Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Maggio 2025

Guerre, basta!!!

2025, Avvenire, 7 maggio

Testimoni da Gaza. «Ho paura di abituarmi alla fame e che il vuoto diventi mio amico»

La poetessa Fedaa Zeyad resiste sotto le bombe nella Striscia: «Israele punisce i nostri sensi». Lo psicoterapeuta Mohamed Abu Shawish: è la catastrofe

Ho paura di abituarmi alla fame, di accontentarmi di una crosta di pane e di un pizzico di sale sul bordo della tavola, e che il vuoto diventi mio amico”, scrive online con la sua tragica penna la poetessa Fedaa Zeyad da Gaza. Mentre la Striscia sprofonda nel rischio di una carestia, ad Avvenire la donna racconta quanto sia insopportabile “l’idea che i bambini cresciuti in guerra si abituino a pasti poveri di proteine, e che questa carenza diventi parte dei nostri sensi e della loro memoria. Qui i nati nel 2022 che ora hanno tre anni pensano che le lenticchie siano il pasto più importante. Non conoscono il concetto di pollo. Israele ci punisce con l'assedio mortale a tutti i nostri sensi”.
Da nove settimane le autorità israeliane impediscono l’ingresso di rifornimenti e aiuti umanitari. “Mi sento come se avessi 70 anni, ma ne ho 26” confida Reem Hamad, professoressa di inglese sfollata nella Striscia occidentale, che più volte ha descritto la sua vita quotidiana a questo giornale. “Mia madre ha perso 20 chili, mio fratello Rami più di 10. Non c'è farina, e se ne troviamo è avariata o adulterata. Non è adatta al consumo umano e viene venduta a prezzi esorbitanti. Ma non abbiamo altra scelta e alla fine la compriamo, per scoprire che è mescolata alla sabbia”. Per fare acquisti, occorre pagare in contanti, ma i costi imposti per ritirare denaro dalle banche o per incassare trasferimenti dall’estero sono elevatissimi. “Ci vengono addebitate commissioni superiori al 30%” prosegue la ragazza. “Questo significa che 100 dollari valgono meno di 70, cifra che non è sufficiente per una dose giornaliera di farina per una famiglia. Ci sono persone disperate che girano in gruppi in cerca di cibo e per averlo commettono crimini, fino ad uccidere. Perciò nessuno si sente al sicuro da nessuna parte. Nemmeno nelle zone lontane dai bombardamenti, che si sono fatti estremamente intensi”.

La parola ‘sicurezza’ ha “perduto il suo significato molto tempo fa. Ora è una questione relativa” commenta dal quartiere di Sheikh Radwan di Gaza City un professore universitario che preferisce non venga citato il suo nome. “Viviamo di avanzi, di scatolette. Carne e frutta sono cose del passato. Alcuni prezzi sono folli: un sacco di farina da 25 chili costa 1.500 shekel” (quasi 370 euro, dunque 15 euro al chilo, mentre in Italia costa 1 euro e mezzo). A queste condizioni già estreme, si aggiungono le notizie dei piani israeliani di deportare i gazawi. “A sentirle, la popolazione è frustrata, terrorizzata, arrabbiata”, aggiunge il professore.
Il dottor Mohamed Abu Shawish, psicoterapeuta dell'Al Aqsa Martyrs Hospital, definisce la situazione alimentare attuale “catastrofica. La maggior parte delle persone fa solo mezzo pasto, alcuni non lo fanno proprio”. Chiediamo di tradurci dall’arabo uno dei suoi più recenti post sui social: “Tra i discorsi sull'estensione dell'operazione militare (israeliana) e sullo sfollamento forzato verso Rafah, fame e morte sono diventate compagne in ogni casa di Gaza. La carestia sta devastando i nostri figli, l'acqua è contaminata. Scrivo per invitare coloro che ricoprono posizioni di responsabilità a sentire il dolore delle persone, a toccare con mano il terreno, invece di teorizzare dall'alto. Scrivo per chiedere una soluzione che tiri fuori le persone da questa oscurità. Di quale resistenza parlate quando i corpi dei nostri figli si decompongono davanti ai nostri occhi? Non scrivo per piangere, ma per risvegliare chi ha la coscienza addormentata”.

Torniamo a contattare anche Ikhlas Abu Riash, giovane madre di un bambino di due anni rimasta sola, perché il marito è stato arrestato durante uno sfollamento. “Vivo nella mia casa distrutta e bruciata. Il tetto è inclinato e i muri sono crollati. Ogni notte mentre dormiamo ci cadono addosso pietre e arrivano insetti e topi” ci scrive online. Un messaggio dopo l’altro, il suo diventa uno sfogo: “Dico basta con questa guerra, abbasso Hamas e i suoi leader. Ogni volta che i combattimenti stanno per finire, Hamas rifiuta le proposte di tregua. Siamo pronti a sacrificarci, siamo con la resistenza ma siamo contro i governanti di Hamas perché hanno distrutto Gaza. Hamas ha iniziato questa guerra e Hamas deve mettervi fine. Per causa loro stiamo vivendo l’incubo di questo conflitto. Scrivetelo, non ho paura di nessuno. Un bambino di due anni perde il padre e soffre di malnutrizione, ma che colpa ha commesso per vivere un’infanzia così?”.

