Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Ottobre 2021

Futura

 

2021, FC n. 43 del 24 ottobre

Se lo chiedeva anche Lucio Dalla nel 1980, nella sua canzone Futura: «Chissà, chissà domani. Su che cosa metteremo le mani, se si potrà ancora contare le onde del mare». 3 cineasti: Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, seguendo l’esempio di Mario Soldati e Luigi Comencini, delineano il ritratto desolante di un Paese, l’Italia, che sembra non curarsi delle nuove generazioni: il cambiamento, l’incertezza, il senso di responsabilità che cresce insieme agli anni. Lo sguardo è più sugli adolescenti, sulla difficoltà di rapportarsi con un universo costruito senza di loro. «Avevamo voglia di stare insieme, di condividere un’esperienza lavorativa. Spesso la nostra professione ci porta a isolarci nelle storie che costruiamo. Qui abbiamo dato vita a un progetto condiviso. Ci siamo avvicinati alla realtà dei giovani. Il desiderio era di parlare con loro, per capire come immaginano il domani. È solo così che si può capire l’oggi, lo stato di salute di una società», spiegano. «Dovevamo uscire dagli schemi. Per me un riferimento è stato il sociologo Stefano L. Quando accendiamo la televisione, sentiamo parlare solo gli adulti. Noi abbiamo dato la parola a chi fa più fatica a emergere. È un’inchiesta a campione, dove ci siamo messi al servizio del reportage. Abbiamo stilato una specie di questionario per capire quali argomenti affrontare. Poi ci siamo resi conto che la parte più interessante è quella che riguarda il futuro, perché contiene già tutto. Intercetta lo slancio, la progettualità, la speranza».

Che cosa significa essere giovani oggi in Italia?

«È impossibile fare la sintesi di una generazione. Quello che abbiamo colto è una difficoltà ad ampliare i propri orizzonti. Esiste un mondo solo, non se ne concepiscono altri, ed è complesso trovare la propria strada. Non si riesce a delineare qualcosa di diverso». «I giovani fanno fatica a capire per che cosa lottare, così il vero nemico diventano loro stessi. Scatta una sorta di autocensura. Sono condizionati da Internet, dai social. Abbiamo realizzato questo film in un momento difficile, durante la pandemia. Quindi anche i sogni di ognuno di noi hanno subito una battuta d’arresto. Era impossibile andare oltre l’immediato. Si è persa un po’ di spontaneità, ci siamo scontrati con le regole che venivano imposte». «Non abbiamo inserito il Covid, anche se non è stato facile. Ci si allontanava sempre di più. Questa distanza si vede dove non si può ignorare il cambio di immaginario rispetto a quando eravamo ragazzi noi».

Qual è la vostra idea di futuro?

«Razionalmente tendiamo a essere pessimisti. Però bisogna credere nel cuore, nella volontà, quindi è nostro compito guardare all’avvenire con fiducia». «L’incontro tra noi adulti e i ragazzi è stato un risveglio, mettersi in relazione è servito a tutti. È necessaria una solidarietà comune. Mi ha colpito molto sentirli fare riferimento alla fine del mondo. Noi non ci pensavamo, loro invece la avvertono». «Anche io sono pessimista. Ma i giovani sono più forti di noi. Hanno lo slancio della crescita. In un momento storico assurdo, loro sono la chiave per ripartire».

L’Italia è un Paese per giovani?

«Non lo è per i giovani, non lo è per i vecchi. Non so effettivamente per chi sia. È un luogo bellissimo, però gli italiani stanno perdendo la dolcezza, la spontaneità, la generosità, l’altruismo. C’è un clima meno ospitale per tutti, più violento, feroce verso chi è socialmente debole. Non sappiamo più donare, si pensa solo all’accumulo». «Un conto è l’Italia, un conto sono gli italiani. Non si deve più pensare ai confini, sono solo qualcosa di imposto». «La percezione è quella legata al partire. Tanti ragazzi si domandano: “Perché devo stare qui?”. Ed è su questo che bisogna riflettere. Per cambiare la prospettiva, dobbiamo imparare ad ascoltarli».

 
 
 

Solo con l'educazione

2021, Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli, FC n. 43 del 24 ottobre

Solo con l’educazione vinceremo la criminalità

La mia diocesi fa da argine al potere di morte dei clan, ma occorre un percorso comune in tutt’Italia

Nella mia esperienza più volte ho toccato gli effetti mortiferi delle mafie, di qualsiasi denominazione e provenienza geografica. L’accompagnamento di tanti giovani feriti dalla tossicodipendenza e la vicinanza a tanti adolescenti ammaliati dalla criminalità ha dato forma al mio ministero di prete: non sono forse questi i giovani a cui, come Chiesa, siamo inviati a portare l’annuncio di liberazione del Vangelo, diventando profeti di senso e di significato? Se l’uomo è la via della Chiesa, come ha affermato san Giovanni Paolo II, lo è ancor di più l’uomo ferito, il giovane in difficoltà, il bambino a cui il malaffare mafioso offusca il presente e ruba il futuro.

