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Un mondo nuovo

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Messaggi di Gennaio 2022

Cimitero della moda mondiale

Post n°3702 pubblicato il 25 Gennaio 2022 da namy0000
 

2022, Avvenire 22 gennaio

Cile, cimitero della moda mondiale. Nel deserto la discarica dei record

Atacama è inondato da centinaia migliaia di tonnellate di abiti usati inviati da Europa, Usa e Canada.

In bilico tra l’Oceano e le Ande, è il «luogo del sogni». Iquique appunto, in lingua Aymara, la porta sul «Padre deserto», come lo chiamava la Nobel Gabriel Mistral. Un’infinita distesa di rocce, il territorio più arido al mondo, eppure capace di fiorire, ogni anno, in un’esplosione di porpora acceso. Non sono, però, le celebri rose a ricoprire ora, per chilometri, il deserto di Atacama, nel Nord del Cile. Bensì una coltre spessa di stoffa multicolore. Magliette, pantaloni, gonne, cappelli sparsi alla rinfusa tra le dune o accumulati in bizzarre montagne di tessuto. Decine di migliaia di abiti nati già in fin di vita dall’industria della moda “mordi e fuggi” o “fast fashion”, dove tutto si crea a ciclo continuo ma niente si distrugge. Semplicemente si scarta e si accumula in punti apparentemente remoti del pianeta. Come lo spazio tra Iquique ed Alto Hospicio trasformato nel «cimitero mondiale dei vestiti».
Una discarica illegale, ufficialmente. Eppure tutti la conoscono. «Esiste da una quindicina d’anni – racconta Rosita Marschhausen, responsabile dell’area sociale di Caritas della diocesi di Iquique – ed è alquanto evidente. Anche perché ciclicamente i vestiti vengono bruciati per smaltirli e il fumo tossico investe la cittadina di Alto Hospicio. La gente si lamenta, poi la situazione torna come prima». E il serpente di stoffa si allunga per l’altopiano desertico. Un crocevia quest’ultimo dove le contraddizioni delle leggi nazionali si sommano alle disfunzioni del mercato globale. Atacama è la destinazione finale delle centinaia di migliaia di abiti usati confezionati a basso costo nelle fabbriche-pollaio dell’Asia per rifornire i negozi di Stati Uniti ed Europa. Roba di scarsa qualità che gli acquirenti indossano per una stagione e, poi, preferiscono gettar via piuttosto che rammendare. Comprare un prodotto nuovo «made in China» o «made in Bangladesh» costa meno. Gli abiti vecchi vengono etichettati come «seconda mano» e portati dove possono venduti ancora o, in caso contrario, dismessi senza troppe formalità. A bordo di navi container raggiungono, dunque, Iquique, il principale porto d’entrata del tessile dell’America Latina. Non solo quell’area è zona franca. A differenza del resto del Continente che lo vieta per ragioni sanitarie o di protezione delle aziende locali, il Cile, insieme al Guatemala, è l’unico a importare roba usata in gran quantità. Solo nel 2021, per lo scalo, ne sono passate 59mila tonnellate. Un dato in linea con la media annuale. Oltre i due terzi – circa 39mila tonnellate – restano invenduti. Non è un caso. Buona parte della merce che arriva è rovinata. Le aziende importatrici lo sanno. Ma sanno anche che, accettandola, otterranno i vestiti buoni a un prezzo stracciato dalle imprese del Nord del mondo, ansiose di scaricare altrove i propri rifiuti. Tanto c’è il buco nero di Atacama.
Le discariche legali non accettano abiti, in base al decreto 189 del ministero della Salute, perché dannosi per il suolo. Le autorità chiudono, però, un occhio o – tutti e due – quando questi vengono abbandonati dove si può fingere di non vederli. Atacama, così, s’è trasformato nel “nascondiglio a cielo aperto” perfetto. Secondo la Segreteria per l’ambiente, in tutto il deserto ci sarebbero almeno 45 punti di scarico clandestini. Solamente in quello tra Iquique e Alto Hospicio si accumulerebbero almeno 500mila tonnellate di vestiti. Una quantità tale da portare Atacama a insidiare il primato dell’altra maxi-pattumiera della moda del globo: la periferia di Accra, in Ghana. Questi «cimiteri di vestiti» sono il volto scomodo della “fast fashion” diventata ormai “trash fashion”, moda spazzatura. L’Onu aveva già lanciato l’allarme due anni fa: la fabbricazione di abiti è raddoppiata tra il 2000 e il 2014. Per vari esperti, ciò è dovuto al progressivo abbassamento dei costi di produzione. Una notizia tutt’altro che positiva, sia per la manodopera, sia per l’ambiente. L’industria tessile impiega almeno il 20 per cento di sostanze chimiche del globo e consuma il 20 per cento dell’acqua. Alla produzione di indumenti e calzature, inoltre, si deve l’8 per cento delle emissioni attuali. A questo si aggiunge il dramma dei rifiuti dato che, secondo un recente studio di Mohd Yusuf, tre quinti del totale viene buttato entro un anno dall’acquisto. «L’unica via d’uscita è promuovere il riciclo», afferma Franklin Zepeda che, sulla base dell’esperienza della discarica di Atacama, ha fondato di Ecofibra, azienda che trasforma i residui tessili in pannelli isolanti.
«A lungo c’è stato un vuoto legislativo: i vestiti non erano considerati merci prioritarie, a differenza, ad esempio, della plastica, il cui smaltimento è a carico dell’azienda importatrice, pena il pagamento di multe salate. Questo ha fatto sì che per le imprese fosse più economico disfarsi degli abiti, gettandoli nel deserto, dove eludere i controlli è relativamente facile – prosegue Zepeda, imprenditore visionario –. Ora, però, la situazione sta cambiando: a settembre, il ministero dell’Ambiente ha inserito il tessile nella normativa sul riciclaggio e la responsabilità etica del produttore. Un passo avanti fondamentale». La nuova misura dovrebbe essere applicata a partire dal 2023. Nel frattempo, la discarica di Atacama resta in attività.

