Creato da uomosenzaqualita il 04/11/2012

L'uomo senza qualità

Un comune caso di personalità multipla

 

Tempus fugit

Post n°24 pubblicato il 01 Ottobre 2013 da uomosenzaqualita

 

 



Ormai da anni, nella sua maturità, lui ha del tempo una percezione di volta in volta variabile, irregolare, forse comune a tutti, ma che lui reputa molto sua, quasi mai neutra, indolore; piuttosto dolorosa e magari, il più delle volte, nella migliore delle ipotesi, anestetizzata. Una percezione che non sa (né può) comunicare agli altri, a nessun altro, nemmeno a lei. Ad ogni modo il tempo passa e passa e non può farci assolutamente niente. Ovvietà dell'ovvietà. Ma bisogna dirlo: il tempo passa e non si può farci niente. Né fermarlo, né rassegnarsi. O, almeno, lui non ci riesce. Neppure chiedendo un ingannevole aiuto alle teorie scientifiche o a certe grezze letture da autodidatta e dilettante, che lo pongono a contatto (rozzamente) con i concetti di tempo locale e tempo totale, dilatazione dei tempi ed equazione del tempo, tempo universale e soprattutto tempo relativo, ossia la struttura che lega tempo a spazio, in quell'assoluto spaziotempo di cui Einstein ha potuto scrivere che "il mondo in cui viviamo è un continuo spazio-temporale a quattro dimensioni" (tre coordinate spaziali x, y, z e una coordinata temporale, il valore del tempo t), e Poincaré, di rimando: “nella nuova concezione lo spazio e il tempo non hanno più due entità distinte, come si potrebbe dire, ma due parti di un tutto, e parti più durevolmente, intimamente connesse al punto da non potersi più agevolmente separare.”

Il tempo: questo torturatore, tiranno e scalpello, sghembo pedagogo e pediatra di ragazzi invecchiati come tutti coloro che danno al tempo un potere sovrabbondante, enorme su di sé, e poco, invece, ne danno alle loro vite, in questo mal consigliati da cattive matrigne come l'ansia, la vergogna, la paura e da pessimi tutori come l'orgoglio e lo scontento. Fatto sta che lui ne paventa lo scorrere, pur non tralasciando nulla per imprimerselo bene dentro, a contrasto. Così compulsa spesso e volentieri calendari, lunari, agende e ha confidenza con il loro armamentario di numeri ordinali e cardinali, di prima e poi: dunque, ancora una volta, con i numeri, coi quali un tempo era stato in fiera discordanza. Un tempo, appunto. Non ora. Ora che legge e trascrive naturalmente brani come questi:

"Anche i rintocchi sono tornati: le tre del pomeriggio".

"Sarebbe l'ora del telegiornale".

"Guardare e riguardare l'orologio da polso, per convincersi che il tempo passa insensato. Il tempo non si è ancora mai fermato solo perché un uomo si annoia e sta alla finestra e non sa che cosa stia pensando".

"Anche questa sera. Una forcella cosi arde per ore".


I - to be continued

 

 
 
 

Meriggiare pallido e assorto

Post n°23 pubblicato il 28 Settembre 2013 da uomosenzaqualita

 

 

 

La casa ha grandi stanze, lunghi corridoi, angoli imprevedibili, è un affastellamento di luoghi e muri, di tempi passati, ricordi frammentati, sfumati in questa luce ocra, eppure vicini e vividi.

Nei molti nascondigli, evanescenti e indecifrabili tracce non della vita, ma di ciò che ne permane, scarti, rimpianti non più pungenti, gioie un poco appassite. Su tutto, il velo dell’anima che si assottiglia, evapora in questa luce usurata, in questo deserto che affanna il respiro.

Poi, dalle pareti chiare, un soffio gentile, una brezza di odoroso azzurro sbiadito, rugoso e pungente, si fa nostalgia che acquieta.

E' il tuo sguardo stupito, gentile e triste, come a volte la vita. La tua rabbia, la tua rassegnazione. Per me è la tua leggerezza, la trasparenza delle figure che popolano le tue stanze.

E' il pomeriggio silenzioso, “pallido e assorto”,denso della luce pigra dei pomeriggi di mezza estate, è questa cucina appena lavata. E' aria di speranza, e l'odore dolce di un mazzetto di gelsomino.

Sta, in questo silenzio sospeso la tua figura aggraziata, minuta, rannicchiata sulla sedia come un gatto.

E in questa frescura, la vita lentamente si scioglie, come l'ansia evapora nella tiepida ombra del pergolato amico.

E il tempo, il tempo finalmente indulgente si placa, regala schegge di emozioni, piccoli ricordi, freschi.

Immagini di una campagna viva, sporca, come le cose inviolate. Di un selciato che odora di susine calpestate, di voci che si perdono, di una ragazzina con capelli neri e ciglia nere dalla voce roca e la grazia attenta e sguaiata di un uccello.

E come un vento amico, la memoria, calore dell'anima, si posa in questa stanza calda, su questi quadri appesi, sfuma nell'odore di questa cucina troppo usata, dalle persiane accostate.

In questo regno del silenzio.

 

Siena, luglio 2013

 
 
 

Il fromboliere entusiasta

Post n°21 pubblicato il 21 Settembre 2013 da uomosenzaqualita

 

 

Ho imparato a convivere con la mia incostanza da quando me ne sono reso consapevole.

E’ accaduto, come capita per ognuno, in un punto indeterminato di quella parte di vita che consideriamo giovinezza.

Se poi, come è stato per me, la scoperta della propria indole si rivela una delusione per la sua pochezza, essa coincide con un bivio che raramente nella vita si manifesta più di una volta.

Quello in cui hai l’opportunità di imboccare un sentiero faticoso, incerto, pericoloso, di cui non puoi prevedere né lunghezza né approdo, ma che in qualche modo sai, o credi di sapere, o forse sei stato indotto a credere, che farà di te un individuo migliore.

L’altra opzione è infinitamente meno faticosa, e forse anche meno pericolosa: è la rassegnazione.

Con l’età, la cifra di questa scelta diventa sempre più definita.

I dettagli della tua scarsezza diventano sempre più evidenti e definiti. Conseguentemente, ciò che terrà insieme la tua vita sarà allora una serie lunghissima di auto-giustificazioni, compromessi, bugie o, quando va bene, mezze verità.

Col tempo poi, ineluttabilmente si constaterà che ci vuole molta, molta più fatica, a convivere da vecchi con se stessi di quanto non ce ne voglia, da giovani, per cambiare.

Ma questo, nella migliore tradizione dei luoghi comuni sulle età, è il limite della gioventù.

Il titolo del blog dell'altro mio nick è quello dell’autobiografia di Pablo Neruda, "Confesso che ho vissuto". Non ho certo pretese di fare accostamenti che risulterebbero semplicemente grotteschi.

