Un mondo nuovo

Ma alla fine...


2021, Piero Colaprico, Scarp de’ tenis, DicembreMAGISTRATURAQuando, alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia si trovò divisa tra filoamericani e filorussi nella commissione Costituente, i padri fondatori si chiesero cosa fare della magistratura.Se metterla sotto il cappello della politica oppure renderla autonoma e indipendente. Prevalse la seconda opzione. Una magistratura asservita al ministro di turno spaventava troppo, il fascismo era stato in fondo legale e si andava al confino cinque anni per aver detto “Mussolini è scemo”, il giudice metteva il timbro. Dove c’è troppa legge, c’è troppa angoscia per noi cittadini, lo sapevano già nella Roma dell’Impero. La magistratura italiana del dopoguerra nasce con le migliori intenzioni, ma, senza farla lunghissima, recentemente sono state pubblicate delle intercettazioni telefoniche non molto onorevoli per le toghe, che raccontano come non si faccia spesso carriera per merito, ma per altre ragioni, meno pulite. Ilda Bocassini ha un curriculum investigativo molto raro, ha messo a segno inchieste cruciali, eppure nessuno dei suoi colleghi ha voluto che facesse carriera sino ad occupare un posto di procuratore capo. Di qualsiasi argomento del codice penale si sia occupata – mafie, corruzione, terrorismo – ha sempre portato a casa il risultato. Sono le sue inchieste che l’hanno trasformata per moltissimi “in un mito”, come si diceva, ma per altri è diventata un “nemico”. La prima inchiesta con il metodo Bocassini (lei dice sempre metodo Falcone, Giovanni Falcone, ammazzato dalla mafia nel 1992, suo grande collega e amico, ma non è lo stesso) si chiama Duomo connection e si svolge a Milano alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Lei prima dell’inchiesta Mani pulite, che attaccherà la corruzione politica nel 1992, inquadra un fenomeno: una famiglia di Cosa nostra, fornita di assassini e trafficanti, deve costruire delle case e per poterlo fare deve pagare la tangente a chi qui al Nord è più forte. E cioè al partito socialista. Lo scandalo è gigantesco, le microspie che mostrano una metropoli nera e collusa sono state piazzate nel cantiere dalla squadra del capitano Ultimo, lo stesso che catturerà a Palermo, nel 1993 Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra. Bisognerebbe aprire una parentesi su tutti i processi avviati a Palermo contro Ultimo e conclusisi nel nulla, ma ci porterebbe fuori tema. Fuori tema ci porterebbe anche la circostanza di una Bocassini che lascia Milano, va in Sicilia per indagare sulle stragi e, inascoltata, avverte i colleghi siciliani che il pentito Vincenzo Scarantino stava raccontando bugie sugli attentati. Restiamo a Milano, dove Ilda Bocassini torna appena dopo che Antonio Di Pietro ha lasciato il pool Mani pulite e la toga. E, rientrata in ufficio, contraddice le malignità che la vogliono incapace del lavoro di squadra. Affianca Gherardo Colombo nell’inchiesta sulle corruzioni ai giudici di Roma, organizzate da Cesare Previti e pagate da Silvio Berlusconi, per portare il gruppo Mondadori nelle sue proprietà. Nel 2007 Bocassini fa arrestare i reduci degli anni di piombo, assassini delle Br totalmente fuori tempo, ma ancora pericolosi. E quando diventa procuratore aggiunto della Distrettuale antimafia, mette in linea ogni informazione con i colleghi, quasi una ventina, e non trapela un fiato: chiunque lavori con lei sa che non può fare da “talpa”. I suoi dicevano testualmente: «Se ne becca uno, se lo mangia». Quanto ha fatto è noto, o si trova facilmente in rete. Uno pensa alla Costituente, alle buone intenzioni del passato, si guarda intorno nel mondo contemporaneo e non può non chiedersi perché l’Italia sprechi le capacità di indagare a fondo di persone come Bocassini, o come Ultimo. Una ragione ci sarà, alla fine. Ma alla fine…