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Un mondo nuovo

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Messaggi del 03/03/2020

Matrimonio

Post n°3258 pubblicato il 03 Marzo 2020 da namy0000
 

don Alberto Marsiglia, 59 anni, ‹‹Nelle mie precedenti esperienze alle parrocchie di Santa Lucia e della Pentecoste, sempre a Milano, avevo sperimentato la bellezza della fraternità. Così ho pensato di replicare anche qui e dopo due anni ho incontrato Marco e Lucia, che fin dal loro arrivo in quartiere avevano cercato un sacerdote con cui camminare››.

Dopo le nozze Marco e Lucia erano infatti andati ad abitare in appartamento, prima in una zona residenziale della città, poi nei pressi della parrocchia Sant’Eugenio. ‹‹Ma abbiamo capito subito che l’appartamento ci stava stretto. Desideravamo essere una famiglia al servizio della chiesa locale e il richiamo dell’allora arcivescovo Angelo Scola a vivere la parrocchia ci ha spinti a metterci in gioco››, racconta Lucia mentre dà da mangiare a Giuditta, 9 mesi. Intanto Pietro, 8 anni, Mattia, 6 e Giuseppe 4, giocano tranquilli in salotto. ‹‹Non ci sentiamo super, né vogliamo essere un esempio o la risposta alla famiglia promotrice di evangelizzazione››, aggiunge Marco. Niente incarichi prefissati, dunque, ma la disponibilità a costruire qualcosa assieme alla comunità, a partire dalle reali necessità. ‹‹Quando siamo arrivati ci siamo messi in ascolto delle famiglie del quartiere e, un invito a cena dopo l’altro, è nato un bel bagaglio di prossimità: belle amicizie con cui camminare nel quotidiano e nella fede››, racconta ancora Marco. ‹‹Io quest’anno sono catechista e mi occupo dello spazio bimbi dell’oratorio, ma ogni idea che ci viene in mente non la portiamo avanti se l’impegno non è condiviso con altri››, sottolinea Lucia.

La quotidianità di Marco e Lucia è simile a quella di tante altre famiglie. Lucia lavora come fisioterapista, Marco come giornalista e si sposta tutti i giorni fuori città. Ci sono i figli da accompagnare a scuola, il frigorifero da riempire, la lavatrice da svuotare e il tempo che vola via sempre troppo in fretta. Don Alberto, che vive nell’appartamento al piano superiore della stessa palazzina, è più che di casa: ‹‹Mi hanno adottato e io ho adottato loro. La sera ceniamo insieme, condividiamo il vissuto della giornata e, compatibilmente con gli impegni di ciascuno e il ménage familiare, chiudiamo recitando la Compieta››, racconta. ‹‹Il nostro è l’incontro di due vocazioni e due sguardi diversi. Stando con Lucia e Marco intuisco meglio anche le situazioni familiari che possono vivere i parrocchiani››.

Una volta al mese la “famiglia allargata” si ritrova per la catechesi e periodicamente verifica il proprio cammino. ‹‹Ci chiediamo se stiamo crescendo come famiglia, è la cartina tornasole della bontà di ciò che viviamo››, spiega Marco. ‹‹Questo stile di vita ci sta segnando, per esempio stiamo imparando a concepire il tempo in maniera diversa, mettendo al centro le relazioni››. Per quanto ancora Marco e Lucia vivranno in fraternità in parrocchia è tutto da vedere. ‹‹Non credo che torneremmo in appartamento, ma le esigenze della famiglia avranno comunque la precedenza in ogni ragionamento. Bisogna poi sempre chiedersi che famiglia si vuole essere: la questione non è abitare la chiesa quanto abitare il mondo essendo chiesa››, aggiunge ancora Lucia. ‹‹Si tratta di una forma vocazionale››, chiudono Marco e Lucia. ‹‹Essere “famiglie missionarie a km zero” è una forma di vocazione, non la vocazione: quella è e rimane il matrimonio›› (FC n. 9 del 1 marzo 2020).

 
 
 

Porte sbarrate

Coronavirus, le storie. L’altra emergenza: i dimenticati

Centri diurni, asili nido, attività di inserimento sociale e lavorativo per persone in difficoltà, luoghi di assistenza e riabilitazione: nei dieci Comuni della provincia di Lodi che fanno parte della cosiddetta “zona rossa” i servizi sociali sono sospesi fino a data da destinarsi.
Da una settimana, porte sbarrate e tutti a casa: bambini, anziani, disabili, malati non autosufficienti. Sono centinaia le famiglie coinvolte in questa crisi, che è l’esito del dramma epidemia. S’è spezzata una rete. La battaglia per fermare il coronavirus ha fatto scattare un’altra emergenza: quella dei più fragili, dei dimenticati che in questi (per adesso) 14 giorni di “quarantena” non possono più essere sostenuti dalle strutture di solidarietà che operano sul territorio: onlus, cooperative sociali, associazioni di volontariato.