Ma la sua lettura, e quella di molte sue poesie, spesso è stata per me la tavola galleggiante cui aggrapparsi in un mare sempre più agitato di quanto potessi reggere.

“Io sono colui che è passato con un salto sulle cose, il fuggitivo, il sofferente”.

Sono stato, e sono, quel che sono. Non sempre mi riesce di fare ciò che so essere giusto, ma è evidente che il giusto è di là dalle mie competenze.

Di tutte, l’ingiustizia commessa più grave è stata, ed è tuttora, più che il tradimento il difetto di reciprocità con chi mi ama.

Mi dichiaro colpevole, sapendo che comunque questo non mi varrà il riconoscimento delle attenuanti, neppure quelle generiche.

Fossi praticante potrei chiederei al mio confessore: che accade ai peccatori che pur essendo realmente pentiti non riescono a smettere di peccare? Ma purtroppo non pratico, e neppure credo. E un poco me ne dispiace.

Grazie per l’ascolto e buona vita a voi.

 

 

P.

 
 
 

B&W

Post n°20 pubblicato il 02 Settembre 2013 da uomosenzaqualita

 

 

E se fosse davvero così semplice, banale addirittura. Togliere il colore. Aggrapparsi al bianco e al nero.

Tra i quali però si stende l'ineluttabile deserto dei grigi. 

La vita come una camer oscura, dunque.

Tutto si risolverebbe ad acquisire la necessaria ... scaltrezza nel togliere la stampa dal rilevatore al punto opportuno di contrasto.

E sarebbe un altro inganno, perché la risolvenza è nel fotogramma, nel negativo.

Belva feroce, il negativo.

Ti assilla, ti scava con la punta della possibilità. L'immagine è lì, latente, non ancora espressa, eppure già immodificabile.

Per quanti artifici ti consumerai ad usare, tempi, concentrazioni, movimenti, non potrai mai sapere quanto ha preso di te, sino a quando non l'avrai rivelata.

E a quel punto, qualunque sia l'orizzonte che ti sarà proposto, sarà comunque troppo tardi. 

Ma tu sei dell'era digitale. A te basta uno sguardo al piccolo monitor. E puoi decidere.

Puoi cancellare per sempre, puoi salvare, magari per cancellare in seguito, mantendo così la tensione sempre al massimo.

Puoi persino correggere, e rendere ciò che non ti piace come a te aggrada.

Io invece, mia cara,  mi devo buttare, sperando di non accorgermi della mancanza della rete a balzo ormai spiccato.

P.

 

settembre 2013

 
 
 

1974

Post n°19 pubblicato il 05 Luglio 2013 da uomosenzaqualita

 

 

Da qualche tempo ho ripreso il vano tentativo di mettero rodine alle mie cose.

Migliaia di negativi e diapositive da digitalizzare. Un numero imprecisato, ma comunque enorme, di scatti digitali.

E scritti. Lettere. Racconti. Versioni poi non pubblicate e incipit di lavori mai finiti. Una montagna di cartelle dattiloscritte o scritte a mano, rovine dei tempi pre-informatici.

Non so dire se questa rinnovata .... urgenza sia un effetto "recherche" da età che avanza o da semplice stanchezza.

In ogni caso, resta che di moltissima parte di tutto ciò non avevo neppure memoria.

Ricordo invece perfettamente il contenuto di una specifica cartelletta, che pur avendo tolto dal fondo del cassetto in cui stava, non ho ancora aperto, e dal tavolo su cui è posata sembra incombere su tutto ciò che faccio.

Contiene alcuni ritagli di giornali del 1974, articoli di cronaca che riportano un episodio accaduto nella mia città.

Quel episodio riguarda la storia di Patrizia e Paolo, iniziata ai sedici anni di lei e ai diciassette di lui.

Si conobbero a scuola, e come è naturale che potesse accadere, si presero, con tutta l’inconsapevolezza necessaria per farlo.

Altrettanto naturalmente, la cosa si andò esaurendo nei due anni successivi. Probabilmente fu perchè lui non capì di non bastarle. Insomma, Paolo fu lasciato, o meglio, abbandonato. Avrebbe potuto, a quella età, non soffrirne come raramente gli sarebbe capitato in vita sua?

Le notizie che Paolo riuscì ad avere della vita di Patrizia nei mesi successivi, divennero sempre più frammentarie e cupe. Patrizia era diventata eroiname, come frequentemente accadeva a quei tempi a chi non si bastava. Viveva a Roma, dove faceva di tutto, compreso occasionalmente prostituirsi, per potersi fare.

Passarono altri due anni. Incolori.

Inaspettatamente, un venerdì sera, Paolo incontrò Patrizia in un locale della sua città. Gliela indicò un amico, ma faticò non poco a riconoscerla. E davvero Patrizia era qualcos’altro dalla persona che Paolo pensava di aver amato. Si avvicinò per salutarla, per parlare. Ubriaca e fatta fradicia, ci mise un tempo infinito a riconoscerlo. Lui la salutò frettolosamente e fuggì, incerto se lei lo avesse davvero riconosciuto.

Nelle settimane successive Paolo si sforzò di rimuovere il ricordo di quell'incontro. Ma i suoi sforzi furono vanificati quando, una domenica pomeriggio, rispondendo al telefono, sentì la sua Patrizia singhiozzare dall’altra parte della linea.

Si fece dare il suo indirizzò e la raggiunse. Quelli che seguirono furono mesi terribili. Lei si devastava in continue crisi di astinenza e quasi sempre finiva per cedere. Esattamente come in una mediocre sceneggiatura da film, arrivò a rubare danaro dal suo portafoglio, oggetti di casa rivendendoli per procurarsi roba.

Lui arrivava a casa e la trovava invariabilmente sconvolta. Il sesso tra loro era incomprensibile, ed era sempre lei a volerlo. O almeno a lui così sembrava. Era qualcosa di liquido, inconsistente. Lui sapeva perfettamente che nulla d’altro era se non la disperata ricerca di Patrizia di una via d’uscita, la simulazione di una normalità irrimediabilmente persa.

Poco prima dell’estate di quel anno lei scomparve di nuovo. Paolo non la cercò.

Faceva ancora buio la mattina dell'ultimo dell'anno del 1974, quando ancora una volta Paolo fu svegliato di soprassalto dal telefono.

Una voce maschile gli chiese se fosse lui l’uomo di Patrizia. Senza aspettare risposta la voce continuò e gli diede un indirizzo, dicendogli che lei si trovava là e che stava male per della roba sporca con cui si era bucata. Che se la venisse a prendere.

Non fu una decisione, ma solo una reazione automatica. Meccanicamente, si vestì in fretta e furia e volò all’indirizzo ricevuto. 

Arrivò e la trovo per strada, seduta appoggiata alla parete di una casa accanto ad un portone. Indossava solo un maglione, pantaloni, un giaccone da uomo, scarpe senza calze. Sudata e fredda. Il respiro corto. Grigia.

