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L'incontro

Post n°3498 pubblicato il 08 Gennaio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 6 gennaio

«Io, medico in missione nel cuore della savana»

Dal Campus Biomedico di Roma alla Tanzania, dopo aver operato in scenari drammatici come l’Afghanistan e i Balcani. L’incontro con una Onlus ha riacceso l’impegno per gli ultimi

L’emozione della chirurgia non me la dà nient’altro al mondo. Sognavo il calore dei corpi sulle mie mani, mi mancava il contatto fisico con le persone da curare. Così, dopo anni di rigetto, sono tornato». Enrico Davoli, 57 anni, chirurgo generale d’urgenza al Campus Biomedico di Roma, è appena atterrato in Africa, quell’Africa che lo aveva ammaliato fin da bambino e poi lo aveva respinto, dopo una vita diventata troppo dura anche per uno che il viaggio di nozze lo aveva fatto nella foresta tropicale del Camerun operando malati a tre ore di jeep dal primo centro medico, e che in Afghanistan mutilava giorno e notte i bambini saltati sulle mine antiuomo, ma che un giorno ha dovuto dire basta. «Si usa una vera sega, come fosse la gamba di un tavolino – racconta –, su ottanta centimetri di arto di un bambino la mina ne brucia trenta, tu vorresti salvargli il ginocchio, sai che sarebbe importante, ma il fango penetra e quei due centimetri in più ti fregano, devi tagliare più in alto... C’è un antico detto, "il medico pietoso fa la piaga puzzolente", in Italia oggi l’abbiamo dimenticato perché questa chirurgia da noi non esiste più. Ma l’odore di carne tagliata mi ha perseguitato per anni come ricordo, non nella mente ma nelle cellule olfattive, lo sentivo ancora. E mi sono disamorato».

Ma l’amore per la medicina come missione non muore mai, cova sotto le ceneri pronto a riprendere vigore. «Folgorante è stato due anni fa l’incontro con Tiziana Bernardi, ex dirigente bancaria entrata nel consiglio di amministrazione del Campus Biomedico», l’università con ospedale sorta alle porte di Roma su un terreno donato da Alberto Sordi: «Lei, che ha lasciato il mondo della finanza per dedicarsi al monastero benedettino di Mvimwa nel centro della Tanzania, ci ha chiesto come se niente fosse, se c’era qualche chirurgo disposto ad accompagnarla in Africa con una trentina di laureandi... Un minuto e avevo deciso. Così, insieme a quei 30 studenti italiani, ho conosciuto gli 80 giovani monaci di Mvimwa, molti laureati, vera espressione dell'Ora et Labora declinato in forma moderna come motore di uno sviluppo che in piena savana non ti aspetteresti: hanno scuole, laboratori di alta tecnologia, un centro sanitario ben attrezzato grazie alla onlus "Golfini Rossi" (fondata da Tiziana, ndr) e ai numerosi volontari, medici, ingegneri, informatici, architetti, studenti e professori da lei reclutati nelle università italiane». L’obiettivo di "Golfini Rossi", raccontato in passato anche da Avvenire, non è puntare al minimo indispensabile ma direttamente all’eccellenza. «Ad esempio, grazie a fondi Caritas il dispensario di Mvimwa è dotato di strumenti chirurgici di ultima generazione – racconta Davoli –. Persino l’ospedale cittadino non ha ancora il bisturi elettrico che invece a Mvimwa c’è. Ora sono di nuovo qui per avviare la fondazione di un Centro per la Salute della Donna e del Bambino, con speciale attenzione alla disabilità neuromotoria e alla prevenzione dei tumori femminili». I grandi nomi della comunità scientifica italiana sono già stati ingaggiati, i docenti del Politecnico di Milano hanno affidato a studenti di "Ingegneria applicata alla sanità" le tesi di laurea sulla costruzione della struttura, e Davoli stesso passerà il gennaio in Tanzania «in missione diplomatica ed epidemiologica insieme. E per dare un segnale che ci siamo ancora». Già, perché in realtà tutto era organizzato per marzo 2020, con venti studenti del Campus Biomedico che si erano già pagati il biglietto aereo, ma che la pandemia ha fermato.

