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Messaggi di Luglio 2021

Blocchi mentali

Post n°3628 pubblicato il 31 Luglio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 30 luglio

Tokyo 2020. Biles e gli altri campioni friabili: sono i Giochi con i demoni in testa

Blocchi mentali, ansia, paura di perdere ma soprattutto di vincere. La psicologa: ecco perché accade, e perché in queste Olimpiadi soprattutto

I demoni in testa, le mani che tremano, il bisogno estremo di dire basta. Hanno paura di perdere, ma soprattutto di vincere: è l’anello debole dei cinque cerchi, quello che ci mostra una generazione di campioni insospettabilmente friabili. Da Simone Biles, la farfalla americana della ginnastica che scopre di avere ali pesantissime, al nostro Federico Burdisso che nuota 200 metri di bronzo prima di confessare che aveva il cervello così pieno di dubbi da non volerla nemmeno fare quella gara.
Simone Biles ha 24 anni, nella sua disciplina è la più grande di sempre, decine di medaglie al collo, il simbolo della perfezione tecnica. Arriva a Tokyo e non si riconosce più: "Non posso gareggiare, ho un blocco mentale, non ce la faccio, mi ritiro...". La fama c'entra poco, succede anche a chi ha iniziato a vincere adesso. Come Federico Burdisso, appunto: ha 19 anni, queste solo le sue prime Olimpiadi, non è una questione d’età e neppure di abitudine ai grandi palcoscenici. Clamoroso il caso di Naomi Osaka, la nippo-americana che lascia la racchetta già al terzo turno confessando di non essere in grado di reggere: non le avversarie, ma la pressione psicologica su di sé. Non è la sola, purtroppo. Tokyo 2021 restituisce dopo quasi ogni gara atleti stravolti nell’anima: apparentemente piangono di gioia o di delusione, ma in molti casi è l’ansia che lacrima.
Sono Giochi diversi, certo. Arrivano dopo una stagione infinita di privazioni per tutti, e per loro in particolare. Perché quando vivi per quattro anni pensando a un giorno solo e quel giorno te lo tolgono per un virus, e poi te lo restituiscono all’ultimo e con un anno di ritardo, è difficile accettare, prepararsi, restare lucidi. Ne sa qualcosa Benedetta Pilato, 16 anni, promessa annunciata di questi Giochi per il nuoto azzurro: è arrivata a Tokyo con un record del mondo nel costume, doveva asciugare la piscina, è affogata in una squalifica assurda: “Ho nuotato in maniera orribile – ha detto prima di riprendere l’aereo in anticipo sulle previsioni - mi sentivo stanchissima, di certo la pressione mediatica non mi ha fatto bene…”.
Ma non è solo questo, probabilmente c’è altro, la fatica di quest’epoca oscura, la fragilità di una generazione alla quale si chiede sempre il massimo e sempre di più. Per questo serve un totem, per questo un fuoriclasse navigato come Novak Djokovic può diventare l’oracolo a cui aggrapparsi. I bene informati assicurano di aver visto il numero uno del tennis mondiale intrattenersi nei giorni scorsi al Villaggio Olimpico con i giocatori delle nazionali turche di pallavolo. A loro avrebbe spiegato i metodi del suo approccio mentale alle partite. “Sul campo, ma anche fuori, ho imparato a sviluppare un
meccanismo per fare i conti con tutte le aspettative, tutti i mormorii e il rumore, in modo che non mi distraggano, non mi consumino - ha raccontato -. Sento di avere abbastanza esperienza per sapere come entrare in campo e giocare il mio tennis migliore. Di certo se punti a certi traguardi devi crescere mentalmente: allora la pressione diventa un privilegio, non un handicap”.
Ma i blocchi mentali sono sempre in agguato. Gli anglofoni li chiamano "twisties", parola che dallo slang della ginnastica si traduce con blackout, tanto breve quanto spaventoso, che in un salto carpiato mette a repentaglio no solo la prova ma anche caviglie e osso del collo. "Nella ginnastica o nei tuffi possono portare a errori fatali, non c'è tempo per rimediare - spiega Monica Vaillant, ex campionessa e allenatrice di pallanuoto, ora psicologa -. Gli atleti di punta chiedono ai mental coach delle strategie per affrontare queste ansie, generate spesso dalla paura di non essere all’altezza, ma anche di esserlo troppo".
A quel punto occorre una pausa: "L'atleta – continua la psicologa - deve essere consapevole delle proprie ansie ed esternarle, anche in pubblico: sono momenti di verità, va umanizzata la figura del campione, altrimenti si creano mostri di perfezione che non esistono".
Lo scenario si complica se poi arriva la mannaia dei giudizi sui social: "Oggi pesano, e molto, gli strumenti ossessivi usati in rete - dice l'ex pallanuotista, due ori mondiali e tre europei con il Setterosa negli anni '90 -. E il fattore età: da giovani l'incoscienza può aiutare a bruciare le tappe, ma non appena ci si accorge del "mostro" interno mancano gli strumenti per gestire la paura del fallimento, con cui prima o poi ci si scontra. Ricordo gli sguardi di paura delle nostre giocatrici più giovani nella nazionale a Londra 2012, sopraffatte dalla pressione".
Tutto questo vale ancor di più per un'Olimpiade stranente come questa. "Il Covid e lo slittamento hanno stravolto la preparazione, nella "bolla" olimpica non sono ammessi i familiari e altre persone di fiducia che in genere aiutano a gestire le emergenze. Anche i tamponi prima delle gare poi rappresentano uno stress notevole, con il rischio che comportano di far perdere tutto ancor prima di giocare”.
Qualcuno per fortuna guarisce, magari impiegandoci cinque anni. Chiedere per conferma a Irma Testa, 23 anni di Torre Annunziata, che domani diventerà la prima donna pugile medagliata della storia italiana. C’era già a Rio 2016, arrivò da debuttante ma con la presunzione di chi ha talento. Pensava di stupire tutti, ci restò male uscendo presto dai Giochi. Ora può confessarlo: “Quell’Olimpiade ha azzerato le mie certezze: ho trascorso mesi terribili, ho conosciuto il baratro della solitudine, della lontananza da casa per allenarmi e fare lo sport che volevo. Ho temuto che i sacrifici che facevo non mi avrebbero portata da nessuna parte. Basta poco e crolla tutto dentro un atleta. Invece mi sono guardata allo specchio, ho capito che quello che volevo raggiungere era troppo importante, mi sono tatuata la scritta “panta rei” sul braccio destro, e scrollata di dosso il terrore di non farcela, di non essere abbastanza". Ora Irma è una donna diversa, come i suoi Giochi. Senza paura.