Lo investì un’ondata di panico mai provata prima. La chiamò urlando, la scosse, la schiaffeggiò. Lei sembrò riaversi. Lo fissò negli occhi, forse lo vide e accennò un sorriso sbieco.

Paolo guardò il deserto intorno in cerca di aiuto. Si avventò sul citofono della casa e si attaccò al primo pulsante. Dopo un tempo infinito una voce gracchiò chiedendo chi fosse. Lui cercò di spiegare e pregò di chiamare un’ambulanza. La voce non rispose e il citofono tacque di nuovo.

Lui suonò di nuovo a lungo. Una finestra si illuminò e qualcuno si sporse per guardare. Una voce urlò di piantarla, che avevano già chiamato.

Arrivò l’ambulanza che inizia a rischiarare. Due o tre persone scesero velocemente e le si affollarono intorno.

Lui chiese dove la portavano e se potesse salire sull’ambulanza. Gli dissero di no.

Saltò sull’auto e seguì l’ambulanza. Al pronto soccorso stava per seguire la barella quando fu bloccato da un poliziotto. La vide sparire dietro la porta bianca.

Di quelle ore successive, Paolo ricorda solo la stupida ostilità del poliziotto che cercava in tutti modi di fargli dire che l'eroina gliela aveva fornita lui.

Patrizia morì di overdose alle dieci e venti del 31 dicembre 1974. I titoli dei giornali, due giorni dopo, avrebbero riportato: “Emergenza droga: tre altre vittime in una sola notte.”

Lui capì immediatamente che quella notte appena trascorsa sarebbe stata una parte per sempre ineludibile della sua vita futura.

Incrociò i genitori di Patrizia in corridoio mentre se ne andava. E’ possibile che il rancore che vide nel loro sguardo fosse solo una sua impressione.

Chissà chi erano gli altri due morti di quella notte.

Non riesco a trovare un posto adatto dove riporre la cartella.

E nessuna immagine che non sia ipocrita.


Milano, data imprecisabile

 

 

...

 
 
 

Procelle metropolitane

Post n°18 pubblicato il 02 Luglio 2013 da uomosenzaqualita

 

 

E' un diluvio di qualche tempo fa, in piena campagna elettorale, verso le dieci di sera. Sull'isola che separa le acque della circonvallazione da quelle della corsia della filovia, ci siamo solo lui e io. Lui è un signore di settant'anni circa, alto e magro e con gli occhietti tesi e attenti.

Macchine e schizzi da terra, acqua di stravento, nuove ondate al passaggio di un'ambulanza, in corsia preferenziale. In acqua due anche qualche moto, noi soli a combattere gli elementi, chissà che ci fa il vecchietto adesso qui, con questo tempo ladro ... e sono di nuovo onde e folate, in attesa dei soccorsi.

Ma dice che è in ritardo, a volte ne salta pure una, dice. Il vecchio è un vero lupo di mare, ne deve aver fatte di battaglie, tra Lodi e Lotto. E sottocoperta non c'è niente da fare: la panchina d'attesa imbarca acqua da tutte le parti, pure se coperta da un tetto, perché il flutto è possente e da ogni parte ci travolge. Lui si gira, non parla, evita, torna a guardare... Poi la filovia spunta, lontana... oltre lo stretto dell'incrocio.

Si sale. E lui mi spiega che prima la Moratti per Milano non ha fatto un gran c... di niente. Non sono strade, sono oceani pronti a svelare la propria natura alla prima pioggia. I vetri ci riparano dagli elementi infuriati e al semaforo si guarda il muro della casa alta, quella con i cartelloni pubblicitari.

C'è un tipo che dice di essere stato operaio, che con lui l'Italia invece di così potrebbe forse ... E poi quell'altro che gli sta di fianco, che si raccomanda che lui per il verde venderebbe chiunque ... Il capitano è in piedi, mica si siede lui... Guarda a dritta, dentro l'uragano.

Macché, no... guarda proprio quei due nei cartelloni... E tace. Si tiene con forza, guarda fisso, e tace. I due sono là sotto la pioggia, stampati, e ridono. Come ridono... Intanto il mondo è travolto da onde e schizzi violenti. Il capitano distoglie gli occhi e prenota la fermata.

E più che li guardo, più che ridono, più che il disastro si consuma, più che mi sento come quelli là... quelli là di cui dicevan che

"tre volte il fe' girar con tutte l'acque

la quarta levar la poppa in suso e

la prora ire in giù com'altrui piacque

in fin che 'l mar fu sopra noi richiuso"...

 

Milano, Gennaio 2013

 
 
 

Il fotografo

Post n°17 pubblicato il 09 Marzo 2013 da uomosenzaqualita

 

 

 

Il palmo a chiudere interamente il volto, null'altro. Una barriera, si direbbe, invalicabile; o, au contraire, un invito a esplorare quel paesaggio, e l'attesa in penombra di qualcuno che valichi finalmente il crinale, scivolando tra le dita divaricate ...

Dépend de celai qui passe

Que je sois tombe ou trésor

Oue je parle ou me taise

Ceci ne tient qu'a toi

Ami, n'entre pas sans désir.

Ma la geografia della mano è troppo attraente, invischia il viandante nel suo reticolo di strade ruvide, di scoscesi pendii e cupe forre. Qua e là s'allargano piane battute dal sole, visitate dal vento dell'ovest che porta parole, appena udibili in tanto ronzar di cicale. A tratti il cielo s'oscura, e i nembi arruffati minacciano liquidi onori; tutto è silenzio nell'aria sospesa. Solo allora i boschi di querce ai margini delle radure riprendono le loro nenie immemori, d'un tempo diverso e lontano; e le allodole di passo arrestano il volo per ascoltare le storie dei poeti morti, di fanciulle dai vasti occhi sotto lune sanguigne. Poi cala la notte, più fonda, più nera; larve s'affollano attorno ai grandi pozzi nella piana, per specchiarsi nell'acqua che lustra laggiù, tra muschi e capelli d'alga. E' un'acqua, quella, capace di rendere il volto a chi l'ha perduto, e fattezze d'uomo a chi è divenuto altra cosa; dicono i valligiani che non patisca immagine di vivo. "Stanotte a casa non ritorno”.

La ricerca si fa difficile, i sentieri disegnano la trama d'un sogno impossibile, innescano labirinti ombreggiati da enormi foglie venate d'azzurro, avvezze a proteggere le creature silvestri, gli gnomi astuti che riparano suole coi loro martelletti d'argento. La marea di fredda luce gonfia e trabocca, protesa verso i golfi del cielo donde discende; e ancora il sibilo del vento coagula parole, mentre le nebbia che si annida nelle convalli aduna i suoi lembi

"Mi volevi? Non è per vedermi di nuovo che hai percorso il mio regno? Eccomi, dunque."