 
 
 

Pensando al futuro

Post n°3701 pubblicato il 16 Gennaio 2022 da namy0000
 

“«Pensando al futuro, mi torna in mente lo sguardo di tanti giovani impegnati nel volontariato, che si distinguono negli studi, che amano il proprio lavoro, che si impegnano nella vita delle istituzioni, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova». «I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà e chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani. Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società». E poi inserisce la lettera stupenda che Pietro Carmina, educatore oltre che professore di Filosofia, una delle vittime della tragica esplosione di Ravanusa lo scorso 11 dicembre 2021, aveva scritto ai suoi studenti: «Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha. Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordete la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa. Voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare». «L’Italia crescerà. E lo farà quanto più avrà coscienza del comune destino del nostro popolo, e dei popoli europei» (dal discorso di fine anno 2021 del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella)”.

 
 
 

Speculazione

2022, Avvenire 13 gennaio

Speculazione. La crisi in Kazakistan dimostra tutta la pericolosità dei bitcoin

Il governo del Kazakistan aveva creduto davvero che diventare la patria dei cercatori di bitcoin fosse una grande idea. Nel giugno del 2020 Askar Zhumagaliyev, ministro dell’Innovazione, aveva presentato un progetto sviluppato con “esperti internazionali” per attirare i “minatori” di criptovalute nell’ex repubblica sovietica, che così avrebbe potuto approfittare della febbre del trading che aveva già contagiato mezzo mondo. Ai cercatori di bitcoin non occorre molto. La loro attività, il mining, consiste nel mettere computer estremamente potenti al lavoro sui calcoli per decriptare i blocchi di transazioni della blockchain, il sistema informatico non centralizzato alla base della criptovaluta.