 
 
 

Democrazia sempre

Post n°4118 pubblicato il 07 Maggio 2025 da namy0000
 

2025, Avvenire, 6 maggio

…Se questo è lo stato attuale della più grande democrazia del mondo,  (gli Stati Uniti d’America) e se guardiamo anche alla nostra Europa, si capisce che negli ultimi anni qualcosa di enorme è accaduto nei processi politici. Qualcosa di più grande, ma di certo collegato, del fatto che nel frattempo Twitter ha cambiato nome in X dopo essere stato comprato dall’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk, fin qui il principale sostenitore e finanziatore di Trump.

Proprio quel Musk che, ancora titolare di un incarico nell’amministrazione Usa, utilizza il suo social per commenti a dir poco “rudi” sulle cose politiche di Paesi terzi, per lo più europei e non allineati con la sua visione oligopolista del mondo, e della detestata Ue. Nelle ultime ore, manco a dirlo, il padrone di Tesla e aspirante colonizzatore dello spazio ha difeso il partito di estrema destra tedesco Afd, un serio pericolo secondo i servizi segreti di Berlino, sostenendo che metterlo al bando sarebbe «un attacco alla democrazia». Più o meno le stesse parole usate dal vicepresidente americano JD Vance e dal segretario di Stato Marco Rubio, da Matteo Salvini e Roberto Vannacci in Italia.

In altri tempi sarebbe stato superfluo ricordare che la democrazia non si esaurisce nel partecipare alle elezioni. Anche Hitler e Mussolini parteciparono alle elezioni. La democrazia richiede molte altre condizioni, tra le quali il rispetto della separazione dei poteri, la legittimazione dell’avversario, l’osservanza rigorosa dello Stato di diritto, la garanzia di un’informazione libera. Tutte caratteristiche della democrazia liberale, di cui gli Stati Uniti d’America e l’Europa occidentale sono stati i baluardi dal Secondo dopoguerra. Oggi quell’intreccio virtuoso di poteri, contrappesi e controlli si mostra paurosamente sfilacciato e rischia di prestare il fianco a nemici che per attaccarlo ricorrono proprio alle libertà che assicura.

La globalizzazione ha portato con sé anche molte ingiustizie e disuguaglianze, le quali hanno generato rabbia e malcontento. I social media hanno scelto di privilegiare la propaganda (che cavalcando la rabbia e il malcontento genera più clic e fa girare più soldi) rispetto all’informazione. Senza contare che in tempi come questi, di guerre armate e commerciali, la verità dei fatti può risultare ancora più scomoda. Interferire e condizionare sembrano i verbi preferiti dai manovratori di oggi. Ma a distillare quotidianamente veleno e paura si ottengono odio e divisioni. E l’odio ha sempre bisogno di un nemico per sopravvivere ed espandersi, per continuare a nascondere le sue menzogne e i suoi veri interessi. Negli anni, goccia dopo goccia, è passato il messaggio che i Parlamenti sono inutili zavorre al piede di chi comanda, che i partiti “tradizionali” (cioè democratici) sono solo bande di ladri, che la stampa “mainstream” (cioè professionale) è loro complice e concubina. Giusto due giorni fa il presidente argentino Javier Milei ha scritto, naturalmente su X: «Non odiamo abbastanza i giornalisti». E li ha accusati, appunto, di essere «una casta anche peggiore di quella dei politici».

Così il populismo e il nazionalismo sono risorti e bussano alle porte di democrazie sempre più in difficoltà. Così è stato consegnato il dominio della comunicazione (non informazione) a un pugno di miliardari convinti che tutto sia in vendita. Perciò, per celebrare davvero la Giornata mondiale della libertà di stampa che ricorreva ieri, è urgente riaffermare il principio che l’informazione plurale e professionale è un bene comune e come tale va sostenuto e difeso. Perché viviamo tempi bui e, come ha detto un cronista leggendario come Bob Woodward, «senza il giornalismo, la democrazia muore nel buio».