"Mi hanno detto che vuoi lasciarmi. Non farlo."

"Ti affido alle potenze di luce. Qui è solo opaca bellezza".

"Non amo la luce; e con la bellezzaa so costruire guglie altissime di castelli.

"Devi correre libera per il mondo."

"La mia libertà è nella catena secolare che mi lega a te, e a coloro che ti hanno preceduto."

"Non ti spaventa il muso di porco dell'angoscia, quando ti senti le braccia serrate come da camicia di forza, e invano sbatti alle pareti di carta della tua prigione?"

"Ma qualche volta volo."

"Allora va'... La vedi quella sella? Sì, proprio lì, tra l'indice e il medio: sta' sicura, è un corto passo"

Così svanisce, quietamente, la mia ragione.

A presto.

 

Egandina, marzo 2013, redivivo, e pazzo.

 

 
 
 

L'assente

Post n°16 pubblicato il 10 Gennaio 2013 da uomosenzaqualita

 

 



Quando comparve, semplicemente, spalancò la porta. Non una parola.

E si prese quello che, senza saperlo, era suo da sempre.

Non c'era nulla che la potesse veramente fermare.

Non io, né gli anni in cui l'avevo immaginata. Aspettandola.

La prima volta indugiò qualche attimo sull'entrata, graffiando le pareti con uno sguardo. Poi, immobilizzò la luce con gli occhi e la scagliò tutt'intorno, rovesciando tavoli e sedie.

Non toccò nessuno di quelli che stavano a guardarla, non quel giorno almeno, ma confuse i libri, le foto, i ricordi, lasciandoli all'apparenza intatti e irriconoscibili.

Ad ogni suo ritorno si muoveva più sicura, passo dopo passo, a calpestare il grigio freddo dei corridoi, ed il legno stanco e rigato delle camere, cambiandone il disegno e la disposizione.

E a poco a poco non ci furono che spazi per lei. Per lei sola.

L'aria, al suo spostarsi, sollevava la polvere degli anni, in nuvole sottili e vorticose, che trovarono riposo in altri luoghi; e molti oggetti rividero la luce, e di molti altri, ne persi il contorno.

Senza un grido cambiò i rumori, e li sommerse con un sordo brusio fatto di aspettative e incertezze.

Poi rovistò nei cassetti, e senza saperlo lasciò cadere cose preziose a coprire quelle grigie di tutti i giorni, che avevo tenuto via con cura, conservate e custodite come antidoto alla passione.

Spostò mobili, quadri, finestre, senza neppure toccarli, ma solo cambiando il mio modo di vederli.

Di viverli.

Niente fu più al suo posto.

Se non io, dentro di lei. E lei avvolta a me.

Chi visse tutto questo da fuori, non vide altro che il mio cambiare e pensò : " ... nessuna cosa buona " .

E io.

Io persi solo i miei quasi sessant'anni.

Potendo così viverne, per due volte, trenta.

 

P., Trasversland, 2013

 

 
 
 

Letargo

Post n°14 pubblicato il 02 Gennaio 2013 da uomosenzaqualita

 

 

Mi è stato chiesto quanto amara sia la mia vita.

Non saprei dire ... d'istinto mi verrebbe da rispondere che non la sento amara, ma piuttosto ... faticosa, perché limitante.

Trattenere la propria indole è sempre senza dubbio molto più faticoso, anche fisicamente, che non assecondarla e soddisfare desideri e pulsioni che essa genera.

Uno dei drammi del vivere, che il pudore vorrebbe venisse, ma raramente accade, raccontato con il limite del melodramma e del luogo comune, è che è realmente più facile farlo alimentandosi di rimorsi che non di rimpianti.

Ma, il terribile "ma" incombe sempre in questi casi, il rimorso, da non confondersi con il molto più impegnativo e coerente pentimento, quasi sempre sottintende un errore, un'azione negativa, una conseguenza non gradita. In paticolare, v'è una categoria di errori il cui prezzo non è mai interamente pagato da chi li commette. A meno infatti di non aver scelto, ammesso che sia possibile, di creare intorno a sé la più totale segregazione, le nostre azioni hanno sempre ricadute su chi ci è prossimo. 

Il senso di colpa che ne deriva è prodromo potentissimo di persistenti, e terribilmente feroci, rimorsi.

Il caso, o il destino per chi ci crede, mi ha in un certo senso costretto ad un ruolo che non poteva essere più lontano dalla mia indole "naturale". Una sorta di "vizi privati e pubbliche virtù" insomma. Serio ed equilibrato in "società", incontrollabilmente dipendente dalle emozioni in privato.

Un ruolo che peraltro mi dà molto, in termini di affetti e gratificazioni, lo ammetto.

Ma non è quello che avrei voluto.

Recenti incontri (e ri-incontri) mi hanno fatalmente portato a riflettere su piccole verità che, molto abilmente lo ammetto, ero riuscito a dissimulare.

Me ne sono reso conto ieri mattina, mentre passeggiando nel parco con la macchina fotografica, dopo aver inquadrato un'immagine che mi ispirava, mi sono a lungo bloccato guardando il paesaggio riprodotto grazie al suo riflettersi sullo specchio, il suo passaggio sul prisma, e il suo presentarsi all'occhio attraverso l'oculare.

In una frazione infinitesima di tempo, mi sono interrogato se fosse più ... giustificabile che consumassi per l'ennesima volta quell'illusione, premendo quindi il pulsante di scatto e assumendomi così il peso del rmorso di aver ancora una volta simulato, oppure che lasciassi perdere, che la reale realtà rimasse tale, che uell'immagine restasse latente al mio occhio, e diventasse un'occasione mancata, un nuovo rimpianto.

Ho guardato la mia compagna e mia figlia poco distanti, ferme anche loro ad assorbire la magia di quegli elementi: la leggera nebbia che ristagnava a livello del terreno scuro, le sagome degli alberi e dei cespugli, le chiazze di tardiva neve ghiacciata che resisteva alla luce stentata, il ponte di pietra sul ruscello in lontananza, lo stagno ai piedi della collina, il silenzio assoluto, il freddo pungente ... un miracolo di armonia ed equilibrio circondato dalla città addormentata che si intuiva intorno.

Sarà considerata una cosa insensata, lo so, ma ho avvertito che scattare sarebbe stato come tradirle, una volta ancora.

L'ho già scritto nel blog del mio alter ego ... starò via non so quanto a lungo.

Chi ha avuto la disavventura di conoscermi un poco più da vicino, sa che non è la prima, e probabilmente nemmeno l'ultima, volta che mi perdo in questi lidi.

Magari il disgelo tornerà a far prevalere l'indole del fotografo sugli scrupoli, neanche fossi un ventenne. :-)

Buon viaggio a tutti.

P.