Il primo gruppo di computer che completa il calcolo valida un blocco di transazioni e ottiene un bitcoin come ricompensa. Per fare un lavoro di questo tipo servono i computer, una connessione a Internet affidabile, abbondante energia elettrica a basso costo: con computer di media efficienza l’estrazione di un singolo bitcoin consuma circa 143mila kWh di elettricità. In Kazakistan la rete web non era un problema e l’energia abbondava. Grande esportatrice di carbone, petrolio e gas naturale, la sterminata nazione asiatica ha «una capacità energetica più che doppia rispetto alla sua domanda », come scrive l’Agenzia internazionale dell’energia nella sua ultima analisi sulla situazione del Paese. A 5,5 centesimi di dollari per kWh, il prezzo dell’elettricità kazaka è tra i più bassi del mondo, circa un quarto di quello italiano e metà di quello cinese.

Zhumagaliyev aveva fatto i suoi calcoli: il governo avrebbe potuto attirare investimenti da 300 miliardi di tenge in tre anni (sono circa 600 milioni di euro) dai minatori di bitcoin e guadagnare parecchio tassando anche solo una piccola parte della ricchezza che avrebbero generato. Pochi mesi dopo Zhumagaliyev è stato allontanato dal governo (ora è ambasciatore nei Paesi Bassi) ma il suo piano è andato avanti. Secondo i dati dell’università di Cambridge, gli unici che tracciano con un certo grado di affidabilità l’attività di ricerca di bitcoin nel mondo, nel luglio 2020 il Kazakistan faceva meno del 5% del mining mondiale. Un anno dopo la quota era già salita a quasi il 9%. Poi le cose sono andate fuori controllo.

Nel maggio del 2021 la Cina, che ospitava quasi il 50% dell’attività mondiale di ricerca dei bitcoin, ha messo al bando il mining nell’ambito di una strategia di contrasto al trading speculativo e di contenimento dei consumi energetici. È iniziato il grande esodo dei miners. Molti hanno trovato rifugio in Kazakistan. Giganti del settore come BIT Mining, Canaan o Xive hanno annunciato il trasloco di migliaia di computer dalle megalopoli cinesi alle aree nei pressi di Nur-Sultan (la capitale che fino al 2019 si chiamava Astana) e Almaty. La quota kazaka nell’attività mondiale di mining è raddoppiata nel giro di un’estate, fino a raggiungere il 18% nell’agosto del 2021. È allora che sono iniziati i problemi. L’autorità che gestisce la rete elettrica kazaka ha iniziato a segnalare scompensi: le vecchie infrastrutture elettriche non erano in grado di sostenere il brusco aumento dei consumi nelle aree in cui lavoravano i computer dei cercatori di bitcoin. Sono iniziati i periodici blackout nei villaggi, le interruzioni programmate dell’elettricità, il contenimento delle forniture per le attività più energivore, a partire proprio dalle “miniere” di bitcoin.

A livello nazionale il Paese si è trovato nell’inedita situazione di importare elettricità dalla Russia, a caro prezzo, perché i consumi, cresciuti dell’8% in un solo anno, avevano sorprendentemente superato la produzione delle centrali a carbone e a gas che producono quasi tutta l’elettricità kazaka. Il presidente Kassym-Jomart Tokayev, in una riunione con i banchieri del Paese, a novembre ha iniziato a parlare di ritorno al nucleare, abbandonato da vent’anni, per riportare in equilibrio il sistema. «Il ruolo di un leader è prendere decisioni impopolari» ha spiegato in quell’occasione Tokayev, con parole che appaiono tristemente profetiche dopo che il presidente kazako ha ordinato all’esercito di sparare sulla folla. Ai problemi della rete elettrica si è aggiunta la delusione economica.

