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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 26/03/2020

Avrò fatto la mia parte?

Avvenire, 25 marzo 2020

Ogni giorno mi corico e mi risveglio con questa domanda: avrò fatto la mia parte fino in fondo? Rispetto ai colleghi in trincea negli ospedali, stravolti dal lavoro incessante ed esposti a un rischio elevato, io medico che lavoro sul territorio sto presidiando con efficacia la situazione? A ben vedere la domanda sulla propria identità, in scienza e coscienza, è già dentro la professione medica, ma oggi viene acuita e provocata dalla pandemia che stiamo vivendo.

Circa 1.700 assistiti col Servizio sanitario, oltre a una quota variabile di privati, conoscenti e amici seguiti attraverso l’attività specialistica e di ricovero in una clinica privata. Quasi 2mila persone che mi stanno a cuore, che mi chiedono incessantemente lumi, consigli, rassicurazioni cliniche e al contempo umane. Due cellulari attivi h24, email, visite domiciliari, videoconsulti: benedette le innovazioni tecnologiche, ben venga la telemedicina...

Il 98% della patologia dominante è simil-influenzale: una miriade di casi, protratti o nuovi, che maledettamente non guariscono, i sintomi delle complicanze in agguato e difficili da valutare con obiettività, la presunzione che quasi tutti siano positivi al virus, anche se il tampone non si può fare. Rari casi gravi in ospedale per ora (a mia conoscenza), ma bastano per stare in angoscia. Le altre patologie ordinarie non sembrano preoccupare più, così come sono scomparse le troppe richieste-pretese di risolvere sintomi indefiniti o 'ipocondriaci'. Il ritornello è per tutti l’isolamento preventivo, specie in ambito familiare (ma è dura nelle nostre piccole case, a volte semplici bilocali), pochi farmaci sintomatici e la registrazione dei cambiamenti clinici da comunicare prontamente. Tante rassicurazioni e consigli.

Basta per tranquillizzare la mia coscienza di fronte alla scienza che vacilla, sfidata da un nemico invisibile, subdolo e inedito? Mi prende l’imbarazzo e il pudore nei confronti di chi lavora in trincea. Ma poi mi dico: da sempre la gente ha fiducia in me, si attende che non vacilli, che offra 'certezze' e speranza, che mantenga il mio posto – in fondo, nelle battaglie questo è il ruolo dei 'soldati semplici'. E allora, mi rinfranco puntando tutto sulla responsabilità sanitaria e insieme sociale che mi compete, alzandone l’asticella, aggiornandomi e di volta in volta modificando le mie risposte in base alle novità, alle scoperte. Una visione globale che ha radicalmente mutato il mio modo di pensare e agire in poche settimane.

Mi sono dovuto adeguare anche con docilità alle direttive sanitarie e sociali, relegando critiche e interpretazioni personali di fronte a incongruenze e omissioni plateali. Non è il momento delle polemiche a buon mercato, degli arroccamenti, della saccenza che noi medici spesso abbiamo predicato. Ora occorre dialogare e collaborare come un corpus unico e unito tra tutte le forze mediche, riservando al dopo le proposte di cambiamento nell’organizzazione sanitaria. Una responsabilità mai sbandierata, ma vissuta come un dovere della professione.

La docilità mai remissiva ma intelligente, capace di fermezza nel farsi sentire. Ma ancor più ora sento il dovere di esprimere una vicinanza umana, perché riesco a comprendere e condividere le fragilità dei miei pazienti così come io stesso le avverto ('dottore, ogni tanto mi pare che mi manchi il respiro, quando devo preoccuparmi?'). Una vicinanza non retorica, ma fatta di gesti concreti, di una maggiore disponibilità, ascolto, comprensione. D’altra parte constato e apprezzo ancor più in questi tempi la riconoscenza e l’affetto che i pazienti mi riservano, preoccupati della mia salute, dei rischi che corro, del carico emotivo. Ancora una volta tocco con mano quanto sia fondamentale la relazione che abbiamo insieme costruito, dove la fiducia è pilastro e garanzia insostituibile.

Dentro questa relazione so di giocarmi tutta la mia responsabilità. Saremo capaci di ricordarcene anche dopo, reciprocamente? Insieme a questi sentimenti mi nasce uno spontaneo affidamento a una dimensione trascendente che si coniuga con una scienza in perenne evoluzione ma incapace di onnipotenza. Una visione dell’uomo a 360°, che non si accontenta di ricette semplici per ogni malanno del corpo e dello spirito. Un affidamento docile e ragionevole, non ingenuo, o devozionale, che anche un non credente può accogliere. In questo vedo l’esemplarità della mia Chiesa ambrosiana e del nostro arcivescovo Mario Delpini, che ci suggerisce a piene mani e in modo creativo parole forti e piene di speranza nel tempo quaresimale. In queste ore buie sento di dover aprire gli occhi perché la paura e la mia inadeguatezza lascino spazio a una vita che è più grande delle nostre piccole vite che ci soffocano, sempre preoccupati delle cose minime.

Presidente Associazione Medici Cattolici di Milano

 
 
 

Giovani consapevoli

Insegniamo ai giovani ad essere consapevoli.

Dietro l’uso di sostanze tra i ragazzi, si cela spesso la semplice incapacità di dire no ai propri coetanei oppure la difficoltà a gestire le proprie emozioni.