Quando papa Francesco mi ha inviato a Napoli avevo consapevolezza che era una terra molto simile alla mia: non solo per la grande capacità di accoglienza e per la semplicità gioiosa del suo popolo, ma anche perché accomunata alla terra ferita dalla piaga mafiosa. Fin da subito ho però gioito del fatto che il tessuto ecclesiale non era per niente assuefatto alla convivenza con la cultura camorristica e con il potere di morte dei clan: numerosi preti, insieme a tanti laici e consacrate, in diverse aree della città metropolitana, da Scampia ad Afragola, passando per Ercolano e arrivando alla Sanità, sono per la nostra città un baluardo di resistenza, una profezia di vita e di giustizia, un simbolo che il male, per quanto forte, non può prevalere.

Dagli oratori ai dopo scuola, passando per le attività sportive e di impresa sociale, questi sacerdoti rappresentano per me e per l’intera città motivo di gioia! Tuttavia, proprio in questi giorni l’escalation di violenza nella zona orientale della città ci ha messo a dura prova e non bastano più le esperienze dei singoli e l’impegno di tanti, perché occorre creare una vera e propria rete, un sistema educativo capace di generare vita, opposto al sistema mortifero della camorra. Come Chiesa partenopea abbiamo deciso di impegnarci in prima linea partendo dalla ricchezza di queste esperienze, guardando a chi al di fuori dei confini ecclesiali opera per il bene e la giustizia, nel tentativo di dare una nuova direzione: solo insieme, partendo dall’educazione, possiamo sconfiggere la piaga cancerogena della criminalità organizzata! E l’appello che ho rivolto ai cittadini, alle associazioni, alle istituzioni locali e regionali, al Governo nazionale per ritrovarci tutti insieme intorno a un Tavolo condiviso volto a creare un percorso comune capace di generare proposte concrete, è solo il primo passo di un itinerario ecclesiale che nell’ambito del cammino sinodale dovrà impegnarsi su due fronti: camminare insieme nella Chiesa, puntando sul confronto, sul reciproco ascolto e sulla parresia come elementi imprescindibili dell’essere popolo di Dio, ma anche camminare insieme con gli uomini e le donne di buona volontà che hanno a cuore il bene dei piccoli, la tutela dei minori, la lotta alla disuguaglianza e l’educazione alla legalità e alla giustizia.

È importante che nel cammino sinodale della Chiesa italiana questi temi vengano accolti e affrontati non come appendici secondarie ma per ciò che sono: delle conseguenze dirette del Vangelo, capaci di dare forza alla nostra testimonianza ecclesiale e di facilitare il dialogo con l’uomo del nostro tempo. A Napoli stanno muovendo i primi passi due itinerari: il Patto Educativo e il XXXI Sinodo Diocesano, inscritto nel più ampio percorso sinodale della Chiesa italiana. Si tratta di due facce della stessa medaglia: l’ascolto di Dio e l’ascolto dell’uomo, il servizio a Dio e il servizio all’uomo, il camminare della Chiesa con l’umanità che è chiamata ad amare e servire.

 
 
 

Come leggere i dati

Post n°3665 pubblicato il 27 Ottobre 2021 da namy0000
 

Avvenire, 25 ottobre 2021

Pandemia. Morti per Covid o no? Come leggere i dati

Sulle conseguenze della pandemia sembra essere già partito un pericoloso revisionismo statistico, cavalcato anche da alcuni autorevoli organi di informazione. Il "caso" dell'ultimo report dell'Iss

C’è una considerazione che tiene banco nel revisionismo statistico sui decessi da Covid e che viene rilanciata anche da autorevoli organi di informazione. E ruota attorno a un postulato dalle conclusioni troppo frettolose. Eccolo: tra i morti per Covid, solo il 2,9% è effettivamente dovuto al Sars-CoV-2, perché solo questa percentuale di pazienti era priva di altre patologie quando è stata contagiata – a fronte del restante 97% alle prese con una o più malattie –. Insomma, se così fosse la portata della pandemia sarebbe da riconsiderare. E, in fondo, certi allarmismi sarebbero (stati) ingiustificati perché la morte è sopraggiunta, nella stragrande maggioranza dei casi, in pazienti anziani e pluripatologici.