Già all’inizio dell’estate Bagdam Musin, che ha preso il posto di ministro di Zhumagaliyev, ha ammesso che l’aumento degli incassi promesso anche dalle associazioni dei miner non c’è stato: «Vediamo arrivare gli investimenti dei miner, ma ci sono poche entrate fiscali. Non vediamo migliaia di persone impiegate in questo settore». Nel tentativo di guadagnarci qualcosa, il governo kazako ha provato a introdurre una tassa, non particolarmente pesante, sui consumi elettrici delle miniere dei bitcoin. La tassa è entrata in vigore il primo gennaio 2022. Troppo tardi. I problemi tecnici e il cambiamento di atteggiamento del governo, prima ancora delle rivolte, hanno fatto capire ai miner che era di nuovo il momento di sloggiare. Alla fine di novembre il Financial Times raccontava l’inizio del grande trasloco delle macchine dei miner dal Kazakistan verso altri lidi: la vicina Russia o, soprattutto, gli Stati Uniti, la cui quota nell’attività mondiale di mining è balzata dal 4 al 35% nel giro di un anno. Non è scontato però che il governo americano abbia voglia di ospitare molto a lungo i cercatori di bitcoin.

 
 
 

I ragazzi difficili che salano il mondo

Post n°3699 pubblicato il 11 Gennaio 2022 da namy0000
 

2022, Avvenire 10 gennaio

Tra i "ragazzi difficili" che salano il mondo

A Facen (Belluno), nella comunità per minori che è museo stralunato e geniale, sono in mostra i pani impastati con i sali arrivati da 130 luoghi simbolici dei cinque continenti. E molto altro ancora

A una prima occhiata potrebbe sembrare solo una tavolata in legno imbandita con 25 pagnotte. E tale sarebbe, in effetti, se non fossimo nella Comunità "Villa San Francesco" di Facen di Pedavena (Belluno), un luogo-non luogo ove tutto è possibile e niente è ciò che sembra.

A partire dalla Comunità stessa, dove vivono minori "disagiati" e adulti con "disabilità mentali" (in settant'anni ne sono passati oltre 4.000), ma che è anche il più stralunato e geniale dei musei al mondo, e un laboratorio di idee sempre in fermento, capace ogni volta di trascinare nella nuova impresa chiunque abbia la ventura di incontrare Aldo Bertelle, 68 anni, "direttore" immaginifico e nei decenni "padre" di centinaia di ragazzi (le virgolette in questa storia si sprecano, perché nessuna definizione descrive fino in fondo la realtà): è difficile non restare invischiati nelle sue imprese che rasentano l'impossibile (ma solo in apparenza, perché poi tutto accade davvero).

Come con questi 25 pani, esito di una precedente sfida: «Un anno fa avevamo iniziato con "Salare la terra, salare il mondo", iniziativa con cui chiedevamo un pugnetto di sale a tutto il pianeta», spiega Bertelle.

«L'obiettivo era successivamente salare il pane del mondo, ispirandoci al Vangelo: Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo. È scritto siete, non sarete, occorre agire nel presente, non aspettare il futuro». Così la sera – quando i ragazzi in Comunità si riuniscono intorno al tavolo della cena e ognuno condivide con gli altri la sua giornata – l'idea ha preso corpo. «Niente è impossibile, l'importante è proporre e rimanere in attesa: col passare dei mesi dalle varie nazioni sono arrivati 130 pugni di sale», ognuno proveniente da un luogo denso di storia e di vicende umane.

È con quel sale che in questo Natale sono stati impastati i 25 pani (destinati a restare "in mostra" tutto gennaio sulla tavolata imbandita a Pedavena, per poi partire alla volta di altrettanti luoghi significativi nei cinque continenti): c'è la pagnotta impastata nella Casa Santa Marta di Papa Francesco – capitato nelle cucine proprio mentre la suora cuciniera univa acqua e farina con sale e lievito – e da lui benedetta sul nascere. C'è quella uscita dalle mani dei giovanissimi detenuti nel carcere minorile di Nisida (Napoli). C'è il pane cotto a Nomadelfia, e quello del Sacro convento di Assisi (stazionato ancora caldo nella basilica, davanti a San Francesco).

C'è persino il pane che sulla crosta porta l'impronta della croce del vescovo Tonino Bello premuta sull'impasto («questo poi vorremmo che andasse a finire sul ponte a Sarajevo, dove 30 anni fa sotto le bombe don Tonino alzò il suo impressionante grido di pace, poco prima di morire»).

