Messaggi di Luglio 2025
Post n°4147 pubblicato il 10 Luglio 2025 da namy0000
2025, Cosimo Accoto, Avvenire, 10 luglio L’inquinamento informativo e gli antidoti alla rivoluzioneCon l’avvento del digitale, dell’artificiale e del sintetico stiamo entrando in una nuova era inflazionaria dei media. Questa era porterà a un profondo (e rischioso) cambiamento Cosimo Accoto, filosofo tech affiliato al Mit (Boston), docente universitario presso Unimore, esplora le implicazioni della tecnologia e delle sue innovazioni culturali. Qui riportiamo il suo contributo per la rivista trimestrale di "Azione cattolica" diretta da Pina De Simone, che si apre con l’editoriale di Piero Pisarra Il lamento non udito della pace. L’arrivo dell’intelligenza artificiale, generativa in particolare, segna l’inizio di una nuova era di inflazione mediale, caratterizzata dalla potenza simulativa di linguaggi sintetici, immagini artificiali e agenti autonomi. Questo sviluppo ha profonde implicazioni filosofiche e pratiche, poiché mina i regimi di verità e falsità storicamente accettati e praticati. Inoltre, rappresenta una sfida significativa alla raffigurazione della realtà storicamente costruita e connotata. Nell’era della post-verità, caratterizzata da falsità, allucinazioni, bolle ed ecolalie, come possiamo emergere da questa nuova crisi epistemica? Fortunatamente, insieme alla minaccia incombente, vi è una crescente consapevolezza della necessità di ricostruire il concetto e la pratica della «verità» con modi innovativi. Questo richiede la progettazione e la creazione di condizioni sociotecniche che consentano l’esperienza e la comprensione del «vero». In definitiva, queste sono anche questioni di dinamica politica e di potere. Vivere in un’era mediatica inflazionaria È sempre più chiaro che stiamo entrando in una nuova era inflazionistica. Nuove tecnologie, dispositivi e infrastrutture della conoscenza e della comunicazione stanno arrivando nella società come un’onda imponente, accelerando esponenzialmente la creazione, la conservazione e la circolazione di contenuti e informazioni. Qualche decennio fa abbiamo iniziato con la duplicazione della riproduzione digitale. Oggi, stiamo ulteriormente e inflazionisticamente moltiplicando tutto ciò attraverso la produzione dell’intelligenza artificiale generativa, non solo la produzione, ma anche la distribuzione. Sta cambiando la circolazione: dalla diffusione dei media di massa alla canalizzazione mobile, poi sociale, poi virtuale e, in prospettiva, direttamente neurale. Linguaggi, immagini, video, ambienti, storie, simulazioni e realtà estese rappresentano l’esplosione senza precedenti di questa nuova medialità inflazionistica. Il punto chiave del nostro discorso è che le ere mediali inflazionarie non sono tali solo perché la produzione e la circolazione di contenuti è aumentata esponenzialmente, in forme, logiche e dinamiche nuove. Piuttosto, le ere mediatiche inflazionarie cambiano radicalmente la rappresentazione (storicamente data) della realtà, i regimi di verità e falsità che abbiamo creato e istituzionalizzato finora, insieme ad altre dimensioni culturali e politiche cruciali, come i contratti sociali che sanciscono l’autorialità, l’originalità, la proprietà, la responsabilità, l’accessibilità e così via. Pensiamo ad esempio al linguaggio e alla scrittura: finora a parlare e scrivere è stato solo l’uomo. Il linguaggio e la scrittura erano considerati un privilegio della specie sapiens. Così abbiamo estromesso nel tempo da questi domini il mondo vegetale e quello animale. Ora ci stiamo accorgendo che questa esclusività linguistica viene erosa dall’evoluzione tecnologica di macchine «retoriche» in grado di avere e prendere la parola. Dopo aver inventato le macchine calcolatrici (deterministiche) dei numeri, abbiamo ora costruito le macchine calcolatrici (probabilistiche) delle parole: i large language model. Qualcuno le ha paragonate e derubricate a pappagalli stocastici. Tuttavia, l’elaborazione automatica del linguaggio naturale umano non è solamente un progresso tecnico nella comunicazione scritta e orale. Essa rappresenta anche una sfida culturale alla tradizionale idea letteraria di autore e lettore, ai sistemi