 

 
 
 

Attesa

Post n°13 pubblicato il 30 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita

 

 

 

Che quest'anno muore lo capisco dal sangue, dal lento passaggio dei globuli rossi, dal flusso ostinato ed immenso di questo fiume insensibile alle sue sponde, alla luce sempre più breve ed esitante dei tramonti.

Le dieci di sera sono un orario impreciso. Ho il dovere di alzarmi e cercare qualcosa da fare. La cena è già stata consumata, il dolce non ce l'ho, il caffè qui è blando, come i sorrisi di questa gente.

Telefono a qualcuno. La decisione è presa. Alzo la cornetta e la vorrei vedere colorata, lei se ne sta in un anonimo bianco. E poi che numero? Quale codice di cifre? Per arrivare a quale volto? Cose da dire. Chiudo gli occhi a pensare. A pensare che giorno ho vissuto. L'aggettivo è anonimo. Altri strascichi grammaticali non me ne vengono. Non un punto esclamativo, no. Punto. E se bevessi un tè? Ma no, che fa troppo anglosassone. Punto esclamativo.

Avrei voglia di raccontare una sola cosa. Piccola e labile, così forse la dico a me solo. Ricevitore e ricevente. Questa mattina ho avuto la sensazione struggente di un'attesa. Un'attesa che doveva venire ma non è venuta. Pazienza. Ci sarà se la vorrò forte, nel futuro. E' da ieri che la provo. Sì, da ieri, se proprio devo dire la verità. Tornavo dal lago. Scendevo dall'auto. La strada era quiete e prospettive lontane. Era il tramonto, anche gli alberi avevano quella luce raggiante, epifanica, che hanno prima di scolorare e morire nel buio invadente. Ero solo. Avevo una grande borsa a ingombrarmi le mani.

Davanti a quel paesaggio, all'insieme del verde del parco e del ritmo concentrico dei miei respiri, ho capito che qualcuno sarebbe stato lì in attesa. Di me. A prendermi la borsa ingombrante, a darmi l'abbraccio del ritorno, a camminare con me per la via. E poi dove? A casa.

A casa. La prigione.

Se suona il telefono forse non rispondo neppure. Ho voglia di pensare ancora. C'è un silenzio astratto. Quasi non mi dispiace più neanche per il dolce.

E oggi ancora. Oggi ancora quella sensazione. Forse più forte, più serrata. Ero in piazza, ed era sempre tardo pomeriggio. Camminavo verso i giardini. La via era particolarmente carina, con un negozio di frutta, e io li adoro i negozi di frutta. Hanno la frutta tutta fuori e tutta colorata, anche d'inverno. Punto esclamativo.

Davanti a me c'erano i grandi alberi del parco. Platani, forse, non saprei. Erano bagnati dal sole, freddo ma brillante, e il cielo in lontananza era un po' scuro, ma di poco. Per uscir fuori dalla via c'era una volta straordinaria. Medievale, color terra. Avrei voluto fotgrafare.

Così ho pianto. Ecco, camminavo e avevo gli occhi lucidi. Le lacrime non cadevano ma erano lì lo stesso. Qualcuno mi guardava, dovevo avere l'aria afflitta. Però altera. Avevo un certo orgoglio fra le dita e forse il senso di una sofferenza atipica. Regale. Mi struggevo.

Io lo sento che il tempo di quest'anno muore. Mi muovo ma è come se restassi fermo. Apro gli occhi?

Ma sì, li apro.

Buon Anno.

 

 
 
 

Le ali di cera

Post n°12 pubblicato il 26 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita


 

La caduta di Icaro, 1558 circa, Pieter Bruguel il Vecchio Musées Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles

 

 

Sulla sofferenza non erano mai in torto, i Vecchi Maestri. Come capivano bene la sua umana posizione, come essa si svolga mentre qualcun’altro mangia o apre una finestra o cammina annoiato, come, mentre i vecchi attendono rispettosi e appassionati la nascita miracolosa, ci siano sempre bambini a cui non importa niente che essa avvenga, e pattinano su uno stagno al limite del bosco.

Non dimenticavano mai che anche il tremendo martirio deve avere il suo corso in qualche modo in un angolo, in qualche squallido posto dove i cani continuano a vivere da cani e il cavallo del torturatore si gratta l’innocente deretano contro un albero.

Nell’Icaro di Breughel, per esempio.

Come ogni cosa si volge del tutto tranquilla dal disastro. Il contadino può avere udito il tonfo, il grido desolato, ma per lui non era un problema importante. Il sole splendeva come doveva fare sulle bianche gambe che scompaiono nel verde dell’acqua; e la nave lussuosa e snella che aveva pur visto qualcosa di sorprendente, un ragazzo che cade dal cielo, sapeva dove andare e calma continuava a navigare.

Ed è ciò che stai permettendo che accada, forse addirittura perseguendo, tra un messaggio che mi dice "per sempre" mentre vuole dire "addio", e la folla di sghimbesci filosofi, ognuno pronto ad offrirti la sua personale sapienza.

Io, se non ispirasse un accostamento irriverente, ti direi solo che ho letto molto, e studiato ancor di più, ma come vedi esattamente come duemila anni fa, il vero sapere è sapere di non  sapere.

Se proprio ci tieni, io solo questo potrò mostrarti.

Diversamente, buona vita a te.

 

Trasverserland, il giorno di S. Stefano

 

 
 
 

La vera verità

Post n°11 pubblicato il 22 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita

 

Qualcuno ricorda Rashomon, mitico film del regista giapponese Kurosawa?

E' la storia di un episodio - che viene raccontato, nel corso del film, dai tre protagonisti: un samurai, sua moglie e un bandito.

Ognuno  dei tre racconta l'episodio, che li riguarda tutti e tre e che li ha accomunati, secondo il proprio punto di vista: ovvero per ognuno quello è la propria verità. Ma qual è quella vera in assoluto?

La morale è che sono vere tutte. oppure, che in ogni verità c'è contraddizione. oppure, che ogni verità è solo una parte della Verità, la quale supera e contiene tutte le verità - per altro vere - che ci appartengono.

Questo può voler dire che nel nostro quotidiano ci capita di essere nella nostra verità, di dirla, di testimoniarla come tale, eppure di non essere totalmente nella verità.

Oppure, che la verità degli altri sia diversa dalla nostra, e ci faccia apparire meno veri e meno sinceri di quanto vorremmo.

Alle volte, staccarsi da sé e provare a guardare noi stessi e gli altri dall'esterno serve a vedere la verità degli altri e a valutarla in quanto tale, e a non pensare più che non sia vera, o che sia meno vera della nostra.

E viceversa.

 
 
 

L_assenza - I

Post n°9 pubblicato il 16 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita

 

 

 

Mi dice, con voce appena velata di un inconsapevole rimprovero (o forse era più malizia): "di te preferisco l'introspezione alla narrazione".