 
 
 

Economia della gioia

Post n°4117 pubblicato il 07 Maggio 2025 da namy0000
 

2025, Luigino Bruni, economista, Avvenire, 6 maggio

Economia della gioia

La preghiera autentica e la fede adulta nascono dalla capacità di attribuire a qualcuno, a Dio, la nostra liberazione. Da Giona a Ninive, serve una alleanza con tutto il creato

La libertà è un bene speciale. Amiamo molte cose, ma ciò che amiamo è bello e buono se e perché siamo liberi. E se liberi non siamo sacrifichiamo tutti gli altri beni, persino la vita, per diventarlo, pur sapendo che non lo diventeremo mai pienamente e definitivamente, perché il cammino dell’esistenza è un continuo passare da una liberazione ad un’altra. Esiste, infatti, un profondo legame tra libertà e liberazione. Anche se non ne siamo sempre consapevoli, ciò che noi sperimentiamo come libertà - libertà di, libertà da, libertà per, libertà con … – è frutto di una liberazione, di molte liberazioni. Si è liberi perché liberati, da quella prima liberazione stupenda ed essenziale dal grembo materno, per continuare con le molte liberazioni dell’infanzia e della giovinezza (dall’ignoranza, dalla dipendenza economica, materiale, affettiva). Poi per tutta la vita, quando la liberazione prende la forma dell’uscita da “trappole di povertà”, dove la mano della vita, degli altri e/o la nostra ci conducono. Fino all’ultima liberazione per mano dell’angelo della morte. In un giorno adulto della vita scopriamo poi che quella nostalgia che ci sorprende in qualche sera, o che si insinua in un sogno ricorrente, non è altro che un profondo desiderio di liberazione.

Ci scopriamo bramosi di essere liberati da qualcuno. E finalmente capiamo che anche in quelle che ci sono sembrate, e magari lo erano, auto-liberazioni, c’era, invisibile, la presenza di un’altra mano che sosteneva la nostra: «Il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi» (Jacob Taubes). L’essenza della fede si trova nella consapevolezza, o quantomeno nella speranza, che non solo la vita è dono, ma anche la libertà lo è. E lo è anche quando a liberarci è stata la mano di una persona concreta, o siamo stati noi – questa “liberazione di seconda battuta”, che attribuisce le nostre liberazioni a Dio, è un dono collaterale del dono della fede, perché ci libera dai grandi debiti spirituali e morali verso i nostri liberatori terreni: siamo loro grati, ma non ci sentiamo loro debitori. Il sentirci liberati ci libera poi dalla superbia-hybris dell’auto-sufficienza e onnipotenza della nostra mano, che sta diventando la religione più diffusa del nostro tempo, dove l’ego diventa l’unico credente, sacerdote e dio. Il mercato capitalista ama molto questa nuova “religione” di massa, che in Occidente ha già preso il posto del cristianesimo.

Liberazione è anche l’altro nome del Giubileo e dell’anno sabbatico che ne è la radice. Liberazione degli schiavi dai padroni, dei debitori dai creditori, della terra dal nostro giogo. Nella Bibbia dietro ogni liberazione c’è sempre un’eco della grande liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Ogni shabbat è memoriale di quella liberazione, in ogni anno sabbatico e in ogni Giubileo rivive Mosè, si riapre il mare e il popolo torna ancora libero e scorge il primo brano di terra promessa sulla linea profonda dell’orizzonte. Tutta la Bibbia ci parla di Giubileo, ogni suo libro è irrorato dal suo spirito. Incluso il piccolo libro di Giona, dove non ce lo aspetteremmo. Giona aveva detto no al comando di Dio che lo aveva inviato a Ninive. Fugge, si imbarca nella direzione opposta verso Tarsis. Si scatena una forte burrasca e la nave sta per affondare. Ma, per un fenomeno di “capro espiatorio” (René Girard), Giona viene gettato dai marinai in mare come vittima sacrificale, per placare gli dèi delle acque. I marinai lo considerano infatti la causa del male che si è scatenato, e Giona si convince di essere davvero lui, per la sua disubbidienza a Dio, l’origine di quella sciagura imminente. Giona finisce tra i flutti ma non muore, perché un pesce-femmina (daga, in ebraico) lo ospita nel suo grembo buono, e dopo tre giorni lo riporta sano e salvo sulla riva. Come nella liberazione dall’Egitto, le acque diventano luogo di una salvezza straordinaria, ancora una liberazione dalla morte che appariva certa.