 
 
 

Il pettegolezzo

2021, Aleteia.org 28 luglio

4 suggerimenti pratici per evitare il pettegolezzoPapa Francesco ha detto che il pettegolezzo avvelena e divide. Ecco come evitare di cadere in questa trappola

di Ruth Baker

Quando ho letto per la prima volta il pensiero di Papa Francesco sul pettegolezzo, sono rimasta sorpresa e sollevata. E anche un po’ imbarazzata. Le sue parole sul pettegolezzo sono molto forti.  Non pensavo di essere una persona dal pettegolezzo facile, ma pensandoci su, mi sono tristemente resa conto di esserlo. E cosa ancor più grave, non l’ho vista come una questione particolarmente importante. L’ho fatto senza neanche pensarci. Il pettegolezzo è così diffuso che probabilmente tutti ne siamo coinvolti, in una certa misura.

Il pettegolezzo non si presenta sempre in modo ovvio; a volte ci siamo dentro fino al collo prima di renderci conto di stare spettegolando. Ed è anche un’abitudine difficile da interrompere. Considerando tutto ciò, volevo riflettere su alcuni punti che Papa Francesco ha toccato riguardo al pettegolezzo, nella speranza che possano essere di aiuto per rompere quest’abitudine distruttiva.

“Il pettegolezzo è marcio. All’inizio sembra essere qualcosa di divertente e piacevole, come una caramella. Ma poi riempie il cuore di amarezza e ci avvelena”

Papa Francesco ha ragione. C’è un elemento del pettegolezzo che unisce le persone. È come quel momento in cui ci si rende conto che tutti sono infastiditi da quel tizio del corso di formazione, oppure che si è gli unici ad avercela con quel genitore al cancello della scuola, o ancora che il tuo capo ha fatto piangere tutti quanti in ufficio, prima o poi.

Rendersi conto di non essere soli nelle relazioni umane stressanti è una cosa molto reale e necessaria. Tutti quanti abbiamo bisogno di supporto e solidarietà quando abbiamo a che fare con delle persone che ci fanno del male. Però esiste una linea sottile tra questo e vendicarci attraverso il pettegolezzo. Quando spettegoliamo, ci arroghiamo il diritto di fare giustizia da noi, distruggendo il prossimo con le parole. Le parole distruttive non sono mai costruttive. Significa che non riusciamo a vedere il buono nel mondo o l’abilità delle altre persone di cambiare in meglio. Così facendo, finiamo con lo sviluppare un atteggiamento negativo che finisce con l’avvelenarci.

