Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

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Messaggi di Giugno 2025

La mia isola

Post n°4132 pubblicato il 11 Giugno 2025 da namy0000
 

2025, Avvenire, 8 giugno

Haiti. Il fotografo esule: «La mia isola ha urgente bisogno di sicurezza»

«A Port-au-Prince fare il reporter è molto delicato, nessuno sembra capire il tuo lavoro». Richard Pierrin, 23 anni, è uno dei più conosciuti emergenti haitiani

La sua carriera come fotogiornalista è iniziata per testimoniare cosa accadeva per le strade di Port-au-Prince: violenze, tensione politica, proteste. Richard Pierrin ha 23 anni ed è oggi uno dei più conosciuti fotografi emergenti haitiani. Ha pubblicato per le principali agenzie mondiali come Afp e Getty e le sue foto sono apparse su El Pais, Time Magazine, Bbc. Ha vinto premi ad Haiti e internazionali ma, quando lo racconta, Pierrin minimizza: «Ho qualche esperienza» dice.

Lo raggiungiamo al telefono a Washington DC, negli Stati Uniti, dove vive oggi: «Ho dovuto lasciare Haiti per motivi politici - racconta -. Non potevo più fare il mio lavoro, era diventato troppo pericoloso».

Richard Pierrin, se tu dovessi scegliere una tua fotografia a cui sei particolarmente legato, quale sarebbe?

Sono molto affezionato a tutte le mie fotografie perché vivo il mio lavoro come una responsabilità e ogni immagine ha un significato unico per me. Ricordo però in particolare una fotografia scattata durante una protesta a Port-au-Prince: la protagonista era una donna ferita dalla polizia e circondata da altre persone che cercavano di aiutarla. Lei è sopravvissuta, ma quel giorno sono morte 12 persone durante le manifestazioni.

Come descriveresti la situazione attuale della capitale, Port-au-Prince?

Adesso è davvero dura. Ho visto la situazione peggiorare nel tempo: io sono nato a Petit-Gôave, una località a 60 chilometri da Port-au-Prince e mi sono trasferito nella capitale per l'Università, alcuni anni fa. Già allora la situazione era molto difficile, ma ora è diventata folle. Seguo sempre le notizie e so che l’80% della capitale è controllata dalle bande armate, che bloccano gli accessi alla città. Anche l'aeroporto è stato chiuso. Non è così in tutto il Paese, fortunatamente ci sono ancora alcune province dove poter andare, come Cap-Haïtien o Jérémie. Ma nella capitale la violenza ha la meglio.

Immaginiamo che essere un fotoreporter ad Haiti sia molto complicato…

Sì, è uno dei motivi per cui ho dovuto lasciare il Paese, e ora è pericoloso più che mai. Nessuno sembra capire quello che stai facendo con il tuo lavoro e con le tue fotografie: né le persone, né le gang, né i politici. Tutti si preoccupano per le immagini che scatti, magari si sentono minacciati, e nessuno ne vede l’utilità. Il risultato è che sei molto solo, non sei ascoltato e ti ritrovi in una posizione molto delicata.

Di cosa ha bisogno Haiti?

La prima urgenza è la sicurezza, senza dubbio. Poi ripristinare il sistema sanitario e svolgere le elezioni per avere un nuovo governo (attualmente ad Haiti c’è un comitato di transizione nominato dopo la conquista della capitale da parte delle gang, con il compito di portare il paese verso una stabilità politica, ndr). Ma sì, prima di tutto è necessario riportare la sicurezza. Se devo pensare a un modo in cui anche gli altri Paesi possono aiutare Haiti, è proprio mandare persone che possano agire in questo senso e contrastare le gang. Qualcosa è stato fatto con il contingente Onu che è arrivato, ma non è assolutamente sufficiente: ci vorrebbe uno sforzo decisamente maggiore.

Di Haiti si racconta sempre la violenza, la povertà, l’instabilità. C’è un altro racconto possibile?

Certo, Haiti ha tanta bellezza. Io ho avuto modo di viaggiare molto nel mio Paese e ci sono luoghi che sono interessanti e ricchi di storia, come Cap Haitien o Citadelle Laferrière. Ci sono spiagge meravigliose, una grande varietà di cibi da assaggiare e tante storie personali che hanno molto da dire. Haiti non è solo le gang o la violenza, c’è anche tutto un altro lato che non viene mai visto. Il mio sogno è tornare ad Haiti e andare a documentare proprio queste storie, costruire in immagini e parole una narrazione diversa dell’isola e pubblicarla sui giornali internazionali. Adesso non è possibile per me rientrare nel mio Paese, ma questo rimane un grande desiderio.