Piccola irresponsabile deliziosa sirena, imputerò alla distanza il tuo trascurare che è da tempo giunto il momento che chiunque scriva, poesia o altro, debba sostenere che i poeti sono profondamente radicati nella vita degli altri uomini, della vita comune.

Non per superiorità, non in vetta a tutto come forse a te piacerebbe fosse, e con i miei versi io stesso. Si, è vero, ce n’è sempre stato qualcuno che ha voluto raccontarci questa frottola; ma siccome in vetta costoro non ci sono mai stati, non hanno saputo dirci se lassù ci piove, ci fa buio, che ci si trema dal freddo, che ci si deve serbare memoria dell’infame idiozia, che vi si sentono le risa di fango, parole di morte. In vetta a tutto, come altrove, più che altrove forse, per chi vede, la sventura distrugge e ricostruisce continuamente un mondo banale, volgare, insopportabile, impossibile. Non v’è grandezza per chi non vuol diventare grande. Non c’è modello per chi cerca quel che non ha mai visto. Siamo tutti sulla medesima fila. Aboliamo le altre. La poesia deve essere fatta da tutti, non da uno solo. Tutte le torri d’avorio saranno abbattute, tutte le parole saranno sacre l’uomo, finalmente, d’accordo con la realtà, che è sua, dovrà solo chiudere gli occhi perché si schiudano le porte della meraviglia.

 

Skypelan, dicembre 2012

 

 
 
 

Ex

Post n°7 pubblicato il 14 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita

 

Devo ammetterlo. Sono diventato un decadente. Non sopporto più i ragionamenti ben costruiti, basati su verità incontrovertibili, non ho "idee chiare e distinte", percepisco i significati dai suoni e dalle forme piuttosto che dall'estensione semantica delle parole, spero in una conoscenza (lo voglio dire!) orfica, misterica, aborro la vita civile e politica, così ordinata e basata sul buon senso, che mi si prospetta davanti, negli anni a venire.

 L'ho capito da poco, e la cosa mi preoccupa. Lo dico davvero, senza ironia né sarcasmo. Perché mi  scopro a scandalizzarmi non tanto per affermazioni inconcepibili per i più (e questi più hanno senz'altro ragione), ma per quella che io (sbagliando) magari scambio per chiusura, preconcetto o pedanteria (a seconda dei casi). Ho terrore degli angeli con la spada fiammeggiante, e di quelli buoni che volano attenti, a vigilare affinché tutto vada per il meglio, secondo le regole di un Eden in cui la natura non faccia salti, in cui le note finalmente tornino a essere sette e non più dodici, in cui sia bandita la disarmonia portatrice di conflitti, e le discussioni (?) seguano dei percorsi stabiliti, con la graduatoria di quelli che capiscono e di quelli che non capiscono. Dove ciascuno sia reso attento a non pronunciare parole non ponderate a sufficienza, che vengano a turbare quest'armonia precostituita, così lontana dal mondo cattivo e pieno di sofferenza (e di assurdità) che sta là fuori. Un mondo in vitro, dove Hume possa finalmente venire sbugiardato.

Sì, ho scoperto che rifuggo dal buonismo violento di chi alla bisogna si trasforma nell'urlo terribile del Dio biblico. Del Dio che sa chi può entrare nell'Eden e chi ne deve stare fuori. Perché è vero, io sono ormai l'uomo più brutto, non ho più (ma ne ho mai avuti?) valori assoluti, ma tutti relativi, per cui sono disposto laicamente a mettermi nei panni dell'altro, purché però anche l'altro si riconosca nella mia stessa condizione. So benissimo che, così facendo, rischio di ingenerare una grande confusione, perché spariglio le carte, e alla fine il Male e il Bene si confondono. Perché non si è più in grado di dire "Questo è giusto! e come tale va mantenuto e accudito" oppure "Questo è sbagliato! e va eliminato affinché non dia scandalo ai poveri di spirito" .... ma, come diceva qualcuno ormai dimenticato, "grande è la confusione sotto il cielo, dunque la situazione è eccellente!"

No, non credo di possedere più le caratteristiche necessarie a ricoprire il ruolo di consulente dell'Eden. Una volta l'avevo mangiata, la mela dell'albero. E sapevo tutto. Ero diventato come Dio. Sapevo ciò che era Buono e ciò che era Cattivo. Avevo dei criteri infallibili e indiscutibili. Ma c'è stato il ritorno, sono di nuovo l'Adamo nudo e solo, e ancora senza Eva (!). So che arriverà. E so che mangerò di nuovo la mela. Per intanto vago come un dio dalle zampe di capro, accompagnato da animali innocenti e crudeli.


Digiland, 2012

 

 


 

 
 
 

Hopperiana - I

Post n°6 pubblicato il 12 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita


 

 

 

 

 

 

E. Hopper, Nighthawks, 1942

 

Cosa desidera?", chiese il cameriere del Mountaine-Grill, immerso nell'odore di friggitoria, di cavolo e di pollo in salsa indiana, di riso e te' e torta di mele e budini e gelatine, mentre con un panno puliva i tavoli del locale quasi deserto.

C'era solo un altro uomo seduto al tavolo di fronte, con i capelli arruffati sotto un berretto di lana e l'aria dimessa, come il cappotto militare che non era della sua misura.

Lo fissava come lo conoscesse, o aspettasse un saluto o una parola per iniziare una conversazione.

"Non ho la cifra esatta per pagare il conto! Mi serve mezzo pound! Posso restituirlo domani, qui, alla stessa ora!"

"Stanotte parto! - rispose - Ha una sigaretta?"

Si avvicinò. Si frugò in tasca e gli porse un pacchetto. Ne prese una e l'accese, poi lo restituì assieme al denaro che voleva. Quello rimase un attimo ad osservare le monete nella mano aperta poi, con un gesto brusco, le lasciò cadere in quella del cameriere che prese a mormorare, come infastidito per aver perso un sicuro lavapiatti per quella serata.

L'uomo tornò a guardarlo ed accennò qualcosa, ma preferì il silenzio e uscendo salutò con un cenno della testa.

Dietro i vetri il selciato di Portobello Road, lucido e bagnato della nebbia, rifletteva la luce dei lampioni, mentre sul fondo lampeggiava l'insegna dell'Electric Cinema Club e sopra la testa e sul ponte, rombava il tuono sferragliante della metropolitana diretta a Ladbroke Grove.

"Cosa le porto allora?" tornò a chiedere il cameriere.

"Un po' di sole, il cielo blu, o magari il vento!" rispose mentalmente, mentre con la mano gli fece cenno di attendere e quello si allontanò continuando a pulire.