Samuel, 13 anni. ha di nuovo litigato con uno della sua età e sta per tirargli un cazzotto. Non fuma e neanche beve. È solo prepotente con gli altri, perché serve a renderlo invulnerabile. M prima di far partire il pugno gli viene in mente una scena. È in classe. L’insegnante ha fatto fare a tutti un esercizio strano: descrivimi come ti senti quando sei arrabbiato. Che sintomi fisici avverti? Raccontami che cos’è che ti fa arrabbiare: gli scherzi? La gelosia? Gli insulti? Si ricorda che la prof gli ha detto di respirare. Ci pensa, e il cazzotto non parte. Gira i tacchi, se ne va. Per la prima volta non ha usato le mani.

Direte: cosa c’entra questo con la prevenzione all’uso di droghe? ‹‹C’entra eccome – racconta Paola G., educatrice professionale – si pensa che chi usa sostanze ha alle spalle famiglie problematiche. Non è necessariamente così. Dietro ci sono molte ragioni: per esempio l’incapacità di dire di no ai propri coetanei, oppure la difficoltà a gestire le proprie emozioni. Sono arrabbiato, mi faccio una canna per calmarmi. Ho l’ansia, sono triste, mi sento inadeguato, uso la droga per stare meglio››. Non sappiamo se Samuel cederà alla tentazione delle sostanze. Ma sappiamo che quegli esercizi gli insegnano una strada alternativa.

‹‹Nelle scuole secondarie di primo grado si usa un programma americano che si chiama LifeSkills Training Program, che abbiamo portato in Italia proprio noi dell’Uos (Unità operativa semplice)12 anni fa – continua l’educatrice – l’insegnante segue il programma: ogni unità rinforza una abilità di vita del ragazzo. L’obiettivo è essere consapevoli di sé, saper gestire la rabbia, l’ansia, avere buone relazioni con gli altri, saper dire di no››.

L’dea è questa: meglio formare un adulto che mostrare immagini truculente sulle droghe. Certamente si parla anche di sostanze, ma in modo diverso: ti sei mai reso conto di quante volte in tv ci sono personaggi che fumano sigarette e bevono? Hai mai guardato con occhi consapevoli le pubblicità online?

Ats Milano lavora su un vasto territorio: Milano, provincia di Milano e Lodi. LifeSkills Training è stato realizzato in 50 scuole secondarie di primo grado, sono stati formati in 12 anni 1.300 insegnanti e nell’anno scolastico 2018/2019 sono stati raggiunti 3.657 ragazzi con il lavoro di 35 operatori. Un altro aspetto importate del programma consiste nella simulazione di comportamenti sani. ‹‹L’idea è esercitarsi a dire di no – continua Paola -: un amico magari mi dice “Vieni con me a fumare, se non vieni sei uno sfigato”. A volte un ragazzo o una ragazza non sa resistere alla pressione dei pari, non è allenato a dire di no nelle situazioni che non gli vanno bene. Alcuni comportamenti si possono però imparare a scuola, per esempio in questi esercizi di simulazione››.

Questo lavoro su se stessi comincia già dalle elementari: in tutta la Lombardia sono 22 le scuole che lo stanno sperimentando. Si insegna ai bambini a prendere decisioni, gli si chiede che emozione provi? Chi è un amico? Si parla di autostima: quali sono le cose che sai fare? Quali sono gli aspetti che ti piacciono del tuo carattere? E quelle che ami del tuo aspetto fisico? Cosa ti dice lo specchio al mattino? E dopo le medie, si estende alle scuole superiori. In questo caso, gli operatori di ATS usano un programma europeo che si chiama Unplugged. Anche in questo caso si lavora sulla simulazione, su come resistere alla pressione dei pari. ‹‹Il loro compito è di sensibilizzare i compagni a dare informazioni corrette su argomenti che li riguardano da vicino – spiega l’educatrice – proprio perché nell’età adolescenziale è spesso più importante quanto viene detto dagli amici rispetto a quanto viene detto dall’adulto e quindi il messaggio trasmesso da un coetaneo risulta essere più efficace›› (Scarp de’ tenis, Febbraio 2020).

 
 
 

Sviluppo integrale dell'uomo

Post n°3289 pubblicato il 26 Marzo 2020 da namy0000
 

I. PER UNO SVILUPPO INTEGRALE DELL’UOMO

1. I DATI DEL PROBLEMA

Aspirazioni degli uomini

6. Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio. D’altra parte, i popoli da poco approdati all’indipendenza nazionale sperimentano la necessità di far seguire a questa libertà politica una crescita autonoma e degna, sociale non meno che economica, onde assicurare ai propri cittadini la loro piena espansione umana, e prendere il posto che loro spetta nel concerto delle nazioni.

Colonizzazione e colonialismo

7. Di fronte alla vastità e all’urgenza dell’opera da compiere, gli strumenti ereditati dal passato, per quanto inadeguati, non fanno tuttavia difetto. Bisogna certo riconoscere che le potenze colonizzatrici hanno spesso avuto di mira soltanto il loro interesse, la loro potenza o il loro prestigio, e che il loro ritiro ha lasciato talvolta una situazione economica vulnerabile, legata per esempio al rendimento di un’unica coltura, i cui corsi sono soggetti a brusche e ampie variazioni. Ma, pur riconoscendo i misfatti di un certo colonialismo e le sue conseguenze negative, bisogna nel contempo rendere omaggio alle qualità e alle realizzazioni dei colonizzatori che, in tante regioni abbandonate, hanno portato la loro scienza e la loro tecnica, lasciando testimonianze preziose della loro presenza. Per quanto incomplete, restano tuttavia in piedi certe strutture che hanno avuto una loro funzione, per esempio sul piano della lotta contro l’ignoranza e la malattia, su quello, non meno benefico, delle comunicazioni o del miglioramento delle condizioni di vita. (Dall'Enciclica Populorum progressio di papa Paolo VI)

 
 
 

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