Richard Pierrin sta continuando il suo lavoro di fotografo da Washington Dc, dove sta documentando la vita dei migranti haitiani. In particolare, sta svolgendo una masterclass con il World Press Photo. I suoi lavori sulla comunità haitiana ad Atlanta si può vedere qui.

 
 
 

La nostra storia non è tutta scritta nel Dna

2025, Intervista a Gianvito Martino, medico, neurologo, 63 anni, FC n. 22 del 1 giugno

La nostra storia non è tutta scritta nel Dna

«L’Io biologico è la sintesi tra gli atomi e le molecole che lo compongono e l’ambiente in cui è immerso. La mancanza di accudimento materno porta a cambiamenti molecolari, in una zona del cervello denominata ippocampo, che provocano lo sviluppo di disturbi comportamentali. Bambini privati dell’accudimento parentale erano più a rischio di sviluppare disturbi psichiatrici. Se noi considerassimo la mente, e non solo il cervello, come materia potremmo attribuirle la capacità di agire fisicamente sul nostro organismo causandone modificazioni. Le interfacce cervello-computer, “macchine” che usano la corrente elettrica prodotta dal pensiero per agire sull’ambiente circostante o sul funzionamento del cervello stesso. Se i nostri comportamenti possono modificare la nostra biologia e noi possiamo modificare i nostri comportamenti in base all’ambiente in cui viviamo, ne deriva che siamo responsabili del nostro destino attraverso le scelte che compiamo. Non siamo predeterminati o predestinati in assoluto. Sapendo tra l’altro che questi comportamenti “epigenetici” sono potenzialmente trasmissibili ai figli, siamo doppiamente responsabili. Ormai esistono diversi esempi che testimoniano che, modificando l’ambiente in cui viviamo, lavorativo o personale che sia, possiamo produrre effetti rilevanti a livello “medico”. Per esempio, nelle cosiddette “Città dell’Alzheimer”, luoghi protetti in cui le persone con demenza possono vivere la loro quotidianità come se fossero nella propria casa, si iniziano ad accumulare sempre più solide evidenze che il decadimento cognitivo viene rallentato. Siamo influenti nel nostro destino. Niente scuse. Abbiamo uno spazio d libertà evidente che ci deve far sentire maggiormente responsabili verso noi stessi, certo, ma soprattutto verso la società e le nuove generazioni in particolare. Dobbiamo avere il coraggio di conoscere e di imparare a trasmettere questa conoscenza alle generazioni future. Centrale diventa, quindi, l’educazione, da quella scolastica a quella civica. Sfruttando le nostre conoscenze in epigenetica psicosociale, si potrebbero, per esempio, individuare percorsi educativo-formativi mirati che creino quelle condizioni necessarie e sufficienti, affinché i nostri ragazzi possano risultare protetti da meccanismi che potrebbero portare all’insorgere di disturbi psicobiologici. Bisogna agire fin dalla scuola materna, non abbiamo più tempo. Dobbiamo certo insegnare ai nostri figli come accedere e utilizzare le risorse digitali a nostra disposizione, ma all’interno di un contesto controllato e controllabile. L’accesso libero al Web è una questione decisiva, come lo è il dover educare le nuove generazioni a sapere filtrare dal Web quanto di buono c’è, evitando derive pericolose. In Australia hanno proposto di bandire l’accesso a Internet ai minori, dopo aver condotto alcuni esperimenti da cui risulta che chi trascorre più tempo connesso soffre di un rallentamento dello sviluppo cognitivo. Ci sono approcci di tipo epigenetico già in atto che si pongono come obiettivo quello di non modificare la struttura del Dna – operazione comunque rischiosa – ma la sua funzione. Accendere geni non funzionanti o spegnere geni malfunzionanti è possibile tramite l’epigenetica senza modificare strutturalmente il nostro patrimonio genetico. Per ora i tentativi compiuti restano a livello sperimentale, ma le potenzialità sono straordinarie». 