sociali che definiscono verità e falsità nei documenti, e ai contratti giuridici riguardanti proprietà e responsabilità. Non si tratta solo di chiedersi se un modello linguistico su larga scala abbia la capacità tecnica di scrivere, ma di affrontare alcune profonde questioni esistenziali. Ad esempio, chi è l’autore delle cose che la macchina scrive: la società tech che l’ha costruita? Il modello linguistico che è stato generato? Il corpus di testi con cui è stato addestrato? L’utente che ha scritto il prompt che ha prodotto quel testo? E poi: abbiamo ancora bisogno della funzione-autore per come l’abbiamo storicamente disegnata o dovremo immaginare qualcos’altro? E ancor più radicalmente: può esistere una scrittura (e il suo senso) senza una mente (pensante) e senza un mondo (referente), una scrittura che peraltro diviene “inflattivamente impermanente” perdendo anche la sua prerogativa di iscrizione fissa? Questa erosione non riguarda solo la parola. Lo stesso scardinamento si sta producendo per le immagini e per lo sguardo umano. Nel nostro orizzonte tecnico, lo sguardo umano si ritrova progressivamente e per molti versi marginalizzato o inidoneo. Questa rimozione tentata, negoziata, in parte realizzata, ha oggi molte forme e occasioni. In alcuni contesti, lo sguardo è assente perché l’occhio non è più in grado di giudicare il prodotto visivo artificiale di una macchina. Non riesce a distinguere tra vero e falso. In altre esperienze, invece, lo sguardo non è più chiamato a svolgere la sua funzione decisionale, sostituita dalla visione esclusiva ed escludente delle macchine. A vedere, al suo posto, è qualcun altro o qualcosa d’altro. In ulteriori casi, lo sguardo è spiazzato perché l’immagine non ha più la sua antica funzione rappresentativa del reale. Il mio occhio, dunque, incrocia una visualità di natura diversa: l’immagine non rappresenta più l’oggetto che vorrebbe raffigurare. La provocazione, riferita alla scrittura come ultima parola, si ripropone ora anche con l’immagine: come per la scrittura non più fatta per essere letta da umani, anche l’immagine non è più prodotta per essere vista da umani. Sono le tecnologie della visione «astensive» dell’umano (non meramente «estensive» dell’umano). Stiamo entrando in territori inesplorati culturalmente e arrischiati socialmente e politicamente. Alla ricerca di nuove immunizzazioni È in questa prospettiva critica che dobbiamo leggere gli sforzi ingegneristici attuali di certificare e distinguere l’umano dalla macchina, il vero dal falso, l’originale dalla copia, il “fatto” dal “contraffatto”. Tuttavia, è necessario comprendere che la nuova “verità” emergerà attraverso configurazioni inedite. Ciò significa che si svilupperà come un processo dinamico, basato su una serie di protocolli e componenti fondamentali che, grazie a nuove interazioni tra persone e tecnologie, determineranno la produzione, la circolazione e la conservazione della «verità» del mondo. E, con questa, di molti dei suoi derivati come qualità, autenticità, autorialità, credibilità, affidabilità, assicurabilità e così via. È in accelerazione, dunque, lo sviluppo di soluzioni tecniche e standard computazionali condivisi che cercano di contemperare, in qualche misura, tecnologia e policy, robustezza tecnologica e validazione sociale. Dunque, marcatori statistici, impronte crittografiche, tracciatori di provenienza, algoritmi avversativi sono alcuni degli strumenti allo studio per questa nuova «caccia alla verità». Come si comprende facilmente, attraversare (e abitare già in qualche senso) queste nuove uncanny valley (situazioni disturbanti e disagevoli) si preannuncia come una sfida politica planetaria, complessa e arrischiata. Uno sforzo erculeo tanto quanto (qualcuno paventa) sisifeo: sistemi ingegneristicamente complicati da realizzare, ma spesso facili da aggirare in una gara senza esclusione di colpi e senza possibilità di tregue tra verificatori e falsificatori. Più in generale, sarà necessario farsi carico di tutte le fasi della «produzione del vero»: la certificazione, la conservazione, la circolazione. Dunque, come si validerà il vero? Come lo si preserverà? Come lo si diffonderà? Sulla verifica, intelligenza artificiale