Gli autori di questa “lettura” fanno deduzioni isolando un dato contenuto in un Report diffuso il 19 ottobre 2021 dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Nel Report quel 2,9% effettivamente compare nella tabella 1, quella relativa alle patologie più comuni osservate nei pazienti deceduti. Ma a guardare bene il contesto redatto dall’Iss, il postulato revisionistico fatica a stare in piedi. Intanto perché il dato del 2,9% si riferisce solo ad un campione di pazienti deceduti: 7.910 sui 130.468 presi in considerazione dall’Istituto al 5 ottobre scorso. Non solo: ieri l’Iss ha precisato che «nel rapporto non è affermato che solo il 2,9% dei decessi attribuiti al Covid-19 è dovuto al virus». Ma che il 2,9% si riferisce «ai pazienti deceduti con positività per Sars-CoV-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell’infezione».

Se poi si analizzano le complicanze sorte per infezione da Sars-CoV-2, viene fuori che il 93,6% delle stesse ha una causa: l’insufficienza respiratoria acuta, di gran lunga superiore rispetto alle altre complicanze. Ovvero, il danno renale acuto (24,9%), una sovrainfezione (20,1%) e il danno miocardico acuto (10,2). Basterebbe questa classificazione – sulla quale farà luce, a partire dal 2022, l’Istat – per farci comprendere quanto abbia pesato il ruolo del virus nei decessi, anche in persone anziane e con patologie gravi. Senza considerare che, nel 2020, in Italia è stato registrato il numero più alto di morti dal Dopoguerra: 746.146, 100.526 decessi in più rispetto alla media 2015-2019.

Intendiamoci, nessuno nega le gravi e spesso concomitanti malattie presenti nei deceduti con positività al virus, l’età media dei quali è di 80 anni: ipertensione arteriosa (65,8%), diabete (29,3%), cardiopatia ischemica (28%), come anche cancro e scompenso cardiaco hanno portato tanti di loro in situazioni critiche o irreversibili. Ma, come afferma il direttore delle Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, Matteo Bassetti, «è proprio accettabile che un paziente obeso, che ha il diabete, o ha una fibrillazione atriale, debba morire per Covid? Il problema è che quando questi numeri vengono letti da ignoranti e speculatori si dà alla gente una informazione scorretta».

 
 
 

Mostraci il tuo volto

Post n°3664 pubblicato il 26 Ottobre 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 24 ottobre

Mostraci il tuo volto

La chiesa di Maria SS. Immacolata sul promontorio di Scilla, è uno di quei luoghi che difficilmente si dimenticano: siamo in Calabria, ma ricorda un po’ quelle chiese di Liguria cantate da Vincenzo Cardarelli, «che paion navi che stanno per salpare». entrando, si scopre che nella cappella in fondo alla navata di destra si fa adorazione perpetua, con tanto di librone delle presenze, con i nomi degli adoratori e le firme ora per ora. Qui l’adorazione è nata il primo novembre del 2006 e qui, in quegli stessi giorni, davanti all’Eucaristia, ha cominciato a prendere forma e volto il percorso vocazionale del poliziotto Ernesto Piraino, calabrese figlio di emigrati, oggi prete ed eremita nel comune di Belvedere Marittimo in provincia di Cosenza, nella diocesi di San Marco Argentano-Scalea, dove il vescovo monsignor Leonardo Bonanno ha accolto questa sua «vocazione nella vocazione» alla vita eremitica. Il suo eremo è una piccola casa con orto a 700 metri fra i boschi del Pollino: anch’esso è posto a guardare il mare, ma da una posizione infinitamente più distante dai circuiti del turismo di massa.

Don Ernesto ha 42 anni, è entrato in Polizia a 19 ed è prete dal 2017. Ha la barba, il piglio e lo sguardo rapido di quand’era un «inflessibile poliziotto con un senso profondo della giustizia e il desiderio di fare carriera», per dirla con le sue stesse parole. Non ha più il fisico palestrato di allora, ma solo perché da quando ha scoperto l’adorazione eucaristica la sua palestra è quella dello spirito. «L’Eucaristia è la risposta a tutti i bisogni dell’uomo. La risposta a tutte le nostre domande. Adorando ti accade di comprendere e di vivere quello che dice il Salmo: 'E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti'. L’Eucaristia è sorgente».

Ho scoperto la vocazione facendo adorazione eucaristica. Ogni giorno davanti a Gesù qualcosa si muoveva nel mio cuore. Ho incontrato per la prima volta il volto di Dio davanti all’ostia consacrata... difficile non innamorarsi.