 
 
 

Artigiano della Comunicazione

Post n°4130 pubblicato il 04 Giugno 2025 da namy0000
 

2025, FC n. 22 del 1 giugno

Con le parole creiamo Empatia, non barriere

Lo speaker motivazionale, oltre a essere per tutti un esempio di resilienza e positività, Arturo Mariani è stato premiato come “Artigiano della comunicazione 2025”. Nato, 31 anni fa, senza una gamba, non vive la sua condizione come una disabilità: «Se metti questa parola vicino a una persona, abbassi il suo valore. Dobbiamo usare quelle che ci aiutano a esaltare i nostri talenti».

Essere artigiani è tornato di moda, ed è una bellissima cosa. La cura per il prodotto, la passione, l’originalità sono quel valore aggiunto che sfugge alla serialità e all’automazione. Anche in ambito comunicativo dobbiamo recuperare e mantenere vivo l’aspetto artigianale delle relazioni. Non è dunque a caso che quest’anno, all’interno della XX Settimana della comunicazione, la Società San Paolo organizza il Premio “Artigiano della comunicazione”. L’obiettivo è di mettere in risalto persone che, con stile originale e responsabile, creano comunicazione “sana”, autentica, capace di costruire relazioni tra persone in questo mondo spesso disgregato.

Arturo, cosa significa per te questo premio? Ti senti “artigiano della comunicazione”?

«Sono grato e onorato di ricevere questo premio. Mi piace tantissimo il termine “artigiano della comunicazione” perché è un po’ il mio obiettivo, per me è importante riuscire a essere autentici e modellare le parole. C’è una frase che mi ha colpito nel corso degli anni in cui ho studiato comunicazione: “Non esiste un messaggio se non arriva al mittente”. Ho cercato sempre di modificare non il contenuto, ma piuttosto la forma, al fine di arrivare al mittente. Quando ti metti in ascolto, quando hai intenzione di fare il bene degli altri, ti preoccupi anche del modo in cui arrivi agli altri. Non abbiamo bisogno di favolette costruite o perfezioni inarrivabili, abbiamo bisogno di storie vere e di artigiani che possono far arrivare la verità alle persone».

Di professione sei “speaker motivazionale”. Su cosa fa leva il tuo lavoro?

«Le motivazioni che possiamo trovare nella nostra vita si attivano solo quando riusciamo a connettere con l’altro, e per connetterci con l’altro dobbiamo entrare in qualche modo in empatia con lui. Non mi sono mai piaciuti i motivatori che ti dicono: “Fai così, fai questo”, o gli educatori che ti dicono solo quello che devi fare. Secondo me invece un buon motivatore oggi è colui che riesce a entrare in comunicazione e quindi in empatia con gli altri, con l’altra persona».

Tu sei esempio di positività per tutti, però forse il primo esempio di positività lo hanno dato i tuoi genitori. Quando hanno saputo che tu saresti nato senza una gamba, hanno scelto per te la vita.

«Ho ereditato un po’ tutto da loro perché devo tutto a loro. Quello che sono oggi e che cerco di trasmettere è grazie ai miei genitori, loro non si sono fermati alla diagnosi, non si sono fermati a quello che ci poteva essere di negativo nella mia vita, alle difficoltà che avrei incontrato. Sono persone di grande fede e per loro è stato proprio un atto di fede dire: “Arturino nascerà e farà grandi cose”. Il disegno della vita a volte è mistero ma solo affidandoti, solo accogliendo quello che arriva, potrai rivelarlo nel tempo. Non mi hanno accolto come “Arturo senza una gamba”, ma come “Arturo con una gamba”, Arturo che è un dono, Arturo che sarà speciale perché è unico, come lo siamo tutti. Hanno posto le basi per tutto quello che poi ho seminato e cercato di trasmettere nella mia vita».

Tu dici: “Io sono Arturo con una gamba”, non “Sono Arturo senza una gamba”. Forse è il miglior concentrato di quello che tu ti proponi, di essere e di fare anche come speaker motivazionale…

«È così ed è applicabile a tutti. Nel mio lavoro mi soffermo sulle parole, non per creare ossessioni o limiti su quali utilizzare, ma per creare dei punti interrogativi. Viviamo questi paradigmi linguistici, la disabilità… quel “dis” viene utilizzato sempre per descrivere stati negativi, dis-agio, dis-astro, dis-perazione… Se metti quella parola vicino a una persona, abbassi il suo valore. Dobbiamo usare, invece, parole che vanno ad aprire le nostre possibilità e che ci aiutano a scoprire i nostri talenti, è una scelta che noi possiamo fare. Per me non può esistere neanche la fede senza questa prospettiva positiva, perché una persona privata della gioia di guardare alle cose che si hanno, con difficoltà potrà guardare oltre i suoi limiti». 

