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Messaggi del 27/06/2017

Argentina - seconda parte

Post n°2257 pubblicato il 27 Giugno 2017 da namy0000
 

Cinquant’anni fa il pil pro capite lordo argentino era la metà di quello degli Stati Uniti, oggi è meno di un quarto. Cinquant’anni fa l’inflazione al dieci per cento era considerata un pericolo, oggi sarebbe un successo straordinario. E non l’abbiamo mai ottenuto. Cinquant’anni fa l’Argentina aveva 40.000 chilometri di ferrovie che univano il paese, oggi non ne ha neanche 4.000 e la maggior parte è fuori uso. Cinquant’anni fa l’Argentina era autosufficiente in quanto a petrolio, gas ed elettricità, oggi s’indebita per importarli. Cinquant’anni fa l’Argentina progettava e produceva aerei e macchine, oggi la bilancia dei pagamenti è in rosso per l’acquisto e l’assemblaggio degli autoricambi. Cinquant’anni fa gli ospedali pubblici della maggior parte della popolazione, oggi curano solo quelli che non hanno altra scelta. Cinquant’anni fa si giocavano partite di calcio e le tifoserie si gridavano delle cose, oggi mettere due tifoserie nello stesso stadio è un pericolo. Cinquant’anni fa non parlavamo d’insicurezza, oggi parliamo quasi solo di quello. Cinquant’anni fa i crimini erano così rari che facevano notizia sui giornali, oggi sono così tanti che non fanno notizia sui giornali. Cinquant’anni fa i politici argentini erano personaggi incapaci di mettere un quarto d’idea dietro l’altro, oggi pure. Cinquant’anni fa credevamo che l’Argentina fosse il paese del futur, oggi ci chiediamo perché dicevamo quelle sciocchezze.

Non sono solo i dati; la cosa peggiore è che la vita quotidiana è diventata ogni giorno più scomoda, con più scontri che incontri, più dispiaceri che piaceri, più impazienza e impotenza che gioie e soddisfazioni. E abbiamo raggiunto un raro livello di violenza quotidiana. Non per le rapine e le risse, ma per i rapporti tra persone, pieni di maltrattamenti, insulti, odi e rancori. Detto così sembra una sciocchezza, ma nel mondo ci sono posti in cui le persone per strada si sorridono, si trattano come se non si detestassero. A noi vivere sembra spesso una battaglia. Perché abbiamo fatto della vita una battaglia.

Sei mesi fa una famiglia di rifugiati di Aleppo, la città siriana distrutta dalla guerra, è arrivata a Córdoba, la seconda città argentina. Erano quattro: un padre invalido, la moglie, due figlie. Gli avevano promesso una casa, degli aiuti, un lavoro, e invece no. Tutto per loro era caro e difficile. Poi li hanno rapinati. Qualche giorno fa sono tornati ad Aleppo: “Lì tirano le bombe, ma non c’è tutta questa insicurezza e la vita è molto più economica”, ha detto il pater familias siriano.

Qualche settimana fa, a Bruxelles, l’ex presidente Cristina Fernández ha detto che il suo partito ha perso le elezioni perché “oggi la società non è in grado di capire quello che succede andando oltre le notizie. Nella mia generazione sapevamo distinguere tra quello che ci veniva raccontato e quello che stava succedendo, perché eravamo istruiti da un punto di vista intellettuale”. È stata la nostra generazione – la sua, la mia, quella così istruita – a fare quest’Argentina. Ci sono ancora alcuni di noi che hanno la sfacciataggine di imputare le colpe agli altri.

È sempre facile incolpare gli altri, è sempre difficile capire le proprie colpe. Ma se c’è una cosa utile è cercarle: cercare di pensare come e perché l’Argentina di oggi è colpa nostra. Sapere cos’abbiamo fatto per arrivare qui è il primo passo inevitabile per cercare di arrivare ad altro. Io non lo so, ma ho qualche sospetto.

Tanto per cominciare, c’è la scusa eroica: i morti. Hanno ucciso migliaia di persone e ci siamo consolati pensando che il problema è che “hanno ucciso i migliori”. Siamo rimasti noi, i peggiori, ma la colpa non è nostra, è di quegli assassini. Né i migliori né i peggiori: sono morti i più insistenti, i meno fortunati, i più coerenti, i meno fantasiosi, i più coraggiosi, i meno cauti; quelli che erano al posto giusto nel momento giusto, quelli che non erano al posto giusto nel momento giusto. Hanno ucciso molti di noi ed è stata una tragedia. Ma il punto non è stata l’assenza degli uccisi, è stato l’effetto che quelle morti hanno avuto sui vivi. Furono morti pedagogiche: ci dimostrarono che “essere realisti e cercare l’impossibile” poteva avere un prezzo così alto che da allora abbiamo preferito non rischiare e accettare il possibile. Che era sempre un disastro.

 

Abbiamo cercato di adattarci: ci siamo fatti piacere ogni imbecille che ci recitava un verso, li abbiamo scelti uno dopo l’altro. Bastavano due o tre frasi azzeccate e un sorriso fosco per farci cadere nelle fauci di qualche stupido che, pochi anni dopo, odiavamo con ferocia. Li odiavamo, immagino, perché odiavamo noi stessi per averli amati. E non abbiamo mai voluto né saputo, in questi quarant’anni, creare le condizioni per proporre al paese di discutere di cosa vuole essere, di come vuole essere, di cosa pensa di fare per riuscirci(continua) (Martin Caparròs, La colpa è nostra, Internazionale n. 1209 del 16 giugno 2017).

 
 
 

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