All’epoca lavoravo per l’ufficio volanti della Questura di Messina e abitavo a Scilla. Cresciuto in una famiglia cattolica avevo un’infarinatura di fede ma non la vivevo pienamente. Quando la mia parrocchia ha avviato l’adorazione perpetua il mio primo approccio fu determinato dalla curiosità. Qualche mese prima mi ero lasciato con la fidanzata dopo una storia di sei anni che era ormai a un passo dal matrimonio. Vivevo una situazione difficile e quel giorno Gesù ha iniziato a cambiare la mia vita. Subito non ho capito cosa stava accadendo, ma da quel momento il richiamo dell’Eucaristia si è mostrato sempre più forte. Dai pochi minuti della prima volta sono passato a mezz’ora, un’ora, l’intera serata... Quando per lavoro restavo a Messina andavo ad adorare alla chiesa di Cristo Re dei padri Rogazionisti. Piano piano Gesù diventava indispensabile, anche se io continuavo la vita di sempre. Fatto sta che dovunque andassi, trovavo l’adorazione eucaristica perpetua. A Frosinone entro in una cappella a caso e la trovo. A Pescara, dove andai per un corso di specializzazione, una chiesa in cui casualmente avevo scoperto l’adorazione perpetua diventò il mio riferimento per tutto il periodo.

Ognuno il Volto lo descrive e lo vive in maniera diversa: chi lo vede nei sofferenti, chi nei poveri, chi nel ministero di un sacerdote... Per me era lì, e continua a essere, nella luce di quell’ostia. Il volto visibile di Dio nel quale mi sono perduto infinite volte. Un Volto accogliente che ti consente di entrare nelle profondità del tuo spirito. Lo contempli e non vorresti più andartene... Soprattutto ora da eremita... ed è sempre una grande fatica distaccarsene.

Ha scavato nel mio cuore con un lavoro davvero certosino. All’inizio è arrivato e ha messo ordine, ha ristabilito un po’ d’equilibrio nel subbuglio del matrimonio mancato. Avevo 27 anni e un cuore che annaspava in cerca di un nuovo orizzonte a cui tendere. Davanti all’Eucaristia mi sono accorto che Lui chiedeva semplicemente di dargli un po’ di spazio: non dovevo fare altro che fidarmi.

Mi viene da dire: come un medico. Con quel suo sguardo che ti scruta come una 'tac'. Lui fa la diagnosi e interviene. Non mi ha detto che avrebbe iniziato una cura. Mi ero reso disponibile e Lui ha iniziato. Dopo quattro anni ero come nuovo. Potevo correre senza stampelle e Lui mi invitava a seguirlo. Ho avuto la percezione che mi stesse chiamando da sempre, solo che non ero stato capace di avvertirne la voce. Il Signore ha pazienza. Semina fino a quando quel seme cade dove deve cadere. Con me è successo dopo quattro anni di terapia davanti al suo Volto. Sono stato bene ma c’era una parte di cuore che restava insoddisfatta. L’adorazione prendeva sempre più spazio nella mia vita e Gesù mi ha fatto capire che quell’insoddisfazione la poteva sanare solo lui. è un sole che illumina tutti. Ognuno ha i suoi tempi. Ma quando decidi di aprire la porta del cuore Lui entra. Se non apri non si scandalizza. Sta fuori e attende. Io ho capito che farlo entrare significa lasciarsi guardare. In quegli anni ho gradualmente permesso a Gesù di guardarmi fino al punto che ogni minuto del mio tempo libero lo trascorrevo davanti al suo sguardo. Mi sono fatto guardare senza sapere cosa volesse dire farsi guardare da Dio. Ero attratto da quella luce, ma non sapevo perché, né dove mi avrebbe portato. Ho solo dato la mia disponibilità... C’è sempre stato in me un senso profondo di giustizia, che nel tempo si è trasformato in uno sguardo sulla totalità dell’essere umano. Ero un poliziotto inflessibile, poi è arrivata la Misericordia e il mio dovere ho cominciato a farlo guardando il colpevole con un occhio diverso, come un fratello da aiutare, da redimere. Insomma il volto di Dio è piano piano passato nel mio mestiere perché, ora ne ho preso coscienza, stavo imparando a guardare con gli stessi occhi con cui quel Volto guardava me. Cominciavo a vedere il Volto di Gesù nel volto del fratello.