Papa Francesco ha anche detto: “Il pettegolezzo è ‘criminale’ perché distrugge l’immagine di Dio negli altri, invece di esaltarla”.Se qualcuno ci ha feriti, o ha ferito gli altri, è molto difficile ammettere la presenza dell’immagine di Dio in loro e dichiarare che sono stati creati uguali a noi da un Dio d’amore. Eppure è la verità. Il pettegolezzo si rifiuta di vedere la persona come qualcuno amato da Dio che può cambiare e crescere, come facciamo noi. Papa Francesco ha aggiunto, con fermezza, che “fare chiacchiere è terrorismo perché quello che chiacchiera è come un terrorista che butta la bomba e se ne va, distrugge: con la lingua distrugge, non fa la pace”. Queste sono parole difficili da leggere. Non ci piace essere paragonati con questi malvagi, soprattutto se sono così presenti nel mondo di oggi. Le guerre iniziano dalle parole; se vogliamo portare un qualsiasi tipo di pace nel mondo, dobbiamo iniziare con la pace nei nostri cuori e con buone intenzioni verso gli altri.

“Coloro che vivono giudicando il prossimo, parlando male del prossimo, sono ipocriti. Perché non hanno la forza e il coraggio di guardare ai propri difetti”.

Questa citazione è la chiave per comprendere perché facciamo pettegolezzo e perché è una parte così sostanziale delle nostre conversazioni quotidiane. La radice è nella paura di non essere abbastanza buoni. Facciamo pettegolezzo per dire a noi stessi “Non farei mai una cosa del genere, io sono un tipo a posto”. Vogliamo trovare quella realizzazione di cui tanto abbiamo bisogno abbattendo gli altri. Ignoriamo i nostri difetti, che quindi crescono sempre di più. Diventano come l’elefante nella stanza che non riusciamo a vedere. Quando si ignora qualcosa, gli si dà potere di fare più paura e di essere ancora più impossibile da sconfiggere. Ci vuole coraggio per guardare ai propri difetti, ma questo significa che facendolo troviamo la guarigione e il perdono per superare tutto. La verità è che tutti noi, ad un certo punto, vogliamo fuggire da noi stessi per lasciarci alle spalle gli errori commessi, le cose di cui ci vergogniamo e la persona che temiamo di diventare. È più facile abbattere il prossimo invece che affrontare noi stessi. Ma quando lo facciamo, la caduta è meno dolorosa di quanto ci potremmo aspettare, perché veniamo raccolti dalle braccia amorevoli di Dio Padre, pronto a offrirci la guarigione di cui abbiamo così disperatamente bisogno.

 
 
 

Una vocina mi dice

Post n°3626 pubblicato il 28 Luglio 2021 da namy0000
 

2021, Piero Colaprico, Scarp de’ tenis, Giugno

Attraverso i libri ci conosciamo di più

Una vocina mi dice che non dovrei affrontare questo argomento, ma arriva l’estate, con i suoi consigli di lettura, e come lettore rivendico il diritto di sostenere, per esempio, che il celebratissimo Piccolo Principe mi ha causato sin da subito un attacco di sbadigli. E ricordo che Indro Montanelli, a chi gli chiedeva che cosa pensasse di Proust e del «tempo perduto», rispondeva: «’Un s’ebbe mai tempo di leggerlo».

L’acuto Daniel Pennac, che ama veramente i libri, ne ha letti tantissimi e ne ha scritti il giusto (Malaussene, che bel personaggio), è stato tra i primi a sostenere che il lettore può “abbandonare” quando gli pare ciò che non gli piace (“Vuolsi così colà…”). Il libro non è un dovere. Il nostro sommo Dante, come Alessandro Manzoni, sono stati trasformati dalle politiche scolastiche e da non pochi prof (pigri) in un “dovere”. Ora, le frasi di entrambi hanno attraversato i secoli, i confini e ogni spazio. Ci sarà una ragione? L’immortalità dello scrittore è il sogno di ogni scrittorino, il recupero dell’autore dimenticato, da “riscoprire”, il sogno di ogni editor. Più modestamente, il sogno di ogni lettore, è “sintonizzarsi” con le pagine che ha aperto e da lì cominciare il suo viaggio, forse per distrarsi, forse per cambiare. Senza Il maestro e Margherita non avrei mai scelto di fare il giornalista da ragazzino. Ormai sono, come dice mio figlio, che non vuol chiamarmi anziano, un adultone.