La storia di Giona ha molto da dirci per comprendere la cultura del Giubileo. Due sono i suoi insegnamenti principali. Innanzitutto, mentre fa l’esperienza della liberazione nel ventre del pesce, Giona prega: «Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce… La mia preghiera è giunta fino a te… La salvezza viene dal Signore» (Giona 2, 3-10). Giona, ci dice la Bibbia, era un profeta, quindi sapeva già pregare. Ma la prima e unica preghiera che troviamo nel suo libro arriva dopo la salvezza dalla morte. Allora in questa preghiera di Giona possiamo trovare una grammatica dell’arte di ricominciare a pregare dopo una grande prova che ci aveva tolto la fede o la preghiera, spesso entrambe. Giona prega perché ha fatto l’esperienza di una liberazione, e poi - condizione sufficiente – attribuisce quella liberazione al suo Dio. Scopre il volto di Dio come liberatore, lo chiama quindi con il suo primo nome. Da adulti – la storia di Giona è anche una iniziazione dei profeti alla vita adulta – molte persone che avevano avuto una gioventù di fede e di preghiera smettono di pregare; la preghiera non ritorna se non si fa l’esperienza di una liberazione e di un liberatore. Perché dopo essere stati liberati (da una malattia grave, da un lutto che sembrava infinito, da una depressione, da un rimorso divorante …), inizia nell’anima qualcosa di davvero importante, una autentica resurrezione. Ci si ritrova a pregare senza accorgersene, la riconoscenza fiorisce naturalmente in preghiera del cuore – la resurrezione è il centro della fede cristiana anche perché non si ritrova la fede, e la preghiera, senza risorgere. Quando nella vita arriva questa consapevolezza di essere stati salvati da qualcuno/a, inizia una stagione tutta nuova e stupenda dell’esistenza. Nasce la gratitudine vera, capiamo cosa è la gratuità, scopriamo un’altra reciprocità, inizia il tempo dell’umiltà buona, che gli altri riconoscono anche quando ne ignorano la radice.

Per questa ragione il Giubileo può diventare il tempo per ricominciare a pregare, in una fede adulta, o per scoprire nuove dimensioni della preghiera. E anche se non riusciamo a fare questa esperienza di essere liberati – queste esperienze non si comprano sul mercato, non si ordinano, non si comandano: accadono e basta, sono tutto dono –, possiamo comunque tentare due strade che generano gli stessi frutti. La prima è fare memoria delle liberazioni che abbiamo avuto nella nostra vita fino ad oggi, incontratane almeno una, attraversare quella porta, e trovarsi nel tempo nuovo della preghiera, o almeno dell’umiltà. Perché ricordare oggi un evento decisivo di ieri e chiamarlo col nome giusto (liberazione), è come riviverlo una seconda volta. L’altra possibilità è diventare soggetti di liberazione per altri, provare a liberare qualcuno da una schiavitù. Fare, in questo, la parte di Dio, imitarlo in quanto liberatore. Il Giubileo passerà invano se non proviamo almeno una di queste liberazioni, se non passeremo attraverso una di queste porte. Infine, la conclusione del libro di Giona ci svela un’altra dimensione importante della cultura giubilare. Dopo che Giona è stato salvato dal pesce e prega, finalmente obbedisce al comando di Dio, e si reca a predicare a Ninive per annunciare al popolo: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Giona 3,4). La città - sorprendendo anche Giona che si arrabbierà molto per questo – crede alla parola di Giona, e si converte: «Bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli» (3,5). Il re poi emette un decreto per indire una grande penitenza generale di tutto il popolo, dove troviamo un dettaglio straordinario: «Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco» (3,7-8).

Anche gli animali “si coprono di sacco”, quindi, anche la loro penitenza diventa necessaria per la conversione e il perdono. Un brano di alta profezia, che oggi dovrebbe parlarci molto forte, più di ieri. Gli animali – e le piante e tutta la creazione – non erano responsabili dei peccati di Ninive, come oggi non sono responsabili del degrado ecologico del nostro pianeta. Ma non riusciremo a salvarci e salvarli senza un coinvolgimento di tutte le specie viventi nella soluzione del problema. Il problema lo abbiamo generato noi umani, ma, per una solidarietà oggettiva e reale di tutto il creato, non usciremo da questa gravissima crisi ambientale se anche gli animali e le piante “non si vestiranno di sacco”. Ormai il male è comune, anche il bene dovrà essere comune. Chi ha tentato una soluzione vera e seria di un problema collettivo e comunitario, sa che l’analisi delle colpe passate può aggravare la crisi se, un giorno, tutti insieme, innocenti e colpevoli, non decidiamo di “vestire di sacco” e guardare finalmente al futuro. Questa partecipazione degli animali alla conversione di Ninive è espressione piena della cultura dello shabbat: se nel “settimo giorno” anche gli animali partecipano al riposo della creazione, se in quel giorno anche l’animale smette di lavorare, allora i due lavori e i due destini sono intrecciati e inseparabili, nel bene e nel male.

La notizia stupenda è che gli animali e le piante stanno già vestendo di sacco. Gli alberi e gli oceani stanno assorbendo molta della CO2 che noi produciamo, mitigando così i danni che senza di loro avrebbero già reso invivibile (per noi) il pianeta. Loro, innocenti, hanno già indossato il sacco, hanno iniziato la penitenza della terra: ma noi, umani, quando lo indosseremo?

 
 
 

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