È un percorso in cui continuo a fidarmi e a lasciarmi guidare. Ho imparato a vedere il suo Volto nell’Eucaristia, poi nel volto del fratello. L’eremita impara a vederlo in ogni cosa. Il suo Volto mi segue nelle ore di meditazione, nel ministero della confessione, nel tempo dedicato all’accoglienza e alla direzione spirituale... poi, però, vado a ricaricarmi immergendomi nel silenzio e nella solitudine del mio piccolo monte Tabor.

 
 
 

Riuso Riduco Riciclo

Giangiacomo Schiavi, Scarp de’ tenis, agosto-settembre 2021

Le parole d’ordine di Roberta, vulcanica visionaria. Riuso, riduco, riciclo

Quando sul palco della Bocconi è sbucato il suo sorriso, Giulia Maria Crespi, la signora del Fai, si è illuminata: «chi è questa forza della Natura?».

Quando le sue parole hanno interrotto con la speranza il racconto del mondo che muore, calpestato da anni di saccheggio e culture predatorie, i cronisti hanno riaperto i taccuini. Quando ha lanciato l’idea di un ecovillaggio ispirato al bene comune e a tre semplici parole, riuso, riduco, riciclo, ho preso il telefonino e chiamato il Corriere: «Ragazzi, c’è la notizia». La notizia era lei, Roberta Zivolo, vulcanica visionaria con i piedi per terra e la testa nel futuro sbucata all’improvviso tra i filosofi e i contadini al Convegno internazionale di Milano per l’agricoltura biodinamica: senza essere Greta Thumberg e prima ancora che la Terra lanciasse il suo altolà con la devastante pandemia, una mattina di febbraio del 2016 si era messa in sintonia con il nuovo umanesimo, tracciando un percorso ideale che non poteva lasciare indifferenti.

Meno male, ho detto mentre mi avvicinavo dopo il suo intervento per conoscerla meglio, meno male che ogni tanto c’è qualcuno che esce dal buio della cattiveria e ci ricorda che  si deve anche restituire qualcosa di quel che si è avuto nella vita, incoraggiando l’idea di un cambiamento che comincia da noi. Pensavo a una storia per dare valore slle Buone notizie del Corriere,  non immaginavo di entrare nel romanzo dickensiano di una donna battagliera uscita dalla periferia milanese per diventare imprenditrice, una combattente della vita, capace di ribaltare schemi e convenzioni, impegnata a cercare il benessere in una società meno ingiusta, che voleva lanciare una nuova sfida, non più a Milano, ma in un posto dove “io diventa noi”.

Così sono andato fino a San Cresci, in Valcava, provincia di Firenze, ecovillaggio nascente tra gli ulivi secolari della tenuta dei banchieri di Caterina de’ Medici, dove l’utopia concreta di Roberta è diventata il racconto di un’altra vita, in cui è possibile praticare la solidarietà spontanea e la gestione partecipata dell’agricoltura naturale, rianimando un antico borgo abbandonato e denunciando con l’esempio un modello sbagliato: il nostro. «Bisogna cambiare – mi ha detto subito – abbandonare le regole dell’economia incivile, vivere meglio come suggeriva sant’Agostino e mettere in pratica gli insegnamenti dei due Francesco: quello che ammansiva i lupi e quello che in Vaticano ha messo al bando il superfluo».

Roberta Zivolo è partita da zero, da aspirante parrucchiera a Baggio, periferia milanese, poi anni di impegno, passione, coraggio e scuole serali, fino a diventare imprenditrice e copertina di Forbes, premiata dal presidente della Repubblica italiana Mattarella e inserita tra le donne che possono aiutarci a cambiare il mondo. La sua azienda, Progetto 2000, ha ricevuto premi a raffica per il valore sociale e l’etica d’impresa. Su 80 dipendenti 75 sono donne, ma il primato è un altro: zero contenziosi sindacali e l’obiettivo riuscito di conciliare lavoro e famiglia: «Qui fare figli è un invito esplicito. Quest’azienda è cresciuta nel rispetto delle persone, si entra e si esce con un sorriso». La fede e la preghiera fanno parte del suo universo. «Credo nella provvidenza e un viaggio a Medjugorje mi ha spinto a pensare ancora di più agli altri».

Oggi sente il desiderio di una nuova missione. Progetta un ecovillaggio per non essere soli, con il buon vicinato come nelle campagne di una volta e la democrazia in condivisione. «Un’utopia che si può rendere concreta», ripete convinta.

E poi dicono che questo è un tempo senza storia: a cercarle le storie ci sono e Roberta è un esempio. Se le donne salveranno il mondo, come è auspicabile e anche probabile, lei ha già prenotato un posto.

 
 
 

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