Fosse per me, e lo dico sapendo che questo discorso non piacerà, sostituirei nelle scuole I promessi sposi con Il gattopardo: e cioè dall’epopea lombarda degli abusi, dell’amore e della Provvidenza, dai don Rodrigo e don Abbondio, passerei al principe di Salina e al mezzogiorno dove non cambia mai niente. Sbaglio? Non essendo Ministro dell’Istruzione, ma lettore, mi permetto di dirlo e se fossi un prof di liceo, accanto all’obbligatorio Manzoni, renderei obbligatorio nelle letture estive Tomasi di Lampedusa.

Che cosa ci spinge ad amare alcuni libri e a non apprezzare altri, magari celebrati? Probabilmente noi stessi, cioè attraverso i libri ci conosciamo di più.

Tornando al Piccolo Principe, non ci ho trovato tanti motivi per restare incollato alle pagine e, sinceramente, non immagino di andarlo a rileggere. Poi, se avrò nipotini, se sarò vivo, se saprò ancora leggere, se mi sarà richiesto, magari potrei leggere ad alta voce le pagine di Antoine de Saint-Exupéry. Dovrei sforzarmi molto per condividere l’idea che “Ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte vi è nascosto un pozzo”. Perché no. Ciò che per me rende bello il deserto, più banalmente, è la sua somiglianza con il mare, con l’aggiunta dell’assenza di rumore e con la possibilità di avere una guida in carne ed ossa. Del pozzo, che non saprò trovare, non so che farmene: anzi, che sia nascosto da qualche parte è pessimo, non ho nemmeno un secchio, ho caldo, mi sento stanco. Magari subisco l’influsso dei film di Sergio Leone. Un miraggio, forse? Ecco Eli Wallach, che corre in modo strambo e dice con un tono duro: «Sto cercando un mezzo sigaro, con dietro la faccia di un gran figlio di cagna alto, biondo e che parla poco». E no, non mi pare proprio che sia il Piccolo Principe quello che “il brutto” cerca. Cerca infatti quello soprannominato “il buono”.

Noi cerchiamo “il buono”, ma anche “il cattivo” nelle nostre letture e ci spiace moltissimo perché sempre meno gente legge, quindi sempre meno gente capisce, quindi sempre meno gente ha le capacità di restare democratica, razionale, appassionata. Noi che leggiamo, restiamo concentrati. Sappiamo fare un discorso. Provate a ragionare con chi si vanta di non leggere mai niente.

 
 
 

Io pellegrino

Post n°3625 pubblicato il 27 Luglio 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 26 luglio

«Io, pellegrino sul Cammino di Santiago con la mia carrozzina»

Alla scuola di don Gnocchi l’avventura di Vincenzo Russo,70 anni, colpito dalla poliomielite, che sta affrontando da solo il noto itinerario spirituale nel nord della Spagna

Ottocento chilometri da macinare sulla sua sedia a rotelle capace di viaggiare lungo le strade dell’Europa. E con un obiettivo dichiarato che, almeno in prima battuta, può avere il sapore del sogno: percorrere a bordo di una carrozzina iperequipaggiata lo storico Cammino di Santiago di Compostela in Spagna partendo dal versante francese dei Pirenei. È l’avventura che sta affrontando in questi giorni il 70enne Vincenzo Russo. Colpito dalla poliomielite quando aveva appena tre anni, ha trascorso parte della sua vita nei centri e nelle strutture della Fondazione Don Gnocchi. Lunedì scorso è incominciata per Vincenzo, originario di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta, la sua impresa da Saint-Jean-Pied-de-Port in Francia. «Mi muovo in carrozzina in quanto handicappato. E in carrozzina mi farò l’intero Cammino di Santiago. Voglio fare questo percorso per assaporare il gusto di farmi aiutare – ha raccontato prima di incominciare il suo viaggio in solitario –. Godermi, quindi, il gesto umano di chi pur non conoscendomi vuole darmi una mano. La tenerezza di un invito: “Posso aiutarti?”. Per godermi il mio “grazie” e il suo “ma figurati”. Sfumature forse. Ma sono le sfumature che danno conto della vita, al di là delle apparenze. Don Carlo lo ha testimoniato per sempre».