 
 
 

Incontro a un'umanità smarrita

Post n°4129 pubblicato il 03 Giugno 2025 da namy0000
 

2025, FC n. 22 del 1 giugno

Incontro a un’umanità smarrita. Il monastero benedettino di Siloe è una porta aperta sul mondo, sul creato e sull’arte

«Alla porta del monastero sia posto un anziano saggio che sia capace di prestare ascolto e di dare risposta… e appena qualcuno busserà o un povero chiamerà… con tutta la mansuetudine data dal timor di Dio, si affretti a dare risposta con carità fervente» (R.B. cap 66). Questo testo ci presenta il Monastero di Siloe a Poggi del Sasso (Grosseto) come una porta aperta sul mondo e ci permette di dare una declinazione monastica a quella “Chiesa in uscita” invocata da papa Francesco: non un movimento fisico verso nuovi luoghi, ma possibilità di incontro con l’umanità smarrita, ferita e sofferente nello spirito di tanti nostri fratelli. La nostra comunità è sempre aperta ad accogliere chiunque desideri condividere il nostro cammino di ricerca di Dio nella preghiera, nel silenzio e nella fraternità, nella riscoperta dell’identità più vera e profonda di noi stessi, quella di figli di Dio. Cammino nel deserto della “dissomiglianza” verso la terra promessa del sentirsi amati dal Padre e al servizio del suo Regno. Inoltre, altre due “porte” sono aperte verso il mondo di oggi: la custodia del Creato e alcune iniziative artistiche e culturali. Il monastero di Siloe è costruito con i principi della bioarchitettura con l’utilizzo di energie rinnovabili, inoltre abbiamo un’azienda biologica  e i nostri campi sono diventati un giardino “Laudato sì”. Abbiamo, poi, avuto diverse edizioni del Siloe Film Festival, una rassegna di cortometraggi su tematiche dell’ecologia integrale. E in quest’anno giubilare si è tenuto un simposio internazionale di scultura con artisti provenienti da varie parti del mondo che, con le loro opere, hanno testimoniato i valori della pace, della riconciliazione e della pacifica convivenza tra i popoli, animando anche il territorio in cui vive la nostra comunità.

 
 
 

Un gruppo di donne

Post n°4128 pubblicato il 03 Giugno 2025 da namy0000
 

2025, FC n. 22 del 1 giugno

In difesa dei diritti delle donne. Storia di resistenza al femminile in Calabria

A San Giovanni in Fiore (Cosenza), è attiva l’associazione “Donne e diritti”, nata per volontà di un gruppo di donne motivate dallo stesso obiettivo: rivendicare na sanità pubblica per il diritto alla cura. Nel corso degli anni l’associazione ha dato voce a tante donne che hanno preso coscienza dei problemi del Paese e provato a riconquistare fiducia in se stesse e nelle istituzioni, donne che hanno vissuto sulla propria pelle il degrado dei servizi pubblici e lo smarrimento della solitudine. “Donne e diritti” vuole anche combattere la violenza, si occupa di accoglienza, integrazione e promozione culturale dei diritti delle donne. Ha istituito Mirabal, il primo centro antiviolenza a San Giovanni in Fiore, ha promosso un concorso letterario, ha ideato un forno solidale dove le donne impastano insieme, seguendo le regole della tradizione. Ha anche creato una serie di laboratori di antichi mestieri: uncinetto, ferri, ricamo, produzione di sapone, tutti spazi di socialità per rafforzare i legami e l’inclusione. Inoltre, è nato un emporio di reciprocità, in cui i vestiti smessi possono essere scambiati, il laboratorio di inglese e di musica, quello di tessitura, nonché una sartoria solidale. Noi che ne facciamo parte sentiamo che la nostra vita è un patchwork di stoffe differenti. E capiamo che il nostro compito è tenerle insieme, con ago e filo, cercando il più possibile di armonizzare i colori. Impariamo, insomma, a riparare gli strappi – Paola Stefania F. – Donne e diritti, San Giovanni in Fiore (Cosenza)

 
 
 

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