e crittografia informatica sono candidate a essere strumenti chiave per certificare l’autenticità di un contenuto o la proprietà di un bene. Sull’archiviazione, le architetture di tipo blockchain si propongono di diventare i dispositivi per la conservazione digitale protetta di media news e virtual asset. Infine, sulla circolazione, sappiamo che oggi è in capo alle piattaforme delle big tech, le quali, però, come abbiamo anticipato, hanno anche la capacità massima di amplificare il falso. A ben guardare, infatti, non è la semplice creazione del fake che dovrebbe preoccuparci maggiormente, quanto la sua circolazione sociale e politica facile, automatizzata, massiva e capillare. In questa prospettiva, altri sistemi di contrasto al falso come il fact-checking risultano poco efficaci, pur essendo culturalmente e politicamente rilevantissimi. Questo perché, mentre fatichiamo a controllare una singola notizia falsa, le piattaforme ne hanno già amplificato milioni di altre con l’automazione massiva. Riusciremo nell’ardua impresa di creare nuovi mercati dell’informazione più sani o sarà anche questa una fatica gigantesca e vana? Il debunking (o fact-checking) inoltre è una pratica ex post: si avvia solo una volta che la disinformazione potenziale è già circolata, una volta che i danni si sono oramai prodotti. Altri sistemi, più in logica immunitaria, cercano di lavorare ex ante, come è il caso del prebunking. Insieme all’analogia dell’inquinamento informativo, l’altra similitudine circolante è che la disinformazione sia una sorta di infezione virale che va curata. Se così è, si sta immaginando di combattere il fenomeno del falso mediatico anche con una vera e propria operazione di immunizzazione informativa. Tecnicamente si definisce pre-bunking e consiste nel far circolare intenzionalmente contenuti fake in maniera anticipatoria per creare una sorta di immunità agli stessi prima che la popolazione e i cittadini vengano ad essi esposti criminalmente da parte di manipolatori o malintenzionati. L’idea alla base di questa esposizione voluta e preventiva è che possa ridurre la suscettibilità alla disinformazione quando la si incontra. Proprio come una vaccinazione medica, l’esposizione a dosi controllate e indebolite del patogeno dovrebbe contribuire a depotenziarne la carica. Potremmo definirla una sorta di vaccino culturale, psicologico e politico, sebbene non sia privo di problematiche. Tra watermarking (filigrane statistiche), fingerprinting (marcatori crittografici) e metadata (etichette di dati), la condizione informativa umana, politica e ingegneristica è nuovamente e arrischiatamente messa in discussione e provocata nel suo significato, con tutte le sue implicazioni democratiche connesse [...]. Se l’intelligenza artificiale (anche quella generativa) rappresenta una provocazione di senso per l’umanità e le sue prerogative esistenziali, dobbiamo affrontarla soprattutto con l’innovazione culturale. Ai «problemi tecnici» risponderemo con un po’ di ingegneria (regolatoria, etica, informatica, educativa, politica), mentre alle «provocazioni intellettuali» dovremo rispondere con lo sforzo (faticoso, difficile, dubbioso, rischioso) di fare innovazione culturale. Produrremo più benefici o malefici? Spetta a noi, credo, orientare al meglio (Nyholm 2023) queste opportunità tecniche, chiedendoci eticamente sempre perché (lo facciamo) e per chi (lo facciamo). |
Post n°4146 pubblicato il 08 Luglio 2025 da namy0000
Tag: ambulanze, amministrazioni, aratri, banchi di scuola, governanti, numeri, ospedali, pace, pianeta, potere, progetto, sale parto, semi, tessere, tubature, umanità, umano, uomo, vangelo 2025, Domenico Battaglia, Avvenire, 8 luglio Basta guerra: se non per Dio, fatelo per cìò che d'umano restaLa lettera aperta del cardinale di Napoli: voi che impugnate le leve del potere, convertite i piani di battaglia in piani di semina. Dio chiama ogni coscienza a spalancarsi e difendere il fragile Il pianeta risuona tamburi di guerra da ogni direzione dell’orizzonte. In Ucraina tredicimila civili cancellati dal fuoco; a Gaza cinquantasette mila vite spente come candele nella corrente in ventuno mesi d’assedio; dal Sudan quattro milioni di corpi in