 

 

Il vento! Quello che una volta muoveva l'erba alta di grandi distese, come le alghe di praterie marine, e nuvole bianche che correvano veloci, simili a vele di antichi brigantini, talvolta interrotte da una più scura o nera, come il vessillo della filibusta. Sparavano bordate accostando a dritta, dalla cima di una grande ondata che s'illuminava tutta per la vampa contro il cielo colore del piombo, e il vento urlante che ordinava l'arrembaggio, tra riflessi di sciabole d'assalto, rampini e mezzimarinai sulla fiancata. E la polena sotto il bompresso, dal volto di donna con la bocca aperta in un grido e le braccia protese, mentre veniva giù sfilacciato d'acqua, tutto il sartiame e l'alberatura.

Si chiamava Daviana. Così gli aveva detto, ma poteva non essere il suo vero nome. Veniva da un posto imprecisato, chissà magari proprio da MIlano. Dopo giri attraverso l'Europa, era finita a Londra a fare la cameriera e studiare l'inglese. Aveva una stanza in un quartiere a nord della città, nella strada dove si affacciava una serie di case di un italiano dalla faccia porcina, divenuto famoso per buttare in strada i bagagli e le cose di chi era in ritardo nel pagare l'affitto e non aveva intenzione di pagare in natura.

L'aveva conosciuta una domenica di sole a Portobello, mentre con altre, vendeva ai turisti un quotidiano italiano dalla grande scritta rossa, a cui univa il volantino di un raduno e concerto che ci sarebbe stato.

Lo colpì la sua faccia seria, come di persona con altro a cui pensare, a differenze delle amiche sue, tutte prese da movenze e atteggiamento, così come l'abbigliamento, che faceva tanto "alternativo". Quel qualcosa tra misticismo e orientalismo, e una cert'aria ridente di cui era evidente l'assenza di spontaneità, sotto il velo di una libertà esibita e solo imitata.

A differenza sua, erano tutte studentesse in vacanza, che presto sarebbero tornate a casa, appena finiti i soldi o quando la temperatura sarebbe scesa e il calore di un luogo dove non si paga l'affitto, così come una famiglia, non sarebbero apparsi grigi e noiosi, come sempre succede all'inizio dell'estate.

La vide ridere felice, solo il giorno della manifestazione, mentre per mano marciavano verso Trafalgar Square, dove la moglie di Allende avrebbe parlato a nome del marito, morto nel golpe cileno. E poi la musica e i balli in piazza e l'allegria della festa che invadeva le strade, in quel fiume di fantasia dove nuotano i pesci che confondono i sogni con la realtà.

E ci furono le solite cose che passano tra uomini e donne, baci carezze, persino qualche tenerezza, ma quando lui chiese di restare da lei per la notte, rispose "Solo a dormire".

Non era una girovaga newage, o una studentessa in vacanza con più tempo delle amiche sue. Da dove veniva era dovuta fuggire, per le attenzioni del padre che, con cadenza settimanale, abusava da tempo di lei.

La polena sotto il bompresso gridava e piangeva, col vento che urlava sulla cresta delle onde.

Solo dopo, finita la battaglia, sul mare ritornato calmo, tra tavole spezzate e galleggianti, una ruota del timone e le vele lacerate che si confondevano col bianco della spuma, tornava il silenzio, e in lontananza, laggiù all'orizzonte, oltre il nero delle nubi basse, risplendeva il blu impastato con il rosso, del sole al suo tramonto.

"Qualcosa di caldo!" disse a bassa voce rivolto al cameriere, mentre continuava a fissare la strada e la nebbia gli offuscava gli occhi.

 

 
 
 

Fenomenologia della passione - I

Post n°5 pubblicato il 12 Dicembre 2012 da uomosenzaqualita

 

 

Come certamente tu sai, le dirai, come un cieco che si muove a tentoni, e con  questo prologo, ipotizzando una consapevolezza che non è data, ti adopererai affinché il suo spirito si addolcisca un poco finché non proseguirai, nonostante le tue azioni siano programmate già da tempo, e farai inconsulte azioni come accendere la lampada nell'angol dopo aver spento quella grande della stanza per creare un'atmosfera più intima, più raccolta e un poco ambigua, in modo che non vi sia ansia alcuna nell'aria, pur prevedendo quei tuoi inevitabili roridi palmi delle mani, degli eccessi del bere o di qualsiasi altra cosa come quel lieve tremolio che speri non trasparirà dalla tua voce. Eppure dirai così, per esempio, come tu ben sai, ecco, come tu ben sai, la gente, le persone, ahimé, hanno, abbiamo queste cose che chiamiamo emozioni, ed esiterai su quell'ahimé, o come un altro forse domanderebbe, perché ahimé? e cosí, per non allontanarti troppo da quanto hai cominciato, rapidamente aggiungerai una frase qualsiasi del tipo sarebbe proprio una bella cosa se potessimo instaurare un rapporto senza che nessuno dei due si aspettasse proprio niente, ma ahimé, ripeterai con insistenza, ahimé, noi, proprio noi, le persone, hanno, abbiamo emozioni. Riflettendoci meglio: le persone dicono cose, e dietro a quanto dicono c'è quello che sentono, e dietro a quello che sentono c'è quello che veramente sono e che non sempre appare. Ci sono i livelli-non-formulati, gli strati impercettibili, le fantasie che non sempre controlliamo, le aspettative che quasi mai si realizzano. Ma soprattutto ci sono le emozioni. Che non si mostrano mai. Per tutto questo, ahimé, ripeterai, insisterai, completamente disperato, il tuo unico appiglio sarà la diafana sua mano stesa che, passo a passo, penserai con lucidità penosa, attraverso ogni singola parola, starai allontanando per sempre da te. Ma non riesco proprio a star zitto, allora forse le dirai, privo di controllo e un poco più drammatico, perché il tuo silenzio non è un'omissione ma una menzogna. Lei ti guarderà con quello sguardo vacuo, senza capire che il tuo ritmo accompagna il dipanarsi di un paesaggio interiore, assolutamente non verbalizzabile, disegnato tratto dopo tratto in ogni singolo minuto dei giorni e delle notti più svariati in tutti quei mesi addietro, a ritroso fino a quella data, maledetta o benedetta, ancora non hai osato definirla, nella quale per la prima volta il cerchio magnetico dell'esistenza dell'uno, per un caso banale o per magia, ha intersecato il cerchio magnetico dell’esistenza dell'altra.