Spezzata la rete dei servizi sociali.

Un mondo vitale in Lombardia. Una popolazione di quasi 50mila abitanti “blindata”, da Codogno a Casalpusterlengo, da Maleo a Castiglione d’Adda, da Somaglia a San Fiorano, che rischia di implodere, costretta entro i confini di quella che i tecnici chiamano “cintura di sicurezza”, da dove nessuno può entrare né uscire. Quanto durerà? «Non lo possiamo sapere, ma il vero dramma è che nel frattempo non possiamo fare niente, se non stare vicino, magari con una telefonata, ai ragazzi e alle loro famiglie» dice Monica Giorgis, direttore della Cooperativa “Amicizia”, con sede principale a Codogno, che gestisce anche in due filiali, nel comprensorio, 8 tra centri diurni, ambulatori per minori, realtà educative e formative rivolte agli adolescenti e tre residenze sanitarie per disabili. «La maggior parte delle persone di cui si occupa la cooperativa sono persone con autismo o con problemi psichici, che fanno fatica ad accettare un cambiamento della loro giornata – spiega –, che non vogliono rinunciare a una vita piena insieme agli altri: non si va più a cavallo, niente più passeggiate all’aria aperta o gite col pullmino, basta serate in pizzeria o pomeriggi al bar: sono costretti a rimanere a casa tutto il giorno a fare niente». Le loro giornate sono stravolte.

«Come spiegare a un autistico che dobbiamo lasciarlo a casa?»

«Di storie da raccontare ce ne sarebbero tante» prosegue la dottoressa Giorgis. Come questa. Una mamma è alle prese 24 ore su 24 con il figlio autistico, un giovane di 21 anni, che da quando è cominciato l’isolamento in paese si è chiuso in se stesso, non vuole uscire di casa e non riesce a convivere con il padre e la sorella più piccola. E se i genitori cercassero di farlo uscire c’è anche il rischio che scappi chissà dove. I medici e gli operatori sociali (165 persone in tutto) che ancora possono recarsi in sede, inoltre, devono sottostare alla misurazione della febbre e ai necessari controlli medici, i locali devono essere quotidianamente disinfestati. «Grave però è soprattutto la ricaduta sui bambini che devono rinunciare ai trattamenti riabilitativi» conclude Giorgis. Un lavoro interrotto che può causare serie conseguenze nel loro percorso di cura.
L’Officina, nella zona industriale di Codogno, offre lavoro a 7 adulti tra i 25 e i 30 anni con problemi di autismo e a 4 tirocinanti. «Assembliamo componenti in plastica e parti elettriche per diverse ditte della zona – spiega la presidente della cooperativa, Paola Pozzo – ma adesso è tutto fermo, i laboratori sono chiusi e i ragazzi sono spaventati: l’hanno presa male, è difficile far capire loro perché non si può lavorare più e non si sa quando si potrà ricominciare. Ma se l’emergenza dovesse durare ancora molto – dice – è in gioco la nostra stessa sopravvivenza come cooperativa».

La "zona nera" dei carcerati

A Casalpusterlengo ci sono le cooperative Il Ponte, impegnata nella gestione di servizi socio-sanitari, assistenziali ed educativi rivolti a disabili, minori e anziani, e Mamida che si occupa di assistenza a minori, immigrati, disabili e donne in difficoltà. Anche qui le famiglie devono farsi carico dei loro cari per tutta la giornata, senza un attimo di respiro.
E non va dimenticata, poi, la condizione dei carcerati: una “zona nera” che comprende, oltre la cerchia della quarantena forzata nella Bassa Lodigiana, il Milanese, con 19 strutture e circa 9mila detenuti. «Ai volontari è stato interdetto l’ingresso negli istituti, gli incontri e le celebrazioni eucaristiche sono stati annullati e i colloqui ridotti – ha commentato l’ispettore dei cappellani, don Raffaele Grimaldi –. Tutte queste privazioni colpiscono una realtà, quella del carcere, già emarginata dalla società e che avrà come effetto l’assoluta solitudine. Facciamo in modo che non ci sia il “virus” dell’isolamento nei detenuti, perché la paura rende prigionieri di una grande muraglia». (Avvenire, 2 marzo 2020)

 
 
 

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