Per Davoli è il primo passo di quello che chiama «il nostro sogno di famiglia», gestire tutti insieme un ospedale in Africa. «Mia moglie Laura è dentista e quando ci saranno le premesse per vivere lì avvierà anche un ambulatorio odontoiatrico. Per ora faremo alcune missioni all’anno, ma quando andremo in pensione potremmo trasferirci del tutto, chissà, l’Africa ti cattura. E non si sa mai che anche i nostri due figli ci seguano: saranno loro a decidere, l’esempio dei genitori è la spinta più efficace».

Anche il dottor Davoli da adolescente ha avuto i suoi maestri, «i miei miti erano il medico missionario Albert Schweitzer e il padre comboniano Giuseppe Ambrosoli, grande chirurgo morto nel 1987 in Uganda, sfinito dalle sofferenze patite assistendo la popolazione durante la guerra civile. Per loro ho scelto la chirurgia e l’Africa: di tutto il mondo, è il luogo dove mi sento felice, dove trovo la purezza nei rapporti umani, dove nonostante la povertà la sera la gente ha sempre un motivo per ballare e i piccoli si divertono anche con un pallone di carta». Non così in Afghanistan, «la mia esperienza più devastante, dove tutto può essere un motivo di arresto e torture, e donne e bambini hanno paura anche di vivere. Come aiuto chirurgo avevo un giovane cui proprio non cresceva la barba e per questo veniva spesso gettato in galera dai talebani, finché con la Croce Rossa non andavamo a riprendercelo testimoniando che era un medico e curava anche i loro soldati. È lì che tagliavo gli arti ai bambini sapendo che ne facevo dei disabili, ed essere disabili è duro ovunque ma in Afghanistan...».

Nel 1998, tra le missioni con Oms in Brasile, Guatemala e nel Kosovo in guerra, a Roma viene al mondo Elio, «nato in casa perché mia moglie in Africa aveva scoperto che le donne fanno i figli da sole e che il parto, se non ci sono complicazioni, non è un atto medico». Seguono gli anni in Macedonia con un’avventura ai limiti dell’utopia. «Era una misera regione della ex Jugoslavia, gli ospedali erano mattatoi, così presentai con Unicef un progetto di ristrutturazione di tutte 23 le maternità, dotandole – primo Paese al mondo – di reparti rivoluzionari baby friendly, dove il neonato dorme da subito accanto alla madre, che quindi lo allatta a chiamata, non a orari fissi. Ho formato il personale, acquistato incubatrici ed ecografi, portato all’eccellenza corsie da incubo: prima per venti donne c’era un bagno solo, al buio perché da mesi mancava l’unica lampadina, poi ogni stanza ebbe il suo, tutto grazie a fondi della Comunità Europea». Nel 2003 approda nell’Uganda dei bambini soldato, «la notte dalla campagna venivano a dormire sui marciapiedi della città per non farsi rapire. Li rastrellavano, li drogavano, per renderli feroci gli facevano bere il sangue delle vittime e uccidere i loro genitori. A 5 o 6 anni facevano chilometri a piedi per rifugiarsi da noi, poi la mattina di nuovo in cammino per andare a scuola».

È stato anche direttore di Medici senza Frontiere, il dottor Davoli, e responsabile per l’Oms delle reti di emergenza sanitaria in tutta Europa, compresi i Paesi dell’ex Unione Sovietica, dal Turkmenistan all’Uzbekistan, «un lavoro immane con ministeri della Salute che non avevano nemmeno le ambulanze». Nel 2006 per Oms si è dedicato proprio alle linee guida per gli ospedali europei in caso di pandemia... «una pubblicazione che quest’anno purtroppo è stata scaricata moltissimo». Ma in mezzo a tutto questo, nel 2000 la realizzazione dell’altro grande sogno: «Come accordo prematrimoniale – sorride – avevo detto a Laura che avrei voluto due cose, tanti figli e adottare. Come compromesso ne abbiamo avuti solo due, ma il secondo, Cairo, è africano. Quando è entrato in famiglia aveva 6 mesi, Elio ne aveva 15: sono cresciuti insieme, uno con l’Africa nel cuore l’altro anche sulla pelle». Oggi studiano entrambi Economia, Elio ad Amsterdam e Cairo all’università americana di Roma. «E Cairo ora è con me in Tanzania: compirà 21 anni a Mvimwa, lavorando per il futuro Centro per la salute della donna e del bambino». Che ha già il suo un nome, "Centro Daniele Rizzi", gigante buono della medicina lombarda e cuore pulsante del progetto. Anche lui aveva la valigia pronta per Mvimwa, ma il Covid in questi giorni ce l’ha portato via.

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