marcia alla ricerca di un fazzoletto d’ombra; in Myanmar tre milioni e mezzo di volti dispersi fra cenere e giungla; e, sopra tutti, una città invisibile che non smette di crescere: centoventidue milioni di profughi lanciati nel vento come semi. Questi numeri – li sentite pulsare? – dovrebbero gelare il sangue, ma sfumeranno come bruma se non accostiamo l’orecchio al battito che custodiscono. Ogni cifra è una fronte che scotta, una fotografia sbiadita stretta in un pugno, una voce che domanda solo un minuto senza sirene. A voi che impugnate le leve del potere – governi in doppiopetto, consigli d’amministrazione oliati come ingranaggi, alleanze militari dalla voce di metallo – dico che il Vangelo non fa sconti né ammorbidisce la verità. Non domanda tessere, non pretende incenso: impone di riconoscere l’uomo quando lo si vede, di chiamare male ciò che schiaccia l’uomo. «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete accolto» non è un soprammobile pio: è norma primaria scritta con il polso di Dio. Non esistono clausole, non c’è piè di pagina abbastanza piccolo per nascondere l’egoismo. Se volete essere guida e non timone allo sbaraglio, fermate i convogli carichi di morte prima che varchino l’ultima dogana; smontate i macchinari che colano piombo e forgiatene aratri, tubature, banchi di scuola. Portate i bilanci di guerra sulla cattedra di un maestro stanco: trasformate milioni stanziati per missili in sale parto illuminate, ambulanze capaci di raggiungere finanche le sofferenze più remote. E voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier e grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate – se ci riuscite – la locuzione «obiettivi strategici». Il Vangelo – per chi crede e per chi non crede – è uno specchio impietoso: riflette ciò che è umano, denuncia ciò che è disumano. Se un progetto schiaccia l’innocente, è disumano. Se una legge non protegge il debole, è disumana. Se un profitto cresce sul dolore di chi non ha voce, è disumano. E se non volete farlo per Dio, fatelo almeno per quel poco di umano che ancora ci tiene in piedi. Quando i cieli si riempiono di missili, guardate i bambini che contano i buchi nel soffitto invece delle stelle. Guardate il soldato ventenne spedito a morire per uno slogan. Guardate i chirurghi che operano al buio in un ospedale sventrato. Il Vangelo non accetta i vostri comunicati “tecnici”. Scrosta ogni vernice di patria o interesse e ci lascia davanti all’unica realtà: carne ferita, vite spezzate. Non chiamate «danni collaterali» le madri che scavano tra le macerie. Non chiamate «interferenze strategiche» i ragazzi cui avete rubato il futuro. Non chiamate «operazioni speciali» i crateri lasciati dai droni. Togliete pure il nome di Dio se vi spaventa; chiamatelo coscienza, onestà, vergogna. Ma ascoltatelo: la guerra è l’unico affare in cui investiamo la nostra umanità per ricavarne cenere. Ogni proiettile è già previsto nei fogli di calcolo di chi guadagna sulle macerie. L’umano muore due volte: quando esplode la bomba e quando il suo valore viene tradotto in utile. Finché una bomba varrà più di un abbraccio, saremo smarriti. Finché le armi detteranno l’agenda, la pace sembrerà follia. Perciò, spegnete i cannoni. Fate tacere i titoli di borsa che crescono sul dolore. Restituite al silenzio l’alba di un giorno che non macchi di sangue le strade. Tutto il resto – confini, strategie, bandiere gonfiate dalla propaganda – è nebbia destinata a svanire. Rimarrà solo una domanda: Che la risposta non sia un’altra sirena nella notte. Convertite i piani di battaglia in piani di semina, i discorsi di potenza in discorsi di cura. Sedete accanto alle madri che frugano tra le macerie per salvare un peluche: scoprirete che la strategia suprema è impedire a un bambino di perdere l’infanzia. Portate l’odore delle pietre bruciate nei vostri palazzi: impregni i tappeti, ricordi a ogni passo che nessuno si salva da solo e che l’unica rotta sicura è riportare ogni uomo a casa integro nel corpo e nel cuore. A noi, popolo che legge, spetta il dovere di non arrenderci. La pace germoglia in salotto – un divano che si allunga; in cucina – una pentola che raddoppia; in strada – una mano che si tende. Gesti