà i brividi. Tocchi con mano come la fede può davvero sublimare la sofferenza. La sua forza ha un’essenzialità che quasi spaventa chi come noi è sempre turbato da mille inutili preoccupazioni materiali.
Qui sotto ecco alcune righe che ha scritto recentemente. Ve le riporto perché possiate condividerle e meditarle.
Vi abbraccio, Fabio...
“Il contatto con i malati è veramente qualcosa di straordinario, che ti ricostruisce dentro. Questa è almeno la mia esperienza dopo trent’anni di sacerdozio. (…) Ancor più oggi, che mi trovo anch’io a vivere la malattia in prima persona, dalla parte del malato, sto scoprendo l’azione straordinaria della Grazia di Dio nei momenti di dolore e di prova. Intendiamoci: la sofferenza non ha nulla di poetico o di nobile. È dura e difficile. Per tutti. Non consiglio ai miei confratelli di offrire ai malati profonde meditazioni sul dolore. Meglio tacere o al massimo lasciar parlare brevemente il Vangelo di Gesù. Piuttosto siamo noi a dover imparare da chi soffre. Osservare, ascoltare, capire, condividere, com-patire. (…) La sofferenza è una grande scuola, non di rassegnazione, ma di speranza. Innanzitutto di quella speranza soprannaturale, virtù teologale, che ci spinge a guardare verso il cielo, verso il nostro traguardo ultimo e a misurare le cose di questo mondo in riferimento a quello. Ma poi anche di quella speranza quotidiana e semplice che ci fa scoprire con gioia la solidarietà degli altri, un po’ di umanità, un po’ di attenzione e di rispetto, merci che sembrerebbero tanto rare oggi”.
(Mons. Luigino Pizzo, articolo scritto per RomaSette.it, il 21 maggio 2008).
“Il Signore mi ha concesso tutti i doni che gli ho chiesto: poter andare in Bolivia a salutare le mie bambine, poter andare in Terra Santa con il pellegrinaggio parrocchiale. Sono stato benissimo! Non ho più niente da chiedere. Ora posso andare in pace. (…) Perché il mio cuore è in Paradiso! Il mio corpo è spezzato, ma il cuore è in festa e canta! Il Signore non mi ha mai fatto provare gioie così grandi come in questi giorni. Ora c’è tutto: Roma, Bolivia, confratelli sacerdoti, suore, figli spirituali, un mare di amici. Ci siete tutti! (…) Ho capito finalmente perché siamo tutti missionari: perché la missione è solo due cose: annunciare il vangelo di Gesù (anzi, cantarlo!) e dare la vita”. (Mons. Luigino Pizzo, Lettera testimonianza per la Veglia Missionaria della Diocesi di Roma, 16 ottobre 2008).
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il 21/11/2008 alle 11:35
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il 10/11/2008 alle 14:52
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il 20/10/2008 alle 10:53
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il 20/10/2008 alle 10:13
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il 20/10/2008 alle 08:53