Nel silenzio che piomberà, penserai, avrai bisogno di fare una cosa qualsiasi, come mettere musica o improvvisare un gesto, ma forse non farai nulla, perché lei continuerà a guardarti con quel suo sguardo vago in fondo al quale tu, sommozzatore marino, cercherai il minimo indizio di un tesoro nascosto che ti faccia ritornare a galla col sorriso sulle labbra e le mani colme di pietre preziose. Ma in questo silenzio che certamente ti piomberà addosso, forse verserai altro vino e con la bocca secca e chiusa, senza alcun sorriso, eviterai di tuffarti per non correre il rischio di imbatterti in un mostro marino addormentato. Il cuore ti batterà forte, nessuno sentirà, e per un attimo forse immaginerai di poter srotolare le membra e semplicemente toccarla come se riuscissi così a produrre un incantesimo qualsiasi che all'improvviso illumini questa sala con quella luce che stai tentando invano di scoprire anche in lei, visto che dentro di te é già tanto chiara da farsi quasi tangibile. Nitida luce non vista da quest'altra che ti sta seduta accanto nella sala lievemente in penombra, dove penetrano a malapena i suoni esterni, come se tutti e due foste prigionieri di una bolla d'aria, di tempo, di spazio. E riempirai ancora il calice con dell'altro vino affinché scendendo per la gola tremante vada incontro a questo bagliore che stai tentando precariamente di trasformare in parole luminose da offrire a lei. Che non dice niente, e non dirà niente, e senza sapere perché, penserai ad un corridoio buio dove ti muovi a tastoni, come un cieco, le mani tese in avanti nel vuoto, col presentimento del niente che tu stesso starai preparando proprio ora, suicida meticoloso, con silenzi mal tessuti e parole fuori luogo, povero essere assetato che si ferisce implorando il pozzo altrui per sedare una sete che nessuno può condividere.

Angeli e demoni dai mille colori svolazzeranno per la sala, ma la cacciatrice di farfalle rimarrà immobile, lo sguardo fisso nel vuoto, una sigaretta accesa nella sinistra, un calice colmo di vino nella destra. La sua presenza pulserà al tuo lato, quasi sanguinando, come se l'avessi pugnalata con la tua emozione non detta. Le mani appoggiate a mendaci bengala non ce la faranno a liberare il gesto per rompere questa coltre spessa e invisibile che vi separa. Per un momento allora avrai voglia di accendere la luce, scoppiare in una risata divertita, farla finita con questa farsa, è facile fingere che tutto vada bene, che non siano mai esistite le emozioni, che non desideri toccarla né conoscerla, che la accetti così, amica pulsante, bella e remota, completamente indipendente dalla tua volontà, da tutti questi tuoi sentimenti non formulati. Nel momento seguente, che sorgerà, gemello tardivo, immediato e quasi contemporaneo all'anteriore, avrai voglia di posare il calice e stendere le tue avide mani in direzione di quel volto che neanche ti guarda, assorbito nella contemplazione del suo paesaggio interno. Ma indifferente alla sua distanza, quasi violento, d'improvviso vorrai violare con la bocca arsa dall'alcol quest'altra bocca che ti è accanto. Vorrai esplorare palmo a palmo quel corpo che da tempo immagini, finché i palmi famelici delle tue mani non abbiano percorso tutte le vie, finché la tua lingua non abbia infranto tutte le barriere della repulsione e della paura, la tua bocca vorace non abbia bevuto tutti gli umori, le tue narici non abbiano inalato tutti gli odori e tu, da alchimista, non li abbia trasformati in un unico odore, il tuo e il suo insieme - la luce sarà spenta, gli indumenti bianchi scintillanti sparsi a terra. Desíderala così, quest'altra, tanto intima al punto che a volte riterrai superfluo dire qualsiasi cosa, perché ingannandoti supponi che tu e lei, a volte, siate una cosa sola che ti riempie il corpo di una forza nuova, come se un'energia poderosa sgorgasse da un centro lontano, da tempo assopito, chissà, da questa luce occulta, e allora ti accorgerai chiaramente che lei non è te e tu non sei lei, questa cosa, l'altra, che magica o demoniaca, deliberata o casuale, ti infiamma in tal modo allucinandoti l'anima. La vorresti pregare che col suo semplice esistere ti mantenga in questa condizione tormentosa e brillante affinché tu possa illuminare anche lei col semplice tocco, con la tua tenera lingua, bacchetta magica del tuo desiderio. Ma lei non sa nulla, né immaginerà niente se rimarrai così, col timore che una parola o un gesto disastrosi siano capaci di mandare all'aria questa trama nella quale ti avvolgi sempre più irrimediabilmente, ingarbugliato in te stesso, nella tua emozione viva, invischiato nell'ignoto che c'è dentro di lei, l'altra - che dall'altra parte del divano incrocia le mani sopra le ginocchia, innocente quasi, in vigile attesa che tu porti a termine in qualche modo quanto hai cominciato.

Molto più che dell'amore o di qualsiasi altra forma di torbida e tortuosa passione, sarà sorpresa che la starai guardando ora, perché lei non sa niente del suo potere su di te, e in questo preciso istante la potrai rendere partecipe del fatto che dipende da lei se ti illumini o ti oscuri così, intensamente, oppure negargli orgogliosamente di venire a conoscenza di questo strano potere, affinché non ti sbrani impetuosa con le sue unghie ora calme e rilassate, incrociate in punta alle dita sopra le ginocchia.

Ah!, berrai all'eccesso, annoierai tutti gli amici con quelle storie disperate, notti e notti di insonnia, la fantasia sfrenata e il sesso ardente, dormirai per giorni e giorni, mancherai al lavoro, scriverai lettere mai spedite, cercherai un senso arcano nelle conchiglie, nei numeri, nelle carte e negli astri, penserai a fughe e melodrammi ad ogni minuto di ogni nuovo giorno, abbandonato sospirerai mattinate intere nel tuo letto vuoto, non riuscirai a sorridere né a camminare solo per strada senza scoprire nell'andatura di un estranea l'esatta sua andatura, in un odore qualsiasi il suo preciso odore.

E lei non sospetterà che sei perduto ormai, lei che seduta accanto a te starà sprofondando nella contemplazione di questo paesaggio interiore dove non sai neppure che posto occupi, e neanche se ce l'hai un posto. Di fronte allo specchio, in queste mattine mal dormite, accompagnerai con la punta del dito il sorgere di nuovi fili bianchi sulle tempie, l'aspro percorso ogni volta più fondo di oscure valli incavate sotto occhi totalmente disincantati. Saprai tutto di questo amaro futuro possibile. Saprai pure che non potrai più tornare indietro, che sarai interamente soggiogato e che le parole che dirai non saranno mai savie o sufficienti a far sì che questa porta da aprire ora, dopo aver detto proprio tutto, ti conduca al cielo o all'inferno. Ma soprattutto saprai, con una dolce pietà per te e per tutti gli altri, che un giorno tutto passerà, magari con la stessa rapidità con cui è venuto, o lentamente, poco importa. Ma non saprai mai che in questo preciso istante avrai goduto dell'insostenibile bellezza di ciò che è totalmente vivo.

Come un trapezista che si accorge dell'assenza della rete solo dopo essersi lanciato nel vuoto, accenderai allora la lampada nell'angolo dopo aver spento quella grande della sala. E finalmente inizierai a parlare.

 

M.B., 1997

 

 
 
 

Sibelius

Post n°3 pubblicato il 29 Novembre 2012 da uomosenzaqualita

La musica di questo giorno. Io la sento, voi no?

 

 

 
 
 
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