E poi il pane sfornato nel centro di accoglienza di don Pino Puglisi al Brancaccio, nella Palermo che lo vide ucciso dalla mafia, o quello impastato da padre Pier Luigi Maccalli, per due anni prigioniero dei terroristi nel Sahel, o ancora il pane di Siderno, in Calabria, fortemente voluto dal sindaco e dal consiglio comunale dopo il lungo commissariamento per 'ndrangheta: «Sono pagnotte impegnative», afferma Bertelle, cariche di storia e di fatiche, portatrici di quella umanità che fa la differenza, specie quando l'intero mondo è in crisi e rischia di perdere il coraggio della speranza.

Non è la prima volta che quel manipolo di "ragazzi difficili" ci indica la strada per restituire un senso alle cose. Lo hanno fatto di recente con l'iniziativa "Alla ricerca di parole smarrite", uno «scavo lento e contromano» che ha sorpreso lo stesso Bertelle per la risposta massiccia ricevuta dalle persone, interpellate dai suoi ragazzi con un sondaggio: «Con il tempo abbiamo perso per strada parole essenziali che non usiamo più. Anche nei messaggini si vedono faccine e cuori al posto delle parole, ma un volto vero e un cuore che palpita ci danno molto di più. Abbiamo quindi chiesto alla gente di indicarci le parole smarrite e tra le centinaia di proposte i ragazzi ne hanno scelte 24 (incanto, fervore, guado, eccomi, silenzio, passione…), che l'artista Vico Calabrò ha poi disegnato per il nostro calendario 2022».

Un "calendario" spiazzante, come tutto qui a Facen di Pedavena, dove le strategie educative pensate per "recuperare" i ragazzi diventano contemporaneamente il percorso meditativo che coinvolge (e sconvolge) i visitatori: ne approdano a migliaia al "Museo dei Sogni, della Memoria e della Coscienza" cresciuto all'interno della Comunità, dove sono esposti sogni ma anche segni, indelebili e unici al mondo.

Si va dalla tegola di Hiroshima (una delle due uscite dalla città martire distrutta dall'atomica, l'altra è al Palazzo dell'Onu), al mattone di un forno di Auschwitz; dalla pietra della casa di don Milani a Barbiana, all'intonaco manoscritto di Alda Merini, la poetessa dei Navigli; dalla scheggia del Muro di Berlino, al sasso del Monte di Mosè; dal muro macchiato di sangue della casa di Erba, teatro di uno dei più efferati fatti di cronaca nera, al banco contorto, estratto dalle macerie della scuola elementare crollata in Molise uccidendo 27 bimbi e la maestra; dal frammento delle Torri Gemelle, al mattone della casa di Lech Walesa a Danzica; dal frammento della diga del Vajont col suo carico di tragedia, all'asfalto sollevato in via D'Amelio dal tritolo che uccise Borsellino; dalla roccia del Golgota, al sampietrino romano su cui cadde il bossolo allo sparo di Alì Agca contro papa Wojtyla… Centinaia di pietre parlanti, ottenute dai ragazzi di Bertelle secondo il suo stile: proporre e attendere. E a chi hanno proposto? A capi di Stato e istituzioni mondiali, così i pezzi sono arrivati accompagnati da certificati di autenticità e missive memorabili. Ogni pietra è una pagina di storia e la visita, guidata da Bertelle e dai suoi giovani collaboratori, si sa quando inizia, mai quando finisce.

Ma il pezzo forte è la sfera di vetro dentro la quale sono mischiati i pugni di terra giunti da tutte le 199 nazioni del pianeta, comprese le più remote in mezzo agli oceani. Con tenacia i ragazzi hanno scritto a presidenti delle Repubbliche, monarchi, imperatori, sultani, premier, chiese, università, personalità di rilievo e premi Nobel, chiedendo quel pugno di terra certificato.