umili, ostinati: “tu vali” sussurrato a chi il mondo scarta. Il seme di senape è minimo, ma diventa albero. Così il Vangelo: duro come pietra, tenero come il primo vagito. Chiede scelta netta: costruttori di vita o complici del male. Terze vie non esistono. Piega, Cristo, l’orgoglio dei potenti, invita chi forgia armi a piegare il ferro in vanghe, chiama ogni coscienza a spalancarsi e difendere il fragile con la testardaggine di chi sa che il bene è moneta che non svaluta. Ogni minuto di ritardo incide un nuovo nome sul marmo. Che questa pagina – spoglia di retorica, ruvida di Vangelo – diventi specchio: chi vi si guarda decida se restare servo della violenza o farsi servo dei fratelli. Il cardinale Domenico Battaglia è l'arcivescovo metropolita di Napoli |
Post n°4145 pubblicato il 06 Luglio 2025 da namy0000
2025, FC n. 26 del 29 giugno Ora la mia casa è aperta al mondo Project manager e formatore di una Ong, il 39enne è stato accolto dal Centro “Ernesto Balducci” di Zugliano. Oggi ospita persone di vari Paesi e promuove scambi culturali nel borgo di Lusevera, dove risiede. «Quando si è riacceso il conflitto in Ucraina, mi trovavo in Messico. Avevo con me solo uno zaino di sette chili, perché ero partito per un viaggio, e poi volevo rientrare a casa, ma non è stato possibile farlo. Sono tre anni che non vedo la mia famiglia». Vitalii Volodchenko, 39 anni, è un project manager e formatore, lavora per Vzayemopomich, una Ong ucraina che ha sede a Poltava, la sua città, nell’Ucraina centrale, circa 300 chilometri a Sudest della capitale Kyiv. «La parola “vzayemopomich”», dice Vitalii, «significa “mutuo aiuto” in lingua italiana. Questa parola vuole dare proprio l’idea dello scambio culturale, dell’incontro fra persone di diversa nazionalità e rappresenta una possibilità per i giovani di viaggiare e fare progetti che li aiutano a crescere e a trovare una migliore collocazione nel mondo». Siamo a Lusevera, in provincia di Udine, un borgo di poco più di cento abitanti nelle Alpi Giulie. Volodchenko ci fa entrare in quella che oggi è casa sua, una vecchia locanda di montagna che sta ristrutturando e in cui ospita, accoglie giovani e persone da ogni parte del mondo. Appena entriamo, ci porta con lui in cucina. Accende il gas sotto la moka già carica per noi e con estrema dolcezza comincia a raccontare. «Non sono più tornato a casa perché non avevo alcuna intenzione di fare la guerra. Lavoro nei progetti di pace, come avrei potuto indossare una mimetica e un’arma. Sono consapevole però che questa scelta ha avuto comunque delle conseguenze negative perché sono rimasto bloccato, lontano dalla mia famiglia e senza poter lavorare, quindi per molto tempo non ho neanche potuto mandare i soldi a casa». Vitalii, nel 2022, non potendo rientrare in Ucraina dal Messico, si ferma in Spagna e poi raggiunge l’Italia, dove deve seguire un progetto per Vzayemopomich. Decide però di volersi trattenere qualche settimana in più oltre il lavoro con l’intenzione di regolarizzare la sua posizione, ma trova difficoltà con i documenti, con l’ottenimento del codice fiscale e soprattutto con l’apertura di un conto bancario. Così, davanti all’unica possibilità di rientrare nel suo Paese per combattere, chiede asilo politico. «Sono stato nel centro di accoglienza “Ernesto Balducci” per sei mesi. Ho vissuto dei momenti terribili, in preda alla disperazione e alla paura, perché quando sei in un posto così, e in una condizione di rifugiato, non sai mai cosa può succederti il giorno dopo. Arrivare in un centro di accoglienza è già una fortuna, però in uno spazio sempre condiviso, come quello, non esiste la tua privacy e non esistono le tue abitudini. Io ero in camera con altre cinque persone: uno arrivava dal Pakistan, due dall’Afghanistan, uno dall’Africa e poi io, dall’Ucraina. Avevamo modi di fare, di relazionarci con l’altro, di vivere tutti diversi, quindi non è stato semplice, a cominciare dal dirci di parlare a voce bassa per non disturbare il compagno di stanza. Poi, finalmente, è arrivata la notizia del permesso di soggiorno», conclude Vitalii. «Ricordo ancora che eri commosso quando sei tornato con il permesso di soggiorno», dice don Paolo Iannaccone a Vitalii. Don Paolo