Con alle spalle una laurea in scienze politiche e per anni direttore di un centro educativo e di un comunità alloggio per minori nel Comune di Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, Vincenzo è alle prese con una sfida in questo 2021 ancora toccato dalla pandemia che ha già un precedente nella sua esistenza: nel 2014, nel quinto anniversario della beatificazione di don Gnocchi, aveva già compiuto il Cammino di San Giacomo e in quel frangente aveva portato in dono nella Cattedrale di Compostela una reliquia di don Carlo (1902-1956), il sacerdote amico dei mutilatini. Oggi quel piccolo dono di Vincenzo è custodito all’Hospital San Nicolas de Puente Fitero, luogo di passaggio e di ospitalità per migliaia di pellegrini.


Vincenzo, sul suo particolare “veicolo” che ha anche un piccolo rimorchio per i beni di prima necessità, attraverserà le province spagnole di Navarra, La Rioja, Castiglia e Galizia fino a Santiago. Gli incontri e le mete del diario di viaggio sono documentate ogni giorno attraverso il suo blog Un cammino senza un solo passo. L’uomo ha già toccato luoghi suggestivi come Pamplona e ora si trova a Estella, cittadina medievale della Navarra. «Le ragioni del blog sono due: una sta nella riconoscenza alla ditta Ottobock di Budrio che mettendomi a disposizione la giusta carrozzina mi consente di ripetere il cammino – sottolinea –. L’altra è il desiderio di narrare: voglio descrivere sguardi, parole, saluti, incroci: quegli attimi fuggenti nei quali la vita ci sorprende». Come un antico viandante del Medioevo – un autentico “homo viator” – il signor Russo assapora qualcosa di nuovo avendo sempre presente che il suo scopo è arrivare da vero pellegrino a Santiago. «In fondo il viaggio – è la riflessione finale – non è altro che lo specchio di quello che percorriamo dentro di noi, ascoltandoci, incontrandoci, perdonandoci…».

 
 
 

Si può fare molto con il poco

Post n°3624 pubblicato il 26 Luglio 2021 da namy0000
 

Il Vangelo della Liturgia di questa domenica narra il celebre episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci, con cui Gesù sfama circa cinquemila persone venute ad ascoltarlo (cfr Gv 6,1-15). È interessante vedere come avviene questo prodigio: Gesù non crea i pani e i pesci dal nulla, no, ma opera a partire da quello che gli portano i discepoli. Uno di loro dice: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v. 9). È poco, è niente, ma a Gesù basta.

Proviamo ora a metterci al posto di quel ragazzo. I discepoli gli chiedono di condividere tutto quello che ha da mangiare. Sembra una proposta insensata, anzi, ingiusta. Perché privare una persona, per lo più un ragazzo, di quello che si è portato da casa e ha il diritto di tenere per sé? Perché togliere a uno ciò che comunque non basta a sfamare tutti? Umanamente è illogico. Ma per Dio no. Anzi, proprio grazie a quel piccolo dono gratuito, e perciò eroico, Gesù può sfamare tutti. È un grande insegnamento per noi. Ci dice che il Signore può fare molto con il poco che gli mettiamo a disposizione. Sarebbe bello chiederci ogni giorno: “Oggi che cosa porto a Gesù?”. Lui può fare molto con una nostra preghiera, con un nostro gesto di carità per gli altri, persino con una nostra miseria consegnata alla sua misericordia. Le nostre piccolezze a Gesù, e Lui fa dei miracoli. Dio ama agire così: fa cose grandi a partire da quelle piccole, da quelle gratuite.

Tutti i grandi protagonisti della Bibbia – da Abramo a Maria fino al ragazzo di oggi – mostrano questa logica della piccolezza e del dono. La logica del dono è tanto diversa dalla nostra. Noi cerchiamo di accumulare e di aumentare quel che abbiamo; Gesù invece chiede di donare, di diminuire. Noi amiamo aggiungere, ci piacciono le addizioni; a Gesù piacciono le sottrazioni, il togliere qualcosa per darlo agli altri. Noi vogliamo moltiplicare per noi; Gesù apprezza quando dividiamo con gli altri, quando condividiamo. È curioso che nei racconti della moltiplicazione dei pani presenti nei Vangeli non compare mai il verbo “moltiplicare”. Anzi, i verbi utilizzati sono di segno opposto: “spezzare”, “dare”, “distribuire” (cfr v. 11; Mt 14,19; Mc 6,41; Lc 9,16). Ma non si usa il verbo “moltiplicare”. Il vero miracolo, dice Gesù, non è la moltiplicazione che produce vanto e potere, ma la divisione, la condivisione, che accresce l’amore e permette a Dio di compiere prodigi. Proviamo a condividere di più, proviamo questa strada che Gesù ci insegna.

(papa Francesco, Angelus del 25 luglio 2021)

 
 
 

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