Ci hanno messo nove anni, vincendo diffidenze e ritrosie, fin quando nel 2007 non è arrivato il 199esimo pugnetto da Tuvalu, isola-Stato di 12mila abitanti in Oceania, l'ultimo ad entrare nella sfera: «Da allora tutte le nostre giornate iniziano con una carezza a quel piccolo pianeta raccolto nel cuore della Comunità, simbolo della comune appartenenza di sette miliardi di uomini e donne», confida Bertelle. Il cui sogno non si è fermato qui: «Poi abbiamo costruito 199 mattoni di vetro con dentro un po' della terra dei 199 Paesi, che da tre anni stiamo rimandando ai mittenti», così ogni nazione di questo mondo possiederà – in piccolo – l'intero pianeta.

 
 
 

La musica è tutta la mia vita

2022, FC n.  2 del 9 gennaio

I FANTASTICI QUATTRO E I LORO TALENTI

«La musica è tutta la mia vita»

Capelli lunghi raccolti in una coda, ampia camicia bianca con il colletto alla coreana, sguardo deciso: Morgan Icardi ha 15 anni e una passione assoluta per la musica classica. Un adolescente che si discosta dai suoi coetanei, perché ha fatto della musica la sua ragione di vita tanto da aver diretto per la prima volta un’orchestra a 12 anni, vantando il primato di uno dei più giovani direttori d’orchestra del mondo. E ha inciso un disco, Mozart across boundaries (doppio Cd + Dvd), suonando al pianoforte le musiche di Mozart, che musicalmente è il suo idolo, e dirigendo un’orchestra di 18 elementi.

«Vivevo negli Stati Uniti, a Los Angeles, con la mia famiglia, quando all’età di cinque anni ho visto un’amichetta suonare il pianoforte e mi sono innamorato dello strumento. Nella mia famiglia non ci sono musicisti, non sanno neanche leggere le note sul pentagramma. Ho iniziato a prendere lezioni al Silverlake Conservatory of Music e ho preso a fare sul serio quando a 8 anni, tornato in Italia, a Torino, mi sono affidato alla maestra Anna Maria Cigoli. E mi sono dedicato esclusivamente allo studio della musica classica».

Morgan, che per le ore che dedica al pianoforte e i numerosi impegni nei concerti in Italia e nel mondo non avrebbe tempo per frequentare normalmente la scuola, studia da privatista al Liceo musicale Cavour. Ma che cosa resta in lui di un normale teenager?

«La musica classica è tutto per me, un’esperienza avvolgente e totalizzante. Ascolto solo quella e suono solo quella. Mi resta il tempo di fare qualche passeggiata per i parchi di Torino con gli amici, prima del Covid andavo in piscina. Per il resto, inseguo i miei obiettivi».

Morgan è iscritto alla Scuola civica Claudio Abbado di Milano, il più giovane allievo di sempre in direzione d’orchestra, tre anni accademici per conseguire un titolo prestigioso, che coinciderà anche con la conclusione delle superiori. Il suo docente è Renato Rivolta.

«Mi sento fortunato, perché quando suono e studio il tempo trascorre senza che me ne accorga. La passione per la musica classica è come un viaggio in un universo senza confini, più scendi in profondità più sali per raggiungere dimensioni misteriose, al confine dell’umano. Grazie ai canali social, mi rivolgo a persone di tutti i continenti, che in alcuni casi non hanno mai avuto l’occasione di conoscere il valore della musica classica. Molti mi scrivono per dirmi che hanno scoperto un universo nuovo, meraviglioso».

Oltre a Mozart, che ritiene un musicista per tutti, gradevole a un ascolto profano ma pieno di sfumature e profondità per gli intenditori, ha un’ossessione per la Sinfonia n.3 di Brahms che «esprime dei valori ideali, con una straordinaria intensità; non riesco a farne a meno». Tra i direttori di orchestra più affermati il suo modello è Kirill Petrenko, direttore della Berliner Philharmoniker Orchester, «per il rigore delle sue interpretazioni unito a uno stile unico». Gli chiediamo quali dei due ruoli, pianista o direttore d’orchestra, pensa di sviluppare di più in futuro: «Voglio portarli avanti entrambi, si compensano a vicenda: essere pianista mi facilita la lettura della musica d’orchestra, nel pianoforte sono rappresentati un po’ tutti gli strumenti».

 
 
 

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