è presidente del centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano, in provincia di Udine, in cui è stato accolto il progettista ucraino che oggi è un vero e proprio punto di riferimento per chi a Lusevera è nato e per chi si è trasferito, dalla Moldavia, dall’Argentina, con la speranza di ricominciare la propria vita lontano dalle guerre, dalle violenze, dall’insicurezza, dalle instabilità sociali ed economiche dei propri Paesi di origine. Vitalii mostra sul suo telefono le fotografie e i video degli eventi che organizza insieme alla comunità alpina e alle altre associazioni locali. Lusevera, già luogo di frontiera per la sua vicinanza alla Slovenia, è diventato uno spazio di incontro per culture diverse, gemellaggi, progetti europei di scambio culturale e formazione giovanile. «Anche per ragioni anagrafiche Vitalii è diventato un punto di riferimento qui al borgo», continua don Paolo, «perché sin dai suoi primi passi fuori dal centro di accoglienza si è messo a disposizione della comunità, occupandosi di fare la spesa alle persone più anziane e qualsiasi altra cosa che poteva essere risolutiva nel semplice vivere quotidiano di un paesino di montagna. Quindi, il suo cuore si è aperto insieme a quello della comunità, c’è stato un incontro e un’accoglienza da entrambe le parti», conclude don Iannaccone, stringendo la spalla di Vitalii in segno di incoraggiamento. |
Post n°4144 pubblicato il 04 Luglio 2025 da namy0000
2025, FC n. 26 del 29 giugno “Negli anni giovanili cercavo la mia strada tra le tante che avevo davanti. La mia scelta di diventare sacerdote, avvenuta in età adulta, è stata l’esito di una lunga ricerca personale in cui ho cercato di far convergere le domande di senso che emergevano fin dall’adolescenza con una conversione avvenuta in un pellegrinaggio ai tempi dell’università. Nella mia scelta è stato importante il mio direttore spirituale, ma ancor di più l’invocazione dello Spirito Santo che mi ha guidato in un tempo decisivo della mia vita a leggere i segni della mia vocazione per arrivare, quando ormai lavoravo da alcuni anni, a capire la chiamata di Dio e a dire finalmente il mio sì. Oggi guardo al tempo della mia scelta con grande riconoscenza a Gesù, perché sento come la sua grazia mi accompagna, guida e sostiene ogni giorno nelle fatiche e nelle responsabilità che mi sono affidate. In fondo ogni vocazione, a partire da quella matrimoniale, è un affascinante cammino in cui impari a interagire con Dio, a capire come e quando ti parla nel corso della giornata, a riferire a Lui ogni cosa e a sapere che tutto è nelle sue mani. Questo mi dà una grande pace nel cuore. Maria, autrice della mia vocazione, mi sostiene nel cammino con la potenza della sua intercessione. Sento, infine, la grande forza che mi viene dalle tante persone che pregano per me, dalla terra e dal cielo. Per questo anch’io prego per tutti voi ragazzi, perché capiate che la vita è una sola e che non va sprecata ma giocata al massimo. Cioè con Dio” |
Post n°4143 pubblicato il 04 Luglio 2025 da namy0000
2025, FC n. 26 del 29 giugno “Non conosco direttamente la guerra, ma solo attraverso i racconti di mia nonna materna rimasta orfana di padre all’età di cinque anni. Quel padre, di cui lei ricordava l’alta figura e i magnetici occhi azzurri, era stato sradicato dalla propria famiglia e dal proprio lavoro per entrare nella spirale di violenze, atrocità e distruzione della Prima guerra mondiale, in cui aveva perso la vita a soli 36 anni. La scritta ‘disperso sul fronte’, che all’inizio aveva lasciato flebili speranze, si era trasformata nel tempo in una tragedia per la loro famiglia di cinque persone. Nessuno aveva più saputo niente di lui; solo recentemente, dopo varie ricerche, si è scoperto che era stato colpito dallo scoppio di una granata e aveva perso entrambe le gambe, sopravvivendo per alcuni giorni in un ospedale da campo. Un’orrenda fine che lui, da persona pacifica e altruista che era, non meritava affatto”. |
Inviato da: vitaslim
il 08/09/2024 alle 08:55
Inviato da: vitaslim
il 08/09/2024 alle 08:54
Inviato da: animasug
il 13/08/2024 alle 15:52
Inviato da: cassetta2
il 05/08/2024 alle 10:19
Inviato da: dailynews1
